Corriere della Sera - La Lettura
Esperimenti di una clausura bolognese
Aforza di non avvicinare i battenti per fare circolare l'aria antipatico mi sono reso in famiglia: poco mi disturba la porta che sbatte la foglia di carta che svolazza nella stanza neppure la tazza di caffè che scivola via – Allegria!
Questa mattina di vento primaverile di rami galleggianti e dondolanti tronchi di lontani rumori di freni e baruffe di gatti quest'ora di seghe elettriche quest'attimo di gelsomino non me li perdo – occhi chiusi tutti li lascio entrare.
Il testo in italiano del francese Martin Rueff (Calgary, Canada, 1968; foto Archivo Corsera) è tratto dal volume Verticale ponte. I poeti sconfinati edito da Modo Infoshop
Per secoli e secoli la lingua della nostra poesia è stata molto diversa dalla lingua che si parlava nella vita. Diversa dai tanti dialetti, che tutti conoscevano e impiegavano, ma diversa — in quanto estremamente stilizzata, impermeabile a infiltrazioni esterne — anche dall’italiano utilizzato se richiesto dai ceti colti. Ancora Leopardi s’avvale di un codice poetico sostanzialmente anacronistico, innervandolo però di una sensibilità e di contenuti anche intellettuali affatto nuovi (di qui lo straordinario attrito che determina l’incanto così speciale della sua poesia). Verso la fine dell’Ottocento, non a caso, la rivoluzione espressiva di Pascoli sarà intesa ad aprire la cassaforte del linguaggio poetico per metterlo di nuovo in contatto, quasi fosse una carta assorbente, con la cosiddetta realtà, con le percezioni sensibili e il brusio del vivente, soprattutto con la natura, coi suoi suoni e uccelli e canti.
Si può dire allora che il lettore italiano sia avvezzo da sempre alla questione del rapporto tra lingua parlata e lingua scritta, tra voce e lettera, tra lingua materna e lingua che materna non è. E si tratta di una questione equivoca, perfino reversibile. Basti pensare che già all’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso l’apripista Pier Paolo Pasolini, ricorrendo al friulano in qualità non di lingua materna bensì di lingua parlata dalla madre, non lo intese affatto come la lingua presunta dell’immediatezza e della radice, ma lo impiegò invece in senso anti-mimetico e artificioso, fino a farne una lingua della poesia selezionatissima ed esclusiva.
«Non sono certamente il primo a scrivere in una lingua che non sia quella detta materna», osserva oggi Martin Rueff in merito al suo nuovo libro di versi, Ponte verticale (I poeti sconfinati). Va precisato allora che Rueff, apprezzato poeta francese ch’è anche uno studioso e traduttore della nostra poesia, ha scritto questo libro direttamente in italiano per una scommessa con la figlia, lei sì madrelingua italiana, durante la primavera dello scorso anno, e dunque in tempi di confino (fondali e luoghi sono per lo più quelli di Bologna).
La poesia di Rueff nasce giusto all’incrocio tra l’artificiosità del discorso poetico e la necessità prima del sentire e del comprendere. «Questi versi sono nati dalla frequentazione assidua di poeti italiani amati sconfinatamente: i poeti
sconfinati», nota ancora il poeta. E di fatto la sua lingua appare marcatamente poetica, non solo per i numerosi richiami letterari, ma anche per la stessa impostazione lirica che la lingua del sì sembra consentirgli (la sua poesia in francese è più intellettualizzata e argomentativa, infatti). È Rueff stesso a parlare della libertà concessa dall’impiego di una lingua non materna. Si tratterebbe dunque, con un paradosso fecondo, di una liberazione e di un amore sconfinato in giorni di reclusione e di confino.
E siamo al punto. In queste poesie nate come per gioco, anzitutto in forma d’omaggio alla lingua italiana e ai suoi poeti, c’è comunque una motivazione che preme: Rueff ha qualcosa da mettere sul piatto della sua bilancia poetica, qualcosa che non è solo letteratura. «Guarda, guardati intorno:/ il sole che tramonta/ una stella che cade/ una chiesa senza tetto/ un amico ritrovato,/ l’amara verità della speranza»... L’allontanamento dalla vita — questo è accaduto — gli ha posto davanti una prospettiva anche solo un poco diversa su questioni che nuove non sono; e il poeta non se l’è fatta sfuggire: lo spazio interiore e il rapporto con gli altri, l’io e il mondo, la parola poetica e ciò che sta al di là. Come tra profondità e superficie, queste poesie non a caso tornano spesso — argomento e insieme modo dell’espressione — sul limite tra dentro e fuori: la stanza, le pareti, il balcone, la finestra sul cortile e sul cielo. Grazie magari a qualche incertezza e inciampo, o comunque non prevedibile soluzione grammaticale, questa lingua poetica finisce perfino per risultare fresca, reattiva. «Poesie scritte, forse, nella lingua dei figli», conclude Rueff. Ed è un bel modo per ricominciare daccapo, rovesciandola, tutta la questione.