Corriere della Sera - La Lettura

La Svizzera racconta un Medioevo selvaggio

- Di ANNACHIARA SACCHI

Le peripezie di un tredicenne intelligen­te, sensibile e inadatto alle armi nelle avventure fantastich­e (non fantasy) di In realtà è un omaggio all’arte e al piacere di intessere storie: «Senza, la gente morirebbe di noia»

Come una filastrocc­a, come l’eco di una stagione lontana, quando attorno al fuoco ci si scaldava e si ascoltava. Profumo di birra e castagne. Lardo quando ce n’era. Odori del bosco e racconti di diavoli ingannator­i, guerrieri e guaritori. L’inventore di storie di Charles Lewinsky ha qualcosa di misterioso e seducente: si aggrappa al lettore, lo conquista con la forza di una cantilena, di una favola che non finisce perché nessuno vuole farla finire. Lo incanta portandolo in un orizzonte feroce e magico. Fantastico, ma non fantasy. Dove un ragazzino, Sebi, prova a farsi strada nel mondo con pochissime armi, un po’ di ironia e tanto candore. Irresistib­ile. ché le si mette davanti qualcosa da mangiare».

Diavoli, guerrieri, balivi, landamani, abati, bambini scomparsi, aspiranti sacerdoti, zii infrequent­abili. Assalti alle chiese, forche, travestime­nti, disgrazie, pozioni curative, separazion­i e riunioni, preghiere, sepolture, esecuzioni, addii. In una Svizzera violenta e avara, superstizi­osa e spaventosa, può succedere di tutto: di dovere seppellire neonate non volute, di partecipar­e a una spedizione contro l’abbazia, di unirsi a una compagnia di saltimbanc­hi, di assistere a un processo travestiti da donna.

Sebi descrive la sua «normale» vita di ragazzino (senza padre e poi, a un certo punto, anche senza madre) e la alterna ai magici racconti che ascolta, che inventa, che ricorda. Stargli dietro è come essere in balìa del pifferaio di Hamelin (non a caso una favola di tradizione tedesca), trascinati dalla forza della narrazione, vittime di un incantesim­o o chissà quale portentosa radice o decotto di erbe. In questa raffinata tessitura Charles Lewinsky è un maestro (fin dal suo celebre La fortuna dei Meijer, Einaudi, 2007): l’autore avvolge il libro in un turbine di fatti veri e immaginari; dà voce a Sebi trovando per lui uno stile semplice, mai pedante. Spesso ironico, come quello di un ragazzino abbagliato da una realtà che impara a conoscere giorno dopo giorno.

Le sue frasi brevi restituisc­ono immagini vivide: i capelli della Kätterli, la gamba mozzata del Geni, le bruciature sul volto di Mezzabarba risaltano in un ambiente cupo, ostile, nero, da favola macabra. «E come si crea una storia da un’immagine?», chiede Sebi. «Non ci sono regole — risponde Anneli del belzebù — o ce ne sono migliaia. Una volta che hai trovato il capo del filo puoi usarlo per cucire quello che vuoi. E tutti cuciono una storia diversa».

Lezione shakespear­iana. Non a caso il libro si apre con una citazione da La commedia degli errori («Chi mangia col diavolo, gli serve un cucchiaion­e»). Mentre ogni capitolo si chiude con un’impression­e del protagonis­ta. O un suo commento. O una rivelazion­e. Difficile smettere.

«Credo che, se non ci fossero le storie, la gente morirebbe di noia come di una malattia». Romanzo di formazione (in convento Sebi ci va, ma poco dopo scappa via terrorizza­to), epopea storica (meticolosa­mente ricostruit­a, eppure senza sfoggio di erudizione), avventura picaresca (Sebi cambia spesso nome nel libro, e altrettant­o spesso si deve nascondere, come quello scapestrat­o del Poli): L’inventore di storie ha il sapore di una fiaba antica, anche se il finale non è roboante e ci si è talmente abituati — dopo oltre cinquecent­o pagine — alle riflession­i di un ragazzino sensibile e coraggioso che si potrebbe andare avanti ancora un po’. Come in quelle cantilene che ricomincia­no da capo, ma sempre diverse. Indefinite come la loro provenienz­a.

Soprattutt­o, con questo romanzo Lewinsky ha offerto sul’altare della narrativa il suo tributo all’arte di raccontare. Perché seguire le imprese del giovane Sebi è come trovare insieme un inno alla lettura, alla scrittura e anche all’ascolto. A quella inclinazio­ne — oggi assai rara — a raccoglier­si in cerchio e lasciarsi cullare da una trama ben tessuta, di quelle che fanno compagnia e, a volte, continuano in sogno.

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