Corriere della Sera - La Lettura
Famiglie di dei poco spirituali ma molto pratici
Genealogie e metamorfosi Tratti comuni fra India, Grecia e Roma classiche, mondi nordici
Anche se il concetto di indoeuropeo è puramente linguistico, ipotizzare l’esistenza di questa lingua, a partire dagli isolati frammenti che gli studiosi sono riusciti a ricostruire, ha portato a ipotizzare l’esistenza di un gruppo di parlanti caratterizzati da una certa cultura, della quale la lingua stessa era specchio.
Già sul finire dell’Ottocento si erano individuati alcuni tratti comuni degli Indoeuropei: contadini e allevatori di bestiame, dotati di una salda struttura sociale, retti a regime monarchico, religiosi, dotati di un forte senso della famiglia. Oggi si parte dalla premessa che la cultura indoeuropea possa essere ricostruita comparando dati analoghi in differenti ambiti, anche se suscettibili di variazioni lessicali. Per esempio, in Irlanda e Germania, ma anche in India e nell’antica Roma, il lupo, sebbene con termini diversi, indicava metaforicamente lo straniero ostile o il criminale espulso dalla sua tribù. La scoperta e la definizione di una ideologia indoeuropea tripartita si deve allo studioso francese Georges Dumézil (1898-1986), che a questa problematica ha dedicato la sua lunghissima attività scientifica: secondo lui la cultura indoeuropea inquadrava ogni aspetto della realtà in tre funzioni: sacrale, militare, economica.
I primi tre re di Roma rappresentano nettamente le tre funzioni: Numa Pompilio, fondatore di culti, incarna il sacro; Tullo Ostilio è il guerriero rozzo e brutale; infine Romolo, che protegge i pastori, fonda la città e procura mogli ai suoi uomini, esprime la funzione economica, della quale fanno parte il matrimonio e la fertilità. Anche il culto di Giove, Marte e Quirino nel tempio capitolino (la triade anteriore a Giove, Giunone e Minerva) esprime le stesse funzioni, unite a indicare la perfezione del centro religioso della città, garanzia di forza e durata.
Nell’ambito religioso le difficoltà ricostruttive sono dovute anche al fatto che gli Indoeuropei non davano importanza alla figura specifica del dio, ma alla sua funzione, così da poter continuamente creare o recepire dall’esterno nuove divinità, assimilandole al dio che già esisteva o che si voleva sostituire (sincretismo religioso). Anche i Romani, ogni volta che venivano a contatto con la religione di un popolo «barbaro», attribuivano agli dei il nome della divinità romana secondo loro corrispondente: in Tacito i germanici Wodanaz, Dunaraz e Teiwaz diventano Giove, Ercole e Marte. La di
vinità indoeuropea ricostruita con maggiore sicurezza è Djews, da cui il greco Zeus pater, il latino Iu(ppiter) ,e l’ittita Sius («dio»), con cui l’uomo indoeuropeo si pone in rapporto utilitaristico, non certo affettivo. L’uomo non ama gli dei e gli dei non amano l’uomo, ma fra loro s’instaurano transazioni reciprocamente utili. L’uomo compie i sacrifici (compresi quelli umani), per avere in cambio dal dio beni terreni, come salute, bestiame abbondante, figli robusti, vittoria in guerra. Il sacrificio è un do ut des caratterizzato da estremo formalismo giuridico: l’orante deve attenersi a formule pronunciate senza errori.
Per questo a Roma o in Grecia chi invoca il dio può cautelarsi aggiungendo: «O con qualunque altro nome vuoi essere invocato». Sebbene la religione ufficiale non affrontasse questioni metafisiche, in parallelo esistevano forse forme di fede che si ponevano domande sulla vita dopo la morte; la credenza nella metempsicosi, riscontrata sia tra i Celti sia nella più antica cultura indiana, è possibile eredità indoeuropea, come pure la speranza in una vita ultraterrena, eterna e felice, da trascorrersi in luoghi fertili e ameni, i Campi Elisi o le isole dei Beati dei Greci, o la Terra dei Viventi degli Irlandesi, pensate come lontane isole occidentali, dove un eroe poteva arrivare per nave dopo avere superato inaudite difficoltà.
Il felice destino era dunque per pochi eletti, mentre per la stragrande maggioranza l’Oltretomba era un mondo orribile e oscuro: Achille infatti afferma di volere essere l’ultimo dei teti, i miseri braccianti dei contadini, piuttosto che il re di tutti i morti. Una visione pessimistica connessa con la ricerca della gloria immortale, come unica forma di sopravvivenza desiderabile per il guerriero.
Una parte essenziale dell’originario pantheon indoeuropeo è che le divinità sono concepite esclusivamente di sesso maschile, concezione che riflette una struttura sociale androcentrica, in cui la famiglia è sottoposta all’autorità praticamente illimitata del capostipite maschile, da intendersi come il
paterfamilias romano, tanto che l’attributo di «padre» è dato anche agli dei, non per indicarli come creatori (il concetto di creazione è inesistente), ma per sottolinearne il potere di vita e di morte sugli uomini. Questa struttura è evidente in India, dove tutte le grandi divinità sono maschili, e le divinità femminili s’incontrano solo come personificazioni di fenomeni naturali di genere grammaticale femminile (la Notte, l’Aurora...) o come mogli degli dei, così insignificanti da avere un nome costruito aggiungendo un suffisso femminile a quello del marito: la sposa di Varuna è Varunani, quella di Indra è Indrani. Analogamente, la casa (doms) è dominata dal signore (doms-potis), che in greco diventa despótes. Il femminile potniH, «signora», non deve far pensare a una pari autorità della moglie ma indica «colei che appartiene al potis». Le grandi divinità femminili arrivano soltanto quando le tribù indoeuropee vengono a contatto con culture dove la donna aveva una posizione rilevante; figure come Giunone o Afrodite non sono certo eredità indoeuropea.