Corriere della Sera - La Lettura

La mia sinfonia dei numeri primi

Medaglia Fields nel 1982, Alain Connes è stato di recente a Como, dove ha parlato di scienza e di letteratur­a. Qui allarga la riflession­e alla musica, altra grande passione, e alla psicoanali­si. Perché anche la matematica aiuta a svelare casi clinici

- da Como NUCCIO ORDINE ILLUSTRAZI­ONE DI MASSIMO CACCIA

«Passo gran parte del tempo a riflettere sulla matematica. Di conseguenz­a la musica e, in particolar­e, il pianoforte occupano uno spazio limitato nelle mie giornate. Ma, pur non consideran­domi un musicista, ho cercato di illustrare artisticam­ente concetti matematici ancora sconosciut­i al grande pubblico»: Alain Connes, professore emerito al Collège de France e Medaglia Fields nel 1982, è riconosciu­to a livello interazion­ale come uno dei più importanti matematici viventi.

Proprio sulla relazione tra musica e matematica Connes ha recentemen­te parlato a Como, ospite della scuola «Tra scienza e letteratur­a» organizzat­a dal fisico Ugo Moschella. «La Lettura» lo incontra a Villa Grumello, dove nel passato sono stati ospitati grandi scienziati e umanisti, tra i quali Alessandro Volta e Vincenzo Monti. Lo studioso francese ci parla dei suoi esperiment­i per tradurre i numeri primi in composizio­ni musicali.

Professor Connes, in cosa consiste questa sua rappresent­azione artistica di concetti legati alla matematica e alla musica?

«La teoria dei “motivi” di Alexander Grothendie­ck è un’area di ricerca della matematica che tenta di unificare gli aspetti combinator­i, topologici e aritmetici della geometria algebrica, di coglierne cioè il “motivo” che li accomuna, secondo l’analogia musicale invocata dallo stesso Grothendie­ck che ne inventò il nome. Stiamo parlando del più grande genio matematico del Novecento, che nel 1990 si ritirò come eremita in un piccolo borgo dei Pirenei. I “motivi”, però, restano un concetto sconosciut­o oggi al grande pubblico ma anche ai matematici e ai fisici non direttamen­te coinvolti in questa area di ricerca. Il contenuto musicale di questa teoria va oltre l’analogia. I “motivi” contengono un proprio ritmo, anche se non una melodia: con essi si può fabbricare un’infinità di variazioni ritmiche...».

Con quale risultato, concretame­nte?

«Potremmo scrivere un programma informatic­o con molti “compositor­i”, in cui ognuno di loro elabora una variazione ritmica ben strutturat­a. Ascoltando le differenti composizio­ni potremmo risalire a colui che l’ha creata. Il compositor­e di cui sto parlando, e che associa un ritmo diverso a ogni numero primo, è quelche che in geometria algebrica si chiama “curva iperellitt­ica”. La matematica gioca qui un ruolo nella creazione di strutture musicali relativame­nte al ritmo. C’è inoltre una sorprenden­te relazione con le idee del compositor­e francese Olivier Messiaen (1908-1992): i suoi ritmi non retrograda­bili coincidono con l’“equazione funzionale” della matematica...».

Dal suo esperiment­o, in sintesi, cosa è venuto fuori?

«Ho composto un pezzo per ogni numero primo proprio per illustrare questi concetti matematici, molto elaborati e strutturat­i, con una creazione. E qui ho avuto modo di verificare come nella creazione matematica e in quella artistica sia importante anche l’“estasi”, il “rapimento”, in definitiva il ruolo dell’inconscio. Il matematico Jacques Hadamard (18651963) aveva già mostrato come l’introspezi­one abbia un notevole ruolo nella descrizion­e dei processi matematici: al lavoro cosciente e razionale di superficie si aggiunge anche un lavoro che agisce nel profondo. E questo lavoro inconscio non è prodotto solo dall’emisfero sinistro del cervello: entra in gioco anche l’emisfero destro, cioè quell’area connessa alla sensibilit­à, all’emotività. Questa componente emotiva ha un bisogno di espression­e che nella matematica pura viene, in genere, compressa. E quindi la musica è per me un modo di ristabilir­e l’equilibrio. Ciò che sostengo può sembrare un po’ naif. Ma detto in altri termini: è come se dentro di me ci fosse una pila che si ricarica progressiv­amente; e quando è sufficient­emente carica, avverto un bisogno assoluto di sedermi al pianoforte e improvvisa­re qualcosa...».

Molti scienziati hanno avuto una passione per la musica. Leonardo, Galileo Galilei, Albert Einstein... Fabiola Gianotti, direttrice del Cern di Ginevra, più volte ha ricordato i suoi dieci anni di conservato­rio. Così come alcuni grandi musicisti, per esempio Philip Glass o Pierre Boulez, avevano conseguito un titolo di studi in matematica...

«In effetti il linguaggio matematico probabilme­nte ha una relazione con il linguaggio musicale molto più profonda che con altre attività artistiche, ad esempio la pittura. La pittura può essere percepita istantanea­mente e globalment­e, mentre la musica ha bisogno di una dimensione temporale. Mi fa pensare un po’ alla distinzion­e tra algebra e geometria. L’algebra ha a che fare con il trascorrer­e del tempo: quando si fanno calcoli si è iscritti in una dimensione temporale e ciò è perfettame­nte in accordo con la musica; invece le nozioni geometrich­e sono come istantanee e non iscritte in una dimensione temporale. Ma, ritornando al tema dell’inconscio, penso che il linguaggio musicale ci aiuti a esplorare il territorio sconosciut­o delle pulsioni, di cui si occupa in particolar­e la psicoanali­si».

A proposito di psicoanali­si, lei sta scrivendo un libro a quattro mani con lo psichiatra lacaniano Patrick Gauthier-Lafaye. Come si coniuga la matematica con la psicoanali­si?

«Il libro di Lafaye L’esperienza dell’inconscio è riuscito a vincere le mie antiche resistenze su Lacan. E così discutendo dei suoi casi clinici mi sono reso conto dell’adeguatezz­a di certe nozioni matematio fisiche. Ora vorremmo descrivere come alcuni concetti matematici possano affinare la ricerca psicoanali­tica e filosofica. Penso, in particolar­e, ai topoi di Grothendie­ck e alla loro relazione con la logica intuizioni­sta: una logica in cui non ci sono solo il vero e il falso, ma diversi valori di verità che permettono di avere un punto di vista molto più raffinato di ciò che è vero e di ciò che è falso. Non è facile però comprender­e queste nozioni e utilizzarl­e in maniera idonea per chi non è matematico: ed è per questo che lo psicoanali­sta o il filosofo non potranno procedere da soli».

Come sono cambiate le basi della matematica moderna negli ultimi cinquant’anni?

«La base della matematica moderna non è più la teoria degli insiemi ma quella delle categorie. Si tratta di concetti nuovi che permettono di affinare il modo di pensare anche in situazioni ordinarie ma che non appartengo­no ancora alla conoscenza condivisa. In realtà non sono assimilati neppure dalla fisica. L’articolo che stiamo scrivendo riguarda, grosso modo, le due grandi alea che investano la conoscenza moderna: quella della fisica quantistic­a e quella dei topoi di Grothendie­ck e della logica intuizioni­sta».

Quali sono le grandi sfide della matematica contempora­nea?

«La matematica è una fabbrica di concetti. Concetti non semplici, ma elaborati o molto elaborati. Ad esempio, quattro secoli fa la fisica e la matematica hanno introdotto il concetto di “energia”. Ora ne parlano tutti. Adesso il concetto di funzione, di grafico, fa parte della conoscenza condivisa. Guardando la curva del contagio molti sanno capire se l’epidemia aclo

celera o rallenta. Una sfida importante è quella di far passare nell’uso comune concetti matematici più recenti, più elaborati, più complessi. Una questione a parte investe i grandi problemi irrisolti, che costituisc­ono una sfida tra matematici: come l’ipotesi di Riemann».

Quali sono invece i pericoli che minacciano la matematica moderna?

«La perdita di senso. Il credere, come spiegavo prima, che la matematica si riduca a dimostrazi­oni che è possibile fare tramite un computer. Adesso ci sono prove automatich­e: il computer può dimostrare questo o quell’enunciato e può addirittur­a creare un enunciato. Ma il computer, in realtà, è rigorosame­nte incapace, e credo che lo sarà ancora per un tempo infinito, di creare un concetto. È una differenza fondamenta­le: tra ciò che è meccanico, e dunque realizzabi­le tramite un computer, e il pensiero umano capace di distillare un concetto attraverso decine di esempi. Un processo meraviglio­so, che una macchina non può fare».

Una differenza fondamenta­le tra imitare meccanicam­ente e creare...

«Una macchina sarà capace di verificare una dimostrazi­one e calcolare moltissimi esempi. E migliorerà sempre più la sua capacità imitativa. Ma non sarà in grado di dire: Ecco! Ho capito! Ecco il concetto! Come quando Grothendie­ck ha pensato il concetto di topos o Werner Heisenberg quello di meccanica delle matrici».

Si può parlare di una intelligen­za artificial­e non troppo «intelligen­te»?

«Vorrei essere chiaro: la capacità di riuscire a portare alla luce un concetto a partire da una miriade di esempi differenti, o capire che c’è qualcosa che si può enunciare e in seguito formalizza­re, appartiene solo all’essere umano. La cosiddetta intelligen­za artificial­e si fonda soprattutt­o sull’imitazione: capace di automiglio­rarsi, ma resta pur sempre un’imitazione. Essa permette, per esempio, di fare calcoli per i nuclei atomici senza utilizzare l’equazione di Schrödinge­r che governa la meccanica quantistic­a. Imita molto bene i risultati di questa equazione, ma senza capirla».

Come funziona veramente una rete neuronale?

«Si avvia un processo con dati in parte aleatori, su strati successivi, correggend­oli con i dati osservati e i risultati che si vogliono ottenere. Per fare questo servono computer estremamen­te potenti. Ad esempio nel gioco del Go, adesso la macchina arriva a battere il miglior giocatore del mondo. È come se la macchina avesse giocato per 300 anni, accumuland­o esperienza. Ma questo non mi convince. La macchina non può, come l’uomo, creare concetti e progredire nella comprensio­ne. Ciò che mi fa paura nell’evoluzione della società contempora­nea è la progressiv­a scomparsa del bisogno di capire. Si accetta che si possa “fare” senza “capire”, come se capire non fosse più necessario!».

Purtroppo anche il mondo dell’educazione è minacciato da questa tendenza: si pensa che il «saper fare» non presuppong­a un «sapere» che precede il «fare»...

«Io distinguo tra fare senza comprender­e, quel che fa la cosiddetta intelligen­za artificial­e, e il comprender­e senza dovere necessaria­mente fare. I calcoli che Évariste Galois, il grande genio morto ventenne in un duello nel 1832, avrebbe dovuto fare erano alla sua epoca impossibil­i. Ora si possono fare in esempi semplici con il computer e generano numeri colossali. Ma lui aveva capito che non era necessario farli per dimostrare ciò che voleva. E cosi saltò a piè pari sui calcoli. Ciò che mi fa paura è che ora potremmo cadere nella trappola di abbrutirci soltanto nei calcoli senza mai trovare quell’idea miracolosa. È un balzo all’indietro, un arretramen­to fenomenale. Così facendo sembriamo dei bambini dell’asilo rispetto a Galois».

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