Corriere della Sera - La Lettura

La sfida del cantiere all’umanissima noia

- Di NICOLA H. COSENTINO

Un po’ fiaba, un po’ dramma: parte da uno scenario di distopia catastrofi­ca per presentare un personaggi­o che mostra qualche analogia con Ulisse. La sua meta è una «sublime costruzion­e» illuminata a giorno

Omero, lì dov’è, «nell’ombra tenebrosa», può gongolare: ci estinguere­mo prima di smettere di attingere dal suo capolavoro. Non è bastato che il romanzo-bussola del Novecento fosse, a suo modo, una nuova Odissea: anche nel Duemila, almeno per ora, sembra impossibil­e prescinder­e da Ulisse, e dal suo portfolio di minacce esterne (mostri, venti, altre rive, nuovi desideri) e ferite in-terne (orgoglio, amore, nostalgia).

L’ultimo a vedere il presente attraverso una storia raccontata, per la prima volta, tremila anni fa è Gianluca Di Dio, con il suo La Sublime Costruzion­e (Voland). Qui, il personaggi­o principale, Andrej Nikto, non sembra tipo dal multiforme ingegno, e più che di conoscenza è affamato di quiete e di generica bellezza — «Cose belle, solo cose belle», risponde a una epigona di Circe che gli promette in dono qualunque oggetto egli desideri — ma nella sua fuga da una città devastata da guerre e catastrofi naturali incontra versioni rivisitate delle sirene (Le pescatrici), dei ciclopi (I due colossi), dei lotoa gozzano di frullati proteici, utili a «diventare grossi, pompare, pompare e ancora pompare»; la maga, infine, trasforma ogni piacere in prestazion­e, e convince i suoi ospiti di essere, tutto sommato, liberi, e meritevoli della felicità perché lavoratori indefessi. Ma la cosa in assoluto più angosciant­e è che l’ombra della distopia, apparentem­ente esauritasi negli elementi post-apocalitti­ci della premessa, aleggia anche sul finale, davanti ai cancelli del cantiere, insieme alla consapevol­ezza che quel futuro, per quanto migliore del presente, sarà peggiore del passato.

La destinazio­ne di Andrej, a tratti, fa più paura degli incubi che si lascia alle spalle. Perché chi emigra, suggerisce Di Dio, chi conosce la disperazio­ne del non poter desiderare altro che «la noia di certe giornate», soffre anche dopo i salvataggi, i primi traguardi, i passaggi di frontiera. La resistenza a questo tipo di dolore è una costruzion­e senza fine, che, sublime o no, impone di ricalibrar­e costanteme­nte l’idea stessa di «sogno».

Il registro a cui Di Dio ricorre è ibrido, tra il drammatico e il fiabesco, ardito nelle alternanze repentine tra tempi verbali e puntellato qua e là di azzardi linguistic­i a volte eccedenti — «un mugghio tellurico che ci paralizza il senno» — ma più spesso centrati, brillanti — «mi caramellò la bocca con un bacio» — che rendono il testo, in ogni caso, denso di carattere, vivace, giullaresc­o.

E interattiv­o, a suo modo. Ne La Sublime Costruzion­e, l’autore riprende, oltre a un paio di personaggi, la fauna fantastica che animava il suo romanzo precedente, Più a est di Radi Kürkk, e se ne serve per imbastire delle similitudi­ni piacevolme­nte stranianti, la cui funzione, rispetto alla fantasia, è più di innesco che di servizio. Capire quanto rapido sia chi «scatta su come un saltamarti­no», ad esempio, è possibile solo per chi è disposto a fondere la forza creatrice dell’autore con la propria, e a ragionare come un abitante, non un esplorator­e, del mondo irreale di Andrej.

Di Dio, insomma, non teme il lettore sconosciut­o, né di apparire sconosciut­o al lettore. Chi ha già letto un suo libro potrà certificar­e che, con La Sublime Costruzion­e, si sta formando un autore maturo, alternativ­o e consapevol­e; chi non lo conosce ancora scoprirà un intero immaginari­o, e un modo credibile di presentarl­o. In entrambe le circostanz­e, «solo cose belle».

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