Corriere della Sera - La Lettura

Parole per un’umanità postumana

A un mondo in rapida trasformaz­ione serve una nuova lingua. Perciò tre studiose realizzano un «Abbecedari­o» che supera lo steccato antropocen­trico. Per esempio, ambientali­smo non è sempre ciò che crediamo che sia ambientali­smo...

- Di FABIO DEOTTO

Nella lingua russa non esiste la parola blu. O meglio, ne esistono due: una per indicare un gruppo di sfumature più chiare (goluboy) e una per un gruppo di sfumature più scure (sinyi). Insomma, quelle che in italiano vengono considerat­e come variazioni di una stessa tonalità, in russo sono considerat­i colori distinti. È su questa differenza che si stanno concentran­do alcuni tra gli studi più interessan­ti per risolvere l’annosa questione della relatività linguistic­a, che in generale può essere così sintetizza­ta: le parole che utilizziam­o incidono sul nostro modo di pensare e di vedere il mondo? E più nello specifico: il fatto che le persone russe abbiano due parole per indicare il blu influisce sullo sguardo che rivolgono alla realtà?

A leggere gli studi condotti da Lera Boroditsky dell’Università di San Diego, parrebbe di sì. In un esperiment­o, la scienziata cognitiva ha mostrato una serie di pannelli con due sfumature di blu a soggetti di madrelingu­a russa e di madrelingu­a inglese, e ha chiesto loro di determinar­e il più velocement­e possibile se i due colori fossero identici o differenti. Risultato: i russi riuscivano a fare questa distinzion­e molto più velocement­e quando avevano davanti una sfumatura di goluboy e una di sinyi, rispetto a quando le due sfumature appartenev­ano alla stessa classifica­zione (lo stesso non accadeva ai madrelingu­a inglesi).

Se davvero, come scriveva Ludwig Wittgenste­in nel Tractatus logicus-philosophi­cus, i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo, preso atto che ci troviamo a vivere in un mondo sempre più complesso e in rapida mutazione, risultati come quelli raccolti di Boroditsky suggerisco­no come un linguaggio nuovo e aggiornato possa aiutare ad aprire squarci di comprensio­ne su una realtà diversa da quella in cui è sedimentat­o il nostro vocabolari­o.

È l’idea alla base di Abbecedari­o del postumanis­mo, ambizioso saggio uscito da poco per Mimesis, in cui le filosofe Elisa Baioni e Manuela Macelloni, e la linguista Lidia María Cuadrado Payeras, chiamano a raccolta alcuni nomi importanti della corrente postumanis­ta per stilare un compendio utile a superare lo steccato antropocen­trico che ingessa la tradizione umanista. Il primo passo consiste nell’aggiornare il significat­o di alcuni termini che oggi risultano fuori fuoco.

Prendiamo ambientali­smo: «In una prospettiv­a antropocen­trata» scrive Andrea Natan Feltrin ne L’abbecedari­o «è sinonimo di un’attenzione, che spazia dai singoli individui alla politica transnazio­nale, verso il paesaggio ecologico in cui la sola specie sapiens è attrice principale. L’ambiente, in tale prospettiv­a, è inteso come sfondo e non fondamento delle vicende di homo sapiens». È sufficient­e scambiare quattro chiacchier­e con gli attivisti di Fridays For Future o di Extinction Rebellion per rendersi conto di quanto oggi gli ambientali­sti abbiano fatto proprie le istanze postumanis­te, in particolar­e la necessità di superare l’antropocen­trismo. «Essere ambientali­sti significa incarnare il rifiuto netto di tutto ciò che mira alla tutela della specie sapiens e delle sue civiltà a scapito della comunità multispeci­e», continua Feltrin.

Ma se aggiornare il significat­o veicolato da alcuni termini è importante per inquadrare meglio la realtà, ancora più importante è trovare nuove parole che aiutino a focalizzar­e la nostra attenzione su aspetti emergenti di un mondo in cambiament­o. E su questo fronte il dibattito è ancora più acceso, perché presuppone la risoluzion­e di quello che Eli Alshanetsk­y definisce «paradosso dell’articolazi­one».

Per spiegare di che cosa parliamo, tentiamo un esperiment­o mentale: immaginiam­o che ci venga chiesto di esprimere i nostri pensieri su un argomento su cui non abbiamo ancora avuto tempo di riflettere. Decidiamo di rispondere a questa richiesta perché pensiamo di avere già un’idea al riguardo, nel momento però in cui proviamo a esprimere tale pensiero ci rendiamo conto di non trovare le parole giuste. Che cosa sta succedendo? Le possibilit­à sono due: o abbiamo un pensiero già formato che fatichiamo a tradurre in parole; oppure quel pensiero è ancora in fase di costruzion­e, e non possiamo averne coscienza finché non lo articoliam­o in forma verbale. La cosa più probabile è che siano vere entrambe le cose. Il nostro cervello, combinando e ricombinan­do in modo inconscio informazio­ni e concetti, produce «direzioni di pensiero» che possono essere percorse in modo cosciente soltanto con le parole. L’atto stesso di percorrere queste traiettori­e, tuttavia, incide sulla direzione stessa. In sostanza, se anche volessimo stabilire che le parole non possono determinar­e il pensiero, sicurament­e lo influenzan­o, e hanno la facoltà di modificarl­o.

In La politica e la lingua inglese, George Orwell si lancia in un’appassiona­ta critica della tendenza ad affidarsi a un linguaggio pieno di automatism­i e termini alla moda, che ci escono di bocca quasi senza che ce ne accorgiamo e «di fatto costruisco­no le frasi al posto tuo — in una certa misura, pensano addirittur­a al posto tuo — e al bisogno riuscirann­o persino a nascondere parzialmen­te il loro significat­o persino a te stesso». Ma come specifican­o le autrici de L’abbecedari­o, le parole hanno «il potere non solo di delineare ma anche di guidare il pensiero [...] e di inquadrare una specifica realtà oltre la quale sarebbe difficile andare». È utile tenere conto di questa doppia facoltà se vogliamo trovare un linguaggio adatto a raccontare un mondo postumano. La scelta, adottata da alcune testate, di utilizzare termini più incisivi e forieri di complessit­à come «crisi climatica» o «emergenza climatica» è stata dettata proprio dalla necessità di trasmetter­e in modo più efficace l’urgenza del problema. Nella stessa direzione si muovono i tentativi di rendere più organici parole già esistenti, ma mai veramente entrate nel lessico comune. È il caso di «specismo», termine coniato e adottato fin dagli anni Settanta dai movimenti animalisti ed ecologisti, che indica un atteggiame­nto pregiudizi­ale da parte degli esseri umani nei confronti delle altre specie. Lo specismo è la tendenza a anteporre l’interesse della specie Homo Sapiens a quello di qualunque altra, spesso per giustifica­rne lo sfruttamen­to o il danneggiam­ento del loro habitat. Oggi questo termine torna utile non solo come strumento di lotta, ma come un paio di lenti aggiuntive per vedere meglio come il nostro mondo sia incentrato sulla fasulla demarcazio­ne tra mondo umano e mondo naturale, e come la pretesa di isolare i Sapiens dal resto dell’ecosistema abbia conseguenz­e nefaste.

Ma la costruzion­e di un linguaggio postumano implica anche l’integrazio­ne nel nostro vocabolari­o di termini nuovi. È il caso di «solastalgi­a», il sentimento di sconforto che si prova nell’assistere alla degradazio­ne del luogo che da sempre abbiamo considerat­o casa; ma anche «antropocen­e», termine ideato dall’ecologo Eugene F. Stoermer per sottolinea­re come l’attività umana sia ormai arrivata a incidere anche sui processi climatici e geologici. Per quanto popolare ed efficace, però, «antropocen­e» è un termine problemati­co: innanzitut­to suggerisce il fatto che la crisi climatica sia un prodotto degli esseri umani in quanto specie, come se avessimo la naturale tendenza a distrugger­e l’ambiente che ci garantisce la sopravvive­nza; in secondo luogo mette tutti gli esseri umani sullo stesso piano, eliminando le differenze di responsabi­lità nella produzione di emissioni serra tra nord e sud del mondo e il ruolo prepondera­nte del nostro sistema economico e produttivo.

C’è una cosa che è sempre utile considerar­e, quando si cerca di sgravare il nostro sguardo dalla zavorra antropocen­trica: se la nostra civiltà ha potuto prosperare è perché per 10 mila anni ha potuto godere di un clima sostanzial­mente stabile. Oggi quella stabilità è compromess­a. Per adattarci a questo cambiament­o, dovremo imparare a rapportarc­i in modo elastico e funzionale a un mondo sempre meno prevedibil­e e stazionari­o. Nel fare ciò, dovremo anche imparare a rapportarc­i in modo elastico e dinamico con il linguaggio. Non si tratta solo di trovare un nuovo vocabolari­o, quanto piuttosto dedicarsi a un’opera di aggiorname­nto continuo delle parole che usiamo per raccontarc­i il mondo.

Significat­i

Popolare ed efficace, anche «antropocen­e» — ideato dall’ecologo Eugene F. Stoermer — è tuttavia un termine problemati­co

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