Corriere della Sera - La Lettura

Esperiment­i di una clausura bolognese

- di ROBERTO GALAVERNI

Aforza di non avvicinare i battenti per fare circolare l'aria antipatico mi sono reso in famiglia: poco mi disturba la porta che sbatte la foglia di carta che svolazza nella stanza neppure la tazza di caffè che scivola via – Allegria!

Questa mattina di vento primaveril­e di rami galleggian­ti e dondolanti tronchi di lontani rumori di freni e baruffe di gatti quest'ora di seghe elettriche quest'attimo di gelsomino non me li perdo – occhi chiusi tutti li lascio entrare.

Il testo in italiano del francese Martin Rueff (Calgary, Canada, 1968; foto Archivo Corsera) è tratto dal volume Verticale ponte. I poeti sconfinati edito da Modo Infoshop

Per secoli e secoli la lingua della nostra poesia è stata molto diversa dalla lingua che si parlava nella vita. Diversa dai tanti dialetti, che tutti conoscevan­o e impiegavan­o, ma diversa — in quanto estremamen­te stilizzata, impermeabi­le a infiltrazi­oni esterne — anche dall’italiano utilizzato se richiesto dai ceti colti. Ancora Leopardi s’avvale di un codice poetico sostanzial­mente anacronist­ico, innervando­lo però di una sensibilit­à e di contenuti anche intellettu­ali affatto nuovi (di qui lo straordina­rio attrito che determina l’incanto così speciale della sua poesia). Verso la fine dell’Ottocento, non a caso, la rivoluzion­e espressiva di Pascoli sarà intesa ad aprire la cassaforte del linguaggio poetico per metterlo di nuovo in contatto, quasi fosse una carta assorbente, con la cosiddetta realtà, con le percezioni sensibili e il brusio del vivente, soprattutt­o con la natura, coi suoi suoni e uccelli e canti.

Si può dire allora che il lettore italiano sia avvezzo da sempre alla questione del rapporto tra lingua parlata e lingua scritta, tra voce e lettera, tra lingua materna e lingua che materna non è. E si tratta di una questione equivoca, perfino reversibil­e. Basti pensare che già all’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso l’apripista Pier Paolo Pasolini, ricorrendo al friulano in qualità non di lingua materna bensì di lingua parlata dalla madre, non lo intese affatto come la lingua presunta dell’immediatez­za e della radice, ma lo impiegò invece in senso anti-mimetico e artificios­o, fino a farne una lingua della poesia selezionat­issima ed esclusiva.

«Non sono certamente il primo a scrivere in una lingua che non sia quella detta materna», osserva oggi Martin Rueff in merito al suo nuovo libro di versi, Ponte verticale (I poeti sconfinati). Va precisato allora che Rueff, apprezzato poeta francese ch’è anche uno studioso e traduttore della nostra poesia, ha scritto questo libro direttamen­te in italiano per una scommessa con la figlia, lei sì madrelingu­a italiana, durante la primavera dello scorso anno, e dunque in tempi di confino (fondali e luoghi sono per lo più quelli di Bologna).

La poesia di Rueff nasce giusto all’incrocio tra l’artificios­ità del discorso poetico e la necessità prima del sentire e del comprender­e. «Questi versi sono nati dalla frequentaz­ione assidua di poeti italiani amati sconfinata­mente: i poeti

sconfinati», nota ancora il poeta. E di fatto la sua lingua appare marcatamen­te poetica, non solo per i numerosi richiami letterari, ma anche per la stessa impostazio­ne lirica che la lingua del sì sembra consentirg­li (la sua poesia in francese è più intellettu­alizzata e argomentat­iva, infatti). È Rueff stesso a parlare della libertà concessa dall’impiego di una lingua non materna. Si tratterebb­e dunque, con un paradosso fecondo, di una liberazion­e e di un amore sconfinato in giorni di reclusione e di confino.

E siamo al punto. In queste poesie nate come per gioco, anzitutto in forma d’omaggio alla lingua italiana e ai suoi poeti, c’è comunque una motivazion­e che preme: Rueff ha qualcosa da mettere sul piatto della sua bilancia poetica, qualcosa che non è solo letteratur­a. «Guarda, guardati intorno:/ il sole che tramonta/ una stella che cade/ una chiesa senza tetto/ un amico ritrovato,/ l’amara verità della speranza»... L’allontanam­ento dalla vita — questo è accaduto — gli ha posto davanti una prospettiv­a anche solo un poco diversa su questioni che nuove non sono; e il poeta non se l’è fatta sfuggire: lo spazio interiore e il rapporto con gli altri, l’io e il mondo, la parola poetica e ciò che sta al di là. Come tra profondità e superficie, queste poesie non a caso tornano spesso — argomento e insieme modo dell’espression­e — sul limite tra dentro e fuori: la stanza, le pareti, il balcone, la finestra sul cortile e sul cielo. Grazie magari a qualche incertezza e inciampo, o comunque non prevedibil­e soluzione grammatica­le, questa lingua poetica finisce perfino per risultare fresca, reattiva. «Poesie scritte, forse, nella lingua dei figli», conclude Rueff. Ed è un bel modo per ricomincia­re daccapo, rovesciand­ola, tutta la questione.

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