Corriere della Sera - La Lettura
Tanino Liberatore Creo personaggi che poi vanno da soli
È considerato il «Michelangelo del fumetto» ma si definisce illustratore, è uno dei padri del leggendario Ranxerox ma preferisce qualificarsi come lo «zio». Adesso partecipa alla nuova evoluzione della «paranza dei bambini», il ciclo di romanzi di Roberto
Anche se è stato definito il «Michelangelo del fumetto», Tanino Liberatore non si sente un fumettista. «Sono un illustratore — spiega — e anche se non rinnego niente, anzi, non considero il fumetto il mio medium naturale». Di disegnare tavole su tavole non ha più voglia. E da un po’. C’è una cosa, però, che ancora lo eccita (parole sue): il character
design, l’arte di dare un corpo ai personaggi, trovando quel quid estetico capace di renderli vivi. È quello che ha fatto per i protagonisti dell’universo narrativo creato da Roberto Saviano con La paranza dei
bambini e Bacio feroce. Dopo i romanzi (Feltrinelli), il cinema e il teatro, per Maraja, Briatò, Drone e gli altri è giunta l’ora della reincarnazione in fumetti: i quattro volumi delle Storie della paranza esplorano direzioni finora inedite delle loro esistenze. Un progetto all’insegna della transmedialità che vede coinvolti anche Tito Faraci, co-sceneggiatore, e Riccardo La Bella, disegnatore. «Quella della paranza dei bambini è una storia che sembra inverosimile ma non lo è», spiega Liberatore. «Avevo persino paura di non riuscire a sviluppare i personaggi…».
Quando ha capito di esserci riuscito?
«Quando me l’hanno detto gli altri! (ride, ndr). Per carattere sono molto critico con me stesso. Pure con Ranxerox mi vergognavo a presentare le prime tavole».
Cerino, Tucano, Dentino, Nicolas… tra i bambini della paranza, ce n’è uno che le ha dato filo da torcere?
«Direi Nicolas, perché dovevo dargli un aspetto da ragazzino e da duro allo stesso tempo. Per creare personaggi a fumetti occorre ridurre gli elementi: il problema è riuscire a farli risultare “tipati”, riconoscibili al primo sguardo».
Che cosa si prova a creare dei personaggi per poi affidarli ad altri?
«A me piace vedere come vengono trattati. Mi incuriosisce. Di fronte alle tavole de I teschi dei ladri sono rimasto sorpreso: Riccardo ha tradotto i miei personaggi nel suo linguaggio e questo dimostra che ha carattere».
Lei firma tutte le cover delle «Storie della paranza». Come è nata quella del primo volume, «I teschi dei ladri»?
«Da uno schizzo che avevo fatto per il personaggio di Cerino: è piaciuto a tutti, me incluso, perché ha un impatto forte».
Ritrae Cerino nel cimitero delle Fontanelle di Napoli. Prima di mettersi all’opera ha fatto un sopralluogo in città?
«Ci ho passato qualche giorno, per entrare nei personaggi e nei luoghi. È una città che mi piace. Ci sono stato per la prima volta quando frequentavo architettura: dovevo studiare un palazzo di Aldo Rossi e andai a vederlo con un amico. Il primo impatto fu tremendo: il caos di Napoli mi fece venire un mal di testa mai provato prima! Da allora, però, ci sono tornato spesso, penso sia una delle città più belle del mondo, la sento proche, come dicono in Francia. La sento mia».
La sua carriera nel fumetto è iniziata con la copertina del terzo numero della rivista «Cannibale», 1978: un uomo a torso nudo intento ad autodivorarsi….
«Ero agli inizi, non avevo mai pubblicato nulla prima. L’idea mi venne così, su due piedi, dal nome della rivista».
Cinque anni dopo, un’altra cover, questa volta di un disco: «The Man from Utopia» di Frank Zappa.
«Fu straordinario, Zappa era un mio idolo. Chissà come, aveva scoperto
Ranxerox mentre era in tour in Italia. All’inizio voleva che io e Stefano Tamburini (sceneggiatore di Ranxerox, ndr) facessimo un fumetto su tutti i casini che gli erano capitati in tour, poi cambiò idea e mi chiese solo la cover del disco. Gli dissi: “Mr. Zappa, facciamo così, io mi occupo del front, nel back metto tutto quello che vuoi”. E così è stato. Gli spedii degli schizzi, lui fece solo due appunti: voleva che lo scacciamosche si vedesse meglio, e voleva cambiare chitarra. Mi fece disegnare una Fender, anche se suonava una Gibson: questione di sponsor».
Come mai si definisce «zio», e non «padre», di «Ranxerox»?
«Perché il padre è Stefano! È lui che lo ha creato, io gli ho dato solo l’aspetto fisico, un po’ come ho fatto con i bambini della paranza. Anzi, la prima storia di Ranx, per “Cannibale”, l’ha disegnata Stefano, con le matite mie e di Andrea Pazienza. Mi coinvolse solo quando nacque “Frigidaire” perché lui, che aveva fiuto e ha sempre anticipato i tempi, voleva una rivista colorata, patinata, splendente. Fu il mio primo tentativo di disegnare un fumetto a colori: non avevo tecnica, l’ho sviluppata per Ranx. Stefano era pazzesco: tutto quel che scriveva diventava realtà. Scrisse che ero una stella nascente e mi portò fortuna. Morì pochi mesi dopo aver sceneggiato la storia in cui Ranx si strappa il cuore dal petto. Sono coincidenze, lo so, però, porca miseria, sono strane».
Se dovesse creare una figura diversa da Ranxerox ma egualmente dirompente, che caratteristiche gli darebbe?
«Non è il personaggio a essere forte ma il modo in cui lo si disegna. E io disegno sempre visceralmente. Il disegno non è un calcolo, è un sentimento. Ecco, mo’ faccio pure l’intellettuale!».
A cosa sta lavorando adesso?
«A un altro progetto di character design. Poi spero di dedicarmi a un’esposizione che sarà il mio capolavoro, se avrò tempo e se sarò ancora in vita».
Mai stato tentato dal cinema d’animazione, come altri suoi colleghi?
«Come regista? No, no. Il cinema è ripetitivo, ci sono troppe voci a cui dar retta, troppe responsabilità, è una rottura... Anche se poi, alla fine, il vero problema è che non mi interessa».
E cosa le interessa?
«Il foglio bianco, o la tela, e il primo tratto».