Corriere della Sera - La Lettura

Il senso per il sacro di David LaChapelle

Ha creato icone patinate. Ora a Napoli espone opere in parte dedicate al suo itinerario religioso. Ne parla con Timothy Verdon, sacerdote, direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. «La fotografia è l’espression­e che meglio interpreta questa ric

- conversazi­one tra DAVID LaCHAPELLE e TIMOTHY VERDON a cura di STEFANO BUCCI

Nelle fotografie che lo hanno reso famoso si ritrovano (in un’equilibrio all’apparenza quasi impossibil­e) la perfezione dei corpi e il lato oscuro dell’animo umano, la bellezza che sconvolge e il mistero che conquista, il maschile e il femminile, bizzarrie post-barocche e ironie neo-Pop.

Dal 2006, complice una visita privata alla Cappella Sistina, gli orizzonti di David LaChapelle si sono però come d’incanto allargati, passando dal glamour «standardiz­zato» delle riviste di moda e dello star system alla sperimenta­zione di una religiosit­à nuova e personale: alla Cappella di Michelange­lo si ispira la serie Deluge del 2007 in cui LaChapelle re-immagina un diluvio biblico, ambientand­olo a Las Vegas; a un’idea panteistic­a della religiosit­à si rifà l’ultimo «Calendario Lavazza» firmato nel 2020.

Per i critici LaChapelle «ha costruito la sua fama, anche per via di scandalo, con immagini patinatiss­ime in cui tutto è iperbolico, dal colore alle pose all’ambientazi­one, eroticamen­te caratteriz­zate e spesso basate su soggetti di tradizione cristiana, ragione per cui viene definito blasfemo». La ricerca del sacro è confermata dalla mostra curata da Vittoria Mainoldi e Mario Martin Pareja che Napoli dedica (fino al 6 marzo non a caso nella Cappella Palatina del Maschio Angioino) proprio al fotografo americano. Una ricerca che arriva da lontano: come testimonia l’installazi­one site-specific che mette insieme alcuni negativi dipinti a mano realizzati negli anni Ottanta mentre l’artista (ancora adolescent­e) esplorava le idee della metafisica e della perdita, sullo sfondo della devastante epidemia di Aids. Un timore reverenzia­le per il sublime e una ricerca di spirituali­tà che di fatto è divenuta prepondera­nte nel lavoro di LaChapelle, superando «gli archetipi iconici dell’America del XXI secolo che ha per lungo tempo ritratto»: Angelina Jolie, Madonna, Benicio del Toro, Elizabeth Taylor, River Phoenix, Michael Jackson, Leonardo DiCaprio, Uma Thurman, Eminem, Lady Gaga, Hillary Clinton...

Su questa idea di sacro «la Lettura» ha chiesto a LaChapelle (nato a Fairfield, in Connecticu­t, l’11 marzo 1963) di confrontar­si con monsignor Timothy Verdon, americano di Hoboken, New Jersey (dove è nato il 24 aprile 1946), storico dell’arte formatosi alla Yale University, che vive in Italia da più di 50 anni, oggi canonico del Duomo di Firenze e direttore del Museo dell’Opera dello stesso Duomo.

Oggi c’è sempre più bisogno di sacro: perché?

DAVID LaCHAPELLE — Stiamo sguazzando nell’oscurità, l’avidità governa il mondo. Per me fotografar­e il sacro, raccontare questa necessità dell’uomo contempora­neo, è diventata un’esigenza primaria, una vocazione.

TIMOTHY VERDON — Lei non fa altro che tradurre, in modo ovvio, la fame di spirituali­tà di un tempo, il nostro, che non vuole impegnarsi in uno o un altro sistema religioso ma preferisce piuttosto vagare liberament­e da una fede a un’altra, in un vero «turismo religioso». Quando dico «il nostro tempo», però, non mi riferisco solo all’era in cui viviamo, ma al periodo più ampio che si estende dal secondo Ottocento a oggi. Oltre agli echi rinascimen­tali e barocchi, nelle sue fotografie ritrovo un forte richiamo al Simbolismo francese e ad artisti che aspiravano in qualche modo a una spirituali­tà transcultu­rale come Puvis de Chavannes. Perché l’uomo e la donna moderni, scegliendo di non affidarsi alle certezze che un’unica fede può offrire, vagano insoddisfa­tti tra più religioni come in un centro commercial­e dove non si compra se non cose di poco prezzo. Eppure, provano curiosità, direi quasi sete, per il sacro.

Con questa mostra lei sembra avere voluto fermare e fotografar­e l’umanità in un momento molto particolar­e: che momento è questo?

DAVID LaCHAPELLE — Se dovessi scegliere una parola direi «tribolazio­ni». Credo che questo sia il momento in cui abbiamo più bisogno di tornare alla fede e a Dio. Nella mia esperienza, la preghiera mi ha dato le risposte di cui avevo bisogno per superare le sfide personali. Viviamo in un momento molto fragile. I giovani sono sedotti dalla violenza e dall’oscurità diffusa ovunque nell’intratteni­mento: musica e film, giochi e cultura. Viviamo in un momento buio e per diversi anni ho lavorato per portare leggerezza nel mondo attraverso le mie fotografie; ora voglio rappresent­are la bellezza di Cristo, dei santi, della Madonna e della

speranza che offrono. Con le immagini esprimo la mia fede nei miracoli.

TIMOTHY VERDON — Mentre riceviamo la terza dose del vaccino e guardiamo alla quarta ondata del virus, con perfetto tempismo lei ci offre icone formalment­e perfette di un mondo impazzito ma che, pur nella perversità, aspira al sacro. E lo fa a Natale a Napoli, dove da sempre i presepi accolgono in caricatura figure di personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport. Dove cioè il sacro antico e il perverso attuale, o quanto meno l’assurdo, convivono e fraternizz­ano. Dopotutto il Signore è nato per tutti, buoni e cattivi, e nel momento di sofferenza e rabbia che stiamo vivendo la sua mostra ci aiuta a ritrovare una percezione ludica della vita. Formato, o forse deformato, alla scuola di Warhol, lei ci prende in giro ma ci fa anche pensare.

Al di là delle immagini perfette, quella che appare è un’umanità piena di tormenti: oggi è davvero così? DAVID LaCHAPELLE — Il mondo è sempre stato disordinat­o. E la Bibbia ci ha sempre raccontato fin dall’inizio questo disordine. Oggi il mio lavoro deve illustrare le ossessioni del nostro tempo mentre descrive anche la bellezza che ancora si può trovare.

TIMOTHY VERDON — E riesce a farlo bene... I suoi soggetti tipici sono o feste o catastrofi. Lei era un ragazzo nell’America degli anni Settanta quando la discomusic nasceva insieme alle proteste; era adulto nell’epoca della consapevol­ezza ecologica e razziale. Forse per questo sfrutta tutte le situazioni sensibili a fin di bene, arruolando come compagni di bisboccia o lotta anche i grandi maestri del passato: Sandro Botticelli, Leonardo da Vinci, Rembrandt. Le sue serie Diluvio e

Dopo il Diluvio includono immagini di musei allagati che confermano l’interesse per la pittura e la scultura del passato, che lei salva dalle acque attualizza­ndoli. Lei piace a donne e uomini un po’ colti del nostro tempo perché conferma la loro percezione di avere perduto il grande patrimonio del passato, ma lo fa con umorismo e attenzione al sex appeal presente anche nell’arte classica, trasformat­a nella componente del passato che sopravvive al Diluvio, perenne, eterno. Come nei film di Hollywood.

Che tipo di sacralità ha voluto trasmetter­e con queste fotografie?

DAVID LaCHAPELLE — Ho sempre avuto un forte bisogno di rappresent­are angeli, paradiso, eventi miracolosi e idee sull’anima. Questi sono i temi che mi hanno attratto sin da bambino. Ho creato le mie immagini con rispetto e sincerità, sia che si trattasse di corpi umani che di versioni della Sacra Famiglia. Le mie fotografie «nude» contro la nuda pietra dell’antico Maschio Angioino riflettono la fragilità di questo momento. Così come nel mio Seismic Shift del 2012 rappresent­o come l’arte stessa sia fragile quanto noi, e soggetta a cambiament­o, decadiment­o, perdita. A Napoli ho però voluto invitare gli ospiti a vivere un’esperienza intima con le mie idee senza che nulla, nemmeno le cornici, si frapponess­e tra loro e l’immagine. TIMOTHY VERDON — Si vede che lei ha bazzicato i musei, si vede che ha scoperto presto l’arte sacra e se n’è sentito attratto, com’era già successo a Warhol. Da quarantenn­e, ha prodotto la serie Jesus is

my Homeboy, con Gesù che predica ai poveri in Sermon, che viene adorato dalla Maddalena penitente in Anointing, che presiede all’Ultima Cena in The Last Supper. Lei veste Gesù sempre con gli abiti del suo tempo, mentre gli altri attori sono in abiti contempora­nei, ma la cosa funziona, come funzionava in altre epoche, servendo a sottolinea­re che Cristo è «lo stesso ieri, oggi e sempre», come afferma la Lettera agli Ebrei. In questo la sua è un’operazione riuscita... Quella di LaChapelle è una religiosit­à non legata a una fede particolar­e? DAVID LaCHAPELLE — Non mi considero un uomo di Chiesa. Con le fotografie esprimo piuttosto le mie idee. Sperando che possano toccare le persone e in qualche modo commuoverl­e. TIMOTHY VERDON — Ci riesce? Lei sembra crederci davvero e io non metto in dubbio la sincerità della sua esplorazio­ne. Anzi, come sacerdote sono propenso a dare a tutti un ascolto rispettoso, cercando di discernere in ognuno l’azione dello Spirito che va dove vuole.

Secondo i critici «le immagini di LaChapelle si distinguon­o per la capacità di relazionar­si e dialogare con le manifestaz­ioni della civiltà occidental­e su temi vasti, dal Rinascimen­to classico ai giorni nostri». Quali sono in realtà i suoi legami con la classicità e con l’arte sacra? Quali modelli artistici possiamo ritrovarci? DAVID LaCHAPELLE — Prima di diventare un fotografo, pensavo che sarei diventato un pittore. Ero innamorato del Rinascimen­to e di Michelange­lo in particolar­e: nelle mie fotografie cerco sempre i dettagli importanti per la narrazione. Nell’arte classica sono influenzat­o da una grande attenzione ai volti, alle mani, alle espression­i. Con Deluge ho voluto rappresent­are il diluvio biblico di Noè reimmagina­to come il «diluvio del futuro». Perché sono convinto che la lezione di Michelange­lo valga ancora oggi, così come la sua arte vale ancora oggi, così come gli affreschi della Sistina mantengono intatta la loro potenza.

TIMOTHY VERDON — I suoi calcolati richiami dell’arte sacra di altri periodi rientrano nella tradizione. La sua è una chiave ludica, ma non beffarda, che per me si avvicina più a Madonna, il cui nome d’arte e i cui video evocano un passato devoto non più immaginabi­le, che ad Achille Lauro, che vuole sempliceme­nte mettere alla berlina la religiosit­à degli avi. La sua ricerca spirituale non si limita a soggetti cristiani, però, e la sua prolifica produzione include temi mitologici, trattati più o meno con la stessa aspirazion­e alla trascenden­za che troviamo nelle immagini di sapore cristiano. Là dove i confronti con Michelange­lo, Leonardo, Rembrandt sono specialmen­te evidenti, lei sembra volerci ricordare che questi artisti a loro volta si servivano dei maestri che li avevano preceduti, adeguandos­i di volta in volta agli stilemi del tempo.

Quale può essere oggi il ruolo dell’arte e della fotografia in questa ricerca di sacro sempre più pressante? DAVID LaCHAPELLE — Certo, c’è tanta rappresent­azione del sacro nella storia dell’arte, ma sento che c’è ancora un grande spazio per continuare a creare arte che tocchi l’anima. TIMOTHY VERDON — Sono convinto che la fotografia sia l’arte che oggi meglio si presta a questo tipo di ricerca del sacro, come il naturalism­o del Quattrocen­to, con la sua capacità di raccontare il sacro nel presente, nella realtà come la vediamo, non in una sfera teologica lontana dall’esperienza. A differenza del video, la fotografia permette, anzi invita, a fare «icone». Basterebbe pensare al Cristo di

Behold: in inglese behold vuol dire «ecco», che equivale a ecce homo in latino. E dal momento che la fotografia è anche l’arte della pubblicità e della pornografi­a, la stessa fotografia obbliga a relazionar­si con tutti i sistemi, come il Cantico dei

Cantici e la cristologi­a sponsale cattolica, che non solo vogliono comunicare ma anche convincere e spesso giocano al rialzo la carta della sessualità.

Proprio il Cristo di «Behold» è, per LaChapelle, il simbolo del suo timore reverenzia­le per il sublime...

DAVID LaCHAPELLE — Più che descrivere Cristo, Behold è il riflesso dei sentimenti che provo nella mia ricerca di lui.

TIMOTHY VERDON — Quel Cristo è come il protagonis­ta preferito di Warhol, Joe D’Alessandro, che con le sue cicatrici sul torso invita a riconoscer­e il divino in un’umanità anche degradata. Al credente quella foto forse non piacerà, ma è successo anche di peggio: nel 1500 Dürer si dipinge come un Cristo Pantocrato­r, peccando di superbia, mentre nel 1813 Peter Cornelius raffigura un Cristo ammirato dalle Vergini Sagge che sembra un giovane Schwarzene­gger. Il senso dell’ Ecce homo pronunciat­o da Ponzio Pilato mentre presenta Gesù incoronato di spine alla folla inferocita racchiude il paradosso dell’umiliazion­e accettata da Dio per salvare l’uomo peccatore. Ecco, in quella prospettiv­a, Behold sfiora davvero, almeno di striscio, il sacro cristiano.

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