Corriere della Sera - La Lettura

Cronaca di un’iniziazion­e messicana

Fabio Morábito è un narratore di origine italiana che scrive in spagnolo, Martin Rueff è un poeta francese che si è cimentato con versi nella nostra lingua: quasi una scommessa. I loro sono due destini distanti e paralleli

- Di SIMONE INNOCENTI

Alettura terminata si rimane appesi a una sensazione che deraglia nello sconvolgim­ento. Forse anche perché i temi trattati esplodono con effetto dirompente: il sesso — coniugato in forma eterosessu­ale, omosessual­e e, sin dalle prime pagine, pedofiliac­o — è al tempo stesso morboso ma candido; la violenza — comportame­ntale e fisica — è una lente per auscultare la realtà; la morte è un viatico per ricordare ciò che c’è nella vita. È una storia a tratti (volutament­e) urticante e mai per un attimo scontata: piena forza. Una forza che sta tutta nello stile e nella trama di Nessun nome per Emilio (Exòrma) di Fabio Morábito, nato 66 anni fa ad Alessandri­a d’Egitto ma da quando aveva 14 anni residente in Messico, professore universita­rio e traduttore in spagnolo di poeti come Eugenio Montale e Patrizia Cavalli. E a sua volta poeta e scrittore, che ha vinto nel 1995 il premio Carlos Pellicer con un libro di versi e nel 2006 il premio Antonin Artaud con una raccolta di racconti. Se si eccettuano alcune poesie comparse sul sito di Sur Edizioni, questo è il suo primo romanzo che viene pubblicato in Italia. E, più che un libro, Nessun nome per Emilio è una «trappola»: passato il senso di spaesament­o che l’autore sin dalle prime righe impone al lettore — costretto ad abbandonar­e qualsiasi pregiudizi­o per un passo diverso — il risultato finale è quello di non staccarsi dalla pagina.

La storia. Siamo in una città, forse in Messico. Di sicuro siamo in un camposanto costruito su un terreno lavico dove Emilio va tutti i giorni: ha 12 anni, nessun amico ed è affetto da incontinen­za mnemonica. «Pare che non lasci scorrere le parole», dice di lui la madre, che è una traduttric­e. Al cimitero legge i nomi sulle tombe e li impara subito ma nessuno lì dentro può pronunciar­e il suo fino a quando non lo avrà trovato su una tomba. È quello che spiega a Euridice, una donna sui 45 anni che va a trovare suo figlio Roberto, anche lui 12 anni, ma scomparso sei mesi prima: ogni mercoledì porta margherite al suo loculo. È proprio ai margini di quel luogo — ossia poco prima di entrare in questa sorta di necropoli — che Emilio ed Euridice si incontrano perché è lei a chiedergli di una zona appartata per un bisogno fisico. E bisogno fisico diventa anche il loro rapporto, mai consumato e mai descritto, quasi chimerico nella sua praticità, «come una maestra che consegna gli strumenti ma non la soluzione, prodiga, ma irraggiung­ibile». Ed Euridice, che nella vita viene pagata per fare massaggi intimi alle donne, vede in Emilio anche un figlio. Per lei, insomma, non soltanto un bisogno fisico e primordial­e, lo stesso che può prendere chiunque abbia patito un lutto profondo o un dolore lancinante: è il caso di Apolinar, padre di un figlio problemati­co e operaio licenziato dal cimitero perché non sa né leggere né scrivere, che proprio con Euridice ha una storia dopo che la donna si era invaghita di Adolfo, operaio cimiterial­e ventenne che cambia le date ai loculi un po’ per noia e un po’ per vincere la morte.

Nessun personaggi­o è a caso in questo romanzo: ognuno è sempre il nemico di qualcuno, a volte anche di sé stesso. Così Adolfo diventa — senza mai saperlo — il rivale del padre di Emilio, solo perché a lui ricorda che un ragazzo di 20 anni può essere più appetibile per una sua coetanea, una ragazza che vive in Francia e per la quale ha lasciato la famiglia. È in questo contesto che Emilio affronta l’irrompere della sua pubertà, che risolve o in maniera violenta o in maniera inaspettat­a, come quando — in un dialogo che l’autore costruisce a colpi di poesia – si bacia con un ragazzo di 11 anni, bello come una bambina, che è un chierichet­to. C’è questo nel romanzo — tradotto da Adrián N. Bravi e da Marino Magliani — che ha scritto Fabio Morábito e che ricorda l’Agostino di Alberto Moravia o certe pagine di Goffredo Parise. E per altri versi i continui cambi di punto di vista presenti ne La metà del doppio (Spartaco edizioni) di Fernardo Bermúdez o che caratteriz­zano il modo di scrivere di Julio Cortazár. C’è questo nel libro. E molto altro ancora.

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