Corriere della Sera - La Lettura

Ulisse, l’esiliato che porta alla Bibbia

- Di MAURO BONAZZI

Nell’estate del 1936 la Grecia era tornata a casa. A Berlino fervevano i preparativ­i per l’Olimpiade, e Leni Riefenstah­l aveva iniziato a girare Olympia. Le prime scene del film parlano da sole: ci sono le statue greche, di dèi, eroi e atleti, che a poco a poco si animano slanciando­si alla volta di Berlino. La cinepresa restituiva vita alle pietre, rimaste silenti per secoli. E quando la fiamma dei tedofori si accende nello stadio di Berlino in un trionfo di mani tese, l’epifania si compie. La Grecia era tornata a vivere. La Germania hitleriana era la nuova Grecia, l’erede e la guardiana della tradizione europea.

Quella fu anche l’ultima estate a Berlino per Erich Auerbach, professore di letteratur­a, autore di un saggio stupendo su Dante. Era stato appena licenziato perché di «razza ebraica», e si stava preparando per un viaggio in direzione opposta, via dalla Germania, in esilio. Non era il solo: in quegli anni si assistette a un esodo di scrittori, pensatori, intellettu­ali, prima dalla Germania e poi anche da altrove, dalla Francia ad esempio, a mano a mano che le orde hitleriane dilagavano nel continente. A pesare non erano soltanto i disagi materiali, una mancanza di prospettiv­e sempre più cupa. A tormentare le coscienze di tutti era anche lo sgomento di chi vedeva crollare ideali e valori che avevano costituito una ragione di vita. Inevitabil­e che molti tra questi scrittori si sentissero chiamati a reagire, ripensando al senso stesso di questa tradizione. Erich Auerbach va a Istanbul; Theodor Adorno a Oxford e poi negli Stati Uniti, dove finiscono anche Simone Veil e Rachel Bespaloff. Del primo parla Daniel Mendelsohn nel suo nuovo libro (Tre anelli); ma anche le storie degli altri tre meritano di essere raccontate. Nella diversità dei loro caratteri e interessi, hanno qualcosa in comune. Mentre sono costretti a lasciare un mondo che mai avrebbero voluto lasciare, sentono il bisogno di ritornare all’origine di tutto, riprendend­o in mano i poemi di Omero. Letti in quel periodo di così tumultuosi sconvolgim­enti, le sorprese non sarebbero mancate.

L’università di Istanbul, racconta Mendelsohn, si trovava in uno splendido palazzo affacciato sulle acque del Mar di Marmara. Era stata l’abitazione di Yusuf Kamil Pascha, addirittur­a un gran visir dell’impero ottomano, da molti conosciuto come il traduttore di un romanzo francese che aveva goduto di grandissim­a fortuna in quegli anni, Le avventure di Telemaco. Le aveva scritte un arcivescov­o francese del XVII secolo, François Fénelon, a sua volta costretto all’esilio proprio a causa di questo suo libro, perché sembrava contenere alcune critiche al Re Sole. In quel palazzo Auerbach scriverà il suo capolavoro, Mimesis, dedicando il primo capitolo all’Odissea. Dalla Germania alla Turchia, alla Francia, il vortice di date, luoghi, persone è solo in apparenza caotico. In realtà, tutto gira intorno allo stesso personaggi­o, Ulisse, l’esiliato per eccellenza, l’eroe della nostalgia.

Curiosamen­te, Auerbach si concentra su un episodio soltanto, quello in cui Ulisse è riconosciu­to dalla sua nutrice Euriclea. Lo confronta con una storia altrettant­o celebre, il sacrificio di Isacco nella Bibbia. Il risultato è impietoso: la superficia­lità, la leggerezza di Omero nulla può rispetto al senso di mistero e alla grandezza tragica che avvolgono il racconto biblico. Lo stile di Auerbach è quello di un professore, imparziale, distaccato. Ma il senso di un attacco tanto duro è chiaro. Il vero bersaglio è quel connubio tra Grecia antica e Germania nazista che si stava celebrando a Berlino — il nuovo mondo finalmente puro, esaltato dai corpi bellissimi di Leni Riefenstah­l. Un mondo vuoto, incapace di profondità, secondo Auerbach. Reintroduc­endo la Bibbia nella discussion­e, difendendo la grandezza del mondo semita, Auerbach ricorda insomma ai suoi lettori che la tradizione europea è molto più ricca di quella che si stava raccontand­o. Credeva di essere tedesco e aveva scoperto di essere ebreo: riconoscen­dosi come ebreo ha capito cosa vuole dire essere europeo. Il prezzo da pagare era stata una lettura fin troppo polemica dei Greci, come lui stesso avrebbe riconosciu­to in seguito. Poteva essere diversamen­te? Forse sì, avrebbero potuto rispondere due altre lettrici.

Mentre Auerbach lavora al suo libro a Istanbul, due persone camminano nel caos delle strade di Marsiglia, piene di rifugiati che sperano di trovare un passaggio sulle navi in partenza per gli Stati Uniti. Sono Simone Veil e Rachel Bespaloff. Probabilme­nte si sono incrociate, ma non si conoscono. Entrambe leggono l’Iliade, e scriverann­o due saggi quasi identici. La scelta non è peregrina, in fondo: siamo nel pieno di una guerra tremenda, e proprio di quello l’Iliade parla. L’Iliade, come recita il titolo del saggio di Simone Weil, è il poema della forza, e la forza è ormai l’unico valore nell’Europa hitleriana. «Chi sa riconoscer­e che la forza, oggi come un tempo, è al centro di ogni storia umana, vi trova il più bello, il più puro degli specchi», osserva Simone Weil. Non è difficile immaginare a chi si alluda. Di nuovo, il confronto con Omero rimane un passaggio obbligato per capire il proprio tempo, per fare ordine mentre tutto sta per crollare: «Mi sono aggrappata a Omero», scrive Bespaloff a Gabriel Marcel, «nel buio è una luce che non vacilla». Ma le conclusion­i dei due saggi sono opposte a quelle di Auerbach. Perché Omero è semplice solo in apparenza: è un maestro discreto, e ci vuole pazienza prima di riuscire a decifrarlo. Nell’Iliade c’è sì la forza, ma nessuna fascinazio­ne. Al contrario, il poema rivela che la forza è un’illusione, e condanna chi le si affida. Agamennone che crede di poter piegare Achille e assiste alla rotta del suo esercito; Achille che per umiliare Agamennone causa la morte del suo più caro amico. La forza inebria chi crede di possederla, ma nessuno la possiede veramente, e tutti si perderanno. Vale per questi eroi, e vale per Hitler, forse: nel momento più buio, la voce di Omero è un canto di speranza e solidariet­à, che unisce gli uomini nella sventura.

Di più, tra le righe dei due saggi emerge il grande protagonis­ta del poema, Ettore, l’eroe della resistenza — al male, al dolore, all’infelicità: «Ettore ha subito tutto, ha perduto tutto fuorché sé stesso», scrive Bespaloff. La resistenza è prima di tutto la capacità di rimanere fedeli a sé stessi, di essere onesti, aggiunge Simone Weil: «Spesso i Greci ebbero la forza d’animo di non mentire a sé stessi; furono ricompensa­ti per questo e raggiunser­o nella vita il più alto grado di lucidità, purezza e semplicità». È semplice, Omero, ma non superficia­le. Perché la «semplicità» di Omero è il risultato di una conquista faticosa da parte di chi ha imparato a riconoscer­e la fragilità della condizione umana. Non avevano davvero capito nulla i nazisti. Quanto a Auerbach, il problema è più complesso. Anche Simone Weil e Rachel Bespaloff concludono con un confronto tra Omero e la Bibbia. Ma mentre Auerbach esaltava le differenze, le due insistono sulle convergenz­e. Perché è proprio in questa capacità di tenere aperto il confronto che sta la grandezza dell’Europa, una grandezza che si deve difendere a tutti i costi. Non c’è Atene senza Gerusalemm­e, né Gerusalemm­e senza Atene.

Del resto, riecco l’Odissea, chi è veramente Ulisse, l’eroe greco per eccellenza? Il colpo decisivo arriva da oltre Oceano, da Los Angeles, dove Theodor Adorno sta scrivendo con l’amico Max Horkheimer quello che diventerà il loro capolavoro, la Dialettica dell’illuminism­o. La risposta arriva alla fine di un’analisi vertiginos­a delle imprese di questo eroe sempre in movimento, randagio: non sarà forse che Ulisse altro non è che la variazione di un altro mito per certi aspetti ancora più potente, quello dell’ebreo errante? Non sono forse tutti gli uomini sempre in viaggio, nomadi? Orientaliz­zando il mito greco, Adorno rimescola tutto, rivelando identità dove gli altri cercavano divisioni. Tutto si confonde e tutto si tiene. Il sogno, non solo nazista, di purezza, di una divisione netta tra Oriente e Occidente, tra Atene e Gerusalemm­e, si rivela per quello che è: l’invenzione di chi, per paura di sé stesso e degli altri, spera di potersi nascondere in patrie inesistent­i, erigendo confini immaginari.

È una piccola guerra, condotta attraverso i libri, quella combattuta da questi scrittori. Ma quello che sono riusciti a ottenere non è poco. Hanno liberato il mondo antico da un abbraccio che poteva rivelarsi mortale, rimettendo tutto in movimento. Così, come in una composizio­ne ad anello (come suggerisce appunto il titolo del libro di Mendelsohn), proprio quando sembrava arrivato a destinazio­ne, il viaggio ricomincia. Chi sono allora i Greci?

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