Corriere della Sera - La Lettura
Il romanzo dell’uomo s’intitola Bibbia
La letteratura ha sempre attinto al patrimonio di spiritualità e trame dei testi sacri di ebraismo e cristianesimo: un saggio, una nuova traduzione e una reinterpretazione ora rilanciano una riflessione che tocca anche i non credenti
Se Thomas Mann avesse dovuto misurarsi con le linee per una comunicazione inclusiva proposte dalla commissione europea guidata dalla sua connazionale Ursula von der Leyen, forse avrebbe rinunciato a scrivere quella che considerava la sua opera maggiore, per tema di urtare una parte del pubblico dei lettori riscrivendo la vicenda di violenza ed esilio, tradimento e perdono che occupa quasi metà del libro biblico della Genesi. Fortunatamente il grande scrittore (e risoluto oppositore del nazismo, che quindi di inclusione ed esclusione qualcosa capiva) non aveva di questi problemi e la letteratura del Vecchio Continente può annoverare tra i suoi capolavori il ciclo dei romanzi raccolti sotto il titolo di Giuseppe e i suoi fratelli. Da Mann prende le mosse Piero Boitani nel libro Rifare la Bibbia per guidare il lettore sulle tracce che Antico e Nuovo Testamento hanno disseminato in duemila anni di letteratura occidentale, da Dante a Chaucer, da Shakespeare a Dostoevskij e Pasternak, da Faulkner a Saramago passando per molti altri ancora. Il capitolo finale è dedicato a «uno dei romanzi più belli e commoventi» del Novecento, Giobbe di Joseph Roth (il giudizio è di Boitani e, per quel che vale, è condiviso da chi scrive).
Il conflitto tra l’interpretazione biblica degli ebrei e quella cristiana, già al cuore del Mercante di Venezia e della violenza che lo percorre, viene stemperato e (forse) risolto nelle pagine di Roth. L’inattesa comparsa di Menuchim di fronte al vecchio padre Mendel Singer, pio e devoto ebreo che l’aveva abbandonato da piccolo e a questo attribuiva la serie delle infinite disgrazie attraversate, assume i tratti di Elia araldo del Messia a cui, nella cena di Pesah, è riservato un bicchiere di vino e al tempo stesso di Gesù risorto che appare ai discepoli, nonostante la porta chiusa del cenacolo dove si erano rifugiati dopo la sua morte, secondo il Vangelo di Giovanni. Certo, nell’era della secolarizzazione, il riconoscimento non è scontato. Anzi, lo stesso Menuchim appare estraneo alla fede del padre: in quanto riscrittura del testo biblico, il finale del romanzo risulta aperto alla scelta dei lettori, così come la Parola può essere accolta o rifiutata nella sua pretesa di venire da Dio.
Se la letteratura si nutre di riscritture bibliche, non va dimenticato che le traduzioni del testo sacro ne sono state la prima e più ricca forma, a partire da quella greca cosiddetta dei Settanta del II secolo a.C., passando per la Vulgata di Girolamo alla fine del IV secolo d.C. e le infinite altre che dall’invenzione della stampa in poi si sono succedute. Giacché tradurre è sempre riscrivere o, come sostenne Umberto Eco, «dire quasi la stessa cosa», dove nel quasi si riassumono le differenze di contesto geografico, confessionale e culturale — in altri termini del pubblico cui i traduttori si rivolgono.
La collocazione della Bibbia nella collana «I millenni» di Einaudi chiarisce così l’intento con cui ha lavorato per un quinquennio l’équipe di traduttori guidata da Enzo Bianchi: offrire al lettore una versione italiana degna di un classico della letteratura, libera dal linguaggio ecclesiastico e dai suoi condizionamenti, in equilibrio tra fedeltà filologica al testo e perspicuità linguistica. A questo fine, le note di commento hanno il dichiarato scopo di chiarire i punti di più difficile comprensione o resa, facendo leva su tutta la storia della tradizione del testo biblico; non va dimenticato che la Bibbia ebraica (di cui è qui seguita la disposizione dei singoli libri, differente da quella in uso nelle Chiese cristiane) ha conosciuto la sua forma definitiva solo intorno al X secolo d.C., quando gli scribi (in ebraico: masoreti) ne fissarono il testo, introducendo le vocali che nelle lingue semitiche non erano di norma riportate. Girolamo ela Settanta rappresentano strati testuali anteriori al testo masoretico che possono essere utili per meglio comprendere quest’ultimo, anche se i traduttori einaudiani appaiono molto attenti a non forzarne mai il senso; in questa direzione va pure la scelta di usare brevi citazioni dal testo come titoletti dei singoli capitoli.
La lettura riserva più di una sorpresa. Il tradizionale incipit: «In principio Dio creò il cielo e la terra» è sostituito dal più dinamico «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra…», così che il comando «Sia luce!» suona naturale conclusione delle prime battute. Le prime parole di Qohelet: «Assoluto soffio, assoluto soffio; tutto è un soffio» liberano il testo dal tono moralistico impresso da Girolamo con il suo «Vanità delle vanità...» cui siamo abituati. In qualche caso appare il residuo della stratificazione interpretativa confessionale: nella conclusione della Lettera ai Romani di Paolo il termine diakonos (al maschile) riferito a Febe viene reso con una perifrasi («al servizio della comunità») che non permette di attribuire a una donna un ruolo ecclesiastico attestato in Paolo e negli autori successivi. Maggiore aderenza all’originale avrebbe lasciato percepire al lettore tutta la problematicità legata al passo e alla sua interpretazione.
Altrove il traduttore è costretto ad arrendersi — ed è la migliore scelta. Nel prologo del Vangelo di Giovanni, è lasciato il termine greco Logos, la cui resa con Verbo o Parola (sulla scorta ancora una volta di Girolamo che usa Verbum) non rende la ricchezza semantica dell’originale, che vale parola, ragione, legame, numero, e contava su un imponente retroterra filosofico, fatto proprio in ambito ebraico da Filone di Alessandria, all’incirca contemporaneo di Paolo.
Se la Bibbia einaudiana è rivolta al lettore colto non necessariamente credente, in direzione opposta va il lavoro di Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri, che per Castelvecchi riscrivono Vangeli e Atti degli Apostoli nello spirito del dialogo ebraico-cristiano. L’intento è rintracciare nel greco di questi testi parole ed espressioni riconducibili al contesto di Gesù e delle prime comunità cristiane, che usavano l’aramaico e l’ebraico. Termini come Dio, vangelo (letteralmente «buona notizia»), regno dei cieli, Cristo o battesimo sono sempre resi nella traduzione con Eloqim, besorah tovah, malkhut ha shamayim, Mashiah e tevilah.
L’effetto è un po’ straniante per chi proviene da un retroterra cristiano ma il lavoro contribuisce a rinsaldare la consapevolezza della piena ebraicità di Gesù, accolta dal più recente magistero ecclesiastico. Non manca qualche forzatura. Il prologo di Giovanni è reso così: «In principio era il Davar , e il Davar era presso Eloqim e Eloqim era il Davar». Davar («Parola») può certo stare alle spalle del greco Logos, ma nella traduzione è cancellato il gioco di sfumature per cui il Davar/Logos era Dio (senz’articolo) mentre si trovava presso haEloqim (che sarebbe l’ebraico con l’articolo presente nel greco). Insomma, può darsi che in un ipotetico originale pre-greco Davar e Eloquim coincidessero in unità ma il testo che ci è effettivamente pervenuto ne indica in qualche modo la distinzione. Di fronte ai problemi posti dalla traduzione/riscrittura in latino di questo passo, Tertulliano a volte sceglie di tradurre Logos non con Verbum, la singola parola, bensì con Sermo, che vale «discorso», quasi a ricordare che attraverso la Bibbia Dio continua a parlare a noi, a parlare con noi.