Corriere della Sera - La Lettura
La sfida del cantiere all’umanissima noia
Un po’ fiaba, un po’ dramma: parte da uno scenario di distopia catastrofica per presentare un personaggio che mostra qualche analogia con Ulisse. La sua meta è una «sublime costruzione» illuminata a giorno
Omero, lì dov’è, «nell’ombra tenebrosa», può gongolare: ci estingueremo prima di smettere di attingere dal suo capolavoro. Non è bastato che il romanzo-bussola del Novecento fosse, a suo modo, una nuova Odissea: anche nel Duemila, almeno per ora, sembra impossibile prescindere da Ulisse, e dal suo portfolio di minacce esterne (mostri, venti, altre rive, nuovi desideri) e ferite in-terne (orgoglio, amore, nostalgia).
L’ultimo a vedere il presente attraverso una storia raccontata, per la prima volta, tremila anni fa è Gianluca Di Dio, con il suo La Sublime Costruzione (Voland). Qui, il personaggio principale, Andrej Nikto, non sembra tipo dal multiforme ingegno, e più che di conoscenza è affamato di quiete e di generica bellezza — «Cose belle, solo cose belle», risponde a una epigona di Circe che gli promette in dono qualunque oggetto egli desideri — ma nella sua fuga da una città devastata da guerre e catastrofi naturali incontra versioni rivisitate delle sirene (Le pescatrici), dei ciclopi (I due colossi), dei lotoa gozzano di frullati proteici, utili a «diventare grossi, pompare, pompare e ancora pompare»; la maga, infine, trasforma ogni piacere in prestazione, e convince i suoi ospiti di essere, tutto sommato, liberi, e meritevoli della felicità perché lavoratori indefessi. Ma la cosa in assoluto più angosciante è che l’ombra della distopia, apparentemente esauritasi negli elementi post-apocalittici della premessa, aleggia anche sul finale, davanti ai cancelli del cantiere, insieme alla consapevolezza che quel futuro, per quanto migliore del presente, sarà peggiore del passato.
La destinazione di Andrej, a tratti, fa più paura degli incubi che si lascia alle spalle. Perché chi emigra, suggerisce Di Dio, chi conosce la disperazione del non poter desiderare altro che «la noia di certe giornate», soffre anche dopo i salvataggi, i primi traguardi, i passaggi di frontiera. La resistenza a questo tipo di dolore è una costruzione senza fine, che, sublime o no, impone di ricalibrare costantemente l’idea stessa di «sogno».
Il registro a cui Di Dio ricorre è ibrido, tra il drammatico e il fiabesco, ardito nelle alternanze repentine tra tempi verbali e puntellato qua e là di azzardi linguistici a volte eccedenti — «un mugghio tellurico che ci paralizza il senno» — ma più spesso centrati, brillanti — «mi caramellò la bocca con un bacio» — che rendono il testo, in ogni caso, denso di carattere, vivace, giullaresco.
E interattivo, a suo modo. Ne La Sublime Costruzione, l’autore riprende, oltre a un paio di personaggi, la fauna fantastica che animava il suo romanzo precedente, Più a est di Radi Kürkk, e se ne serve per imbastire delle similitudini piacevolmente stranianti, la cui funzione, rispetto alla fantasia, è più di innesco che di servizio. Capire quanto rapido sia chi «scatta su come un saltamartino», ad esempio, è possibile solo per chi è disposto a fondere la forza creatrice dell’autore con la propria, e a ragionare come un abitante, non un esploratore, del mondo irreale di Andrej.
Di Dio, insomma, non teme il lettore sconosciuto, né di apparire sconosciuto al lettore. Chi ha già letto un suo libro potrà certificare che, con La Sublime Costruzione, si sta formando un autore maturo, alternativo e consapevole; chi non lo conosce ancora scoprirà un intero immaginario, e un modo credibile di presentarlo. In entrambe le circostanze, «solo cose belle».