Corriere della Sera - La Lettura
Involo coni personaggi di Del Giudice
È un romanzo non romanzo il lavoro di Pierpaolo Vettori, che monta un gioco di specchi tra il suo protagonista e le opere dell’autore recentemente scomparso. Eppure non è (solo) un cimento metaletterario: è il mondo che cambia
C’è un’immagine che è andata facendosi sempre più presente nel trascorrere della lettura di Un uomo sottile di Pierpaolo Vettori: il dialogo dei due piloti morti dell’Atr 42 raccontato da Bruno in Staccando l’ombra da terra di Daniele Del Giudice, una delle pagine più intense del Novecento italiano. Perché è un curiosissimo doppio dialogo su cui si regge il romanzo.
C’è un dialogo per certi aspetti surreale, ed è quello che il protagonista io narrante Paolo Vetri intrattiene con Ddg, acronimo di Daniele Del Giudice attraverso non dei testimoni ma i suoi stessi personaggi, facendosene a sua volta alter ego al pari della sua «bianca, sporca e malridotta, però funzionante Augusta 3000», la macchina da scrivere che, al pari della Underwood di Ddg, «è lei che decide» che cosa scrivere. E poi questo dialogo stretto tra surreale e realtà, rappresentato da una doppia condizione di malattia: quella di Dsg, ricoverato da anni in un istituto di cura all’isola della Giudecca per una forma acuta di Alzheimer (e qui va detto che la stesura del romanzo avviene negli ultimi mesi di vita dello scrittore, potendone Vettori registrare la morte, il 2 settembre 2021, nel passaggio alla stampa, conseguente alla vittoria del Premio Neri Pozza 2021), al tempo stesso presente e sullo sfondo; e la condizione di svuotamento della mente che Paolo vive attraverso la figura della moglie Laura, maestra ma che «adesso non lavora più» in quanto va mentalmente «sparendo, il suo corpo è davanti a me ma non è più abitato»: anche se nel suo caso si tratta non d’Alzheimer, ma d’una «macchia scura nel suo cervello» che, forse «un’operazione potrebbe ridurre o addirittura eliminare», pur nella pericolosità «che mia moglie potrebbe morire. Le probabilità sono basse ma ci sono».
È un incrocio, dunque, tra surreale popolato di personaggi immaginari e realtà fatta di concretezza quotidiana propria di difficoltà economiche e momenti di disperazione (Paolo che urla per i disastri causati da una Laura che però lo guarda «con la solita aria impassibile come se non capisse esattamente cosa sta succedendo. Effettivamente è così, ma mi rifiuto di crederlo»). Un incrocio non certo inconsueto in Vettori, se pensiamo a La notte dei bambini cometa (2011), La vita incerta delle ombre (2014) e in particolare Le sorelle Soffici (2012), col dialogo di Veronica con gli scrittori defunti che popolano la biblioteca di casa, annotati in un diario. Solo che ora dialoghi e incontri rinviano ad altro: a capire perché Ddg abbia «scritto così poco, quasi avesse voluto ridursi progressivamente al silenzio fino all’insorgere della malattia»; il perché di quella graduale opzione d’una scrittura per sottrazione e depurazione approdata all’afasia.
Ma se questo aspetto dice d’un percorso dai risvolti metaletterari, va subito specificato che il romanzo tende a farli suoi mediante un’opzione stilistica che poggia su una narrazione per frammenti, da annotazioni in diretta e con tempi verbali al presente, tra appunto diaristico, illuminazione, riflessione; pronta però a distendersi nei rari momenti di flashback dettati da un ricordare ritenuto quanto mai vitale, ma senza mai abdicare a una trama coinvolgente.
A dettare l’intreccio è un continuo gioco di specchi. Tra Laura e Ddg innanzitutto; con la moglie che, a differenza di un Paolo «della razza di chi sta a terra», «è una creatura dell’aria, in questo un po’ simile a Ddg». E poi dello stesso protagonista, cinquantenne, e che si presenta come «Paolo Vetri e sono laureato in letteratura inglese, faccio il fabbro per vivere. Leggo molti libri e alcuni li scrivo».
La specularità è ora concava e ora convessa, come suggerisce il nome stesso, forma scempia di Pierpaolo Vettori, ribadendo come, rispetto a quanto narrato, siano qui estranei i percorsi autobiografici da un lato, per il protagonista, e quelli biografici dall’altro, per Ddg. E tali si presentano anche «i fantasmi dei libri di Ddg», introdotti con corsivi da didascalia e l’avvertimento di un «come vedremo», presentati quasi in forma di rappresentazione teatrale: dall’istruttore Bruno o Saint-Exupéry di Staccando l’ombra da terra all’immaginario scrittore austriaco Anton Ganzfalsch inventato da Ddg in un suo articolo; a Ira Epstein e Pietro Brahe di Atlante occidentale, al Bobi Bazlen, lo «scrittore che non ha scritto nulla», attorno alla quale ruota Lo stadio di Wimbledon; all’ipovedente Barnaba e alla bugiarda di Nel museo di Reims e altri ancora.
I personaggi però sono sì di Ddg come nome e ruolo, ma non più in queste pagine, in quanto offerti nella loro memorialità: di chi cioè è avvicinato anni dopo la loro comparsa in quei racconti, e nel comunque vano tentativo di dare una risposta convincente al perché di quella rarefazione scrittoria (anche per questo non convince il colloquio tra Alzheimer e il suo paziente, trasferito da Auguste a Ddg), salvo leggerla come intuizione di non poter «più scrivere come si era fatto fino ad allora» perché «il mondo stava cambiando, non solo la cultura — Voleva capire come descrivere un mondo che ci sparisce tra le mani».
Anche in questo il romanzo si fa, oltre che specchio metaletterario, anche critico. Teso cioè all’acquisizione di quella linea scrittoria su cui Ddg era venuto interrogandosi, come ora Paolo. Approdando a una scrittura quasi per lasse, spesso brevi ma intense, nelle quali «la tecnica, anche quella letteraria, deve sparire e trasformarsi in emozione».