Corriere della Sera - La Lettura
Una tradizione, due lingue insieme
L’antologia di Edoardo Gerlini sottolinea, nel primo volume, l’identità duplice della produzione in versi nipponica, data dall’uso parallelo della scrittura cinese, ma anche il ruolo significativo delle autrici e l’eterogeneità delle classi sociali
L’antica poesia giapponese delle origini e del periodo classico: è il vasto ambito che cerca di indagare e presentare, con corredi scientifici e nuove traduzioni, il primo volume di un ambizioso progetto antologico, che mira nel suo complesso (in tre volumi) a illustrare un corpus poetico sviluppatosi nell’arcipelago giapponese nell’arco di circa tredici secoli. Con il primo mattone dell’edificio (gli altri seguiranno nel tempo), siamo all’inizio della tradizione: si ha qui a che fare con la produzione che arriva fino al XII secolo: Antologia della poesia giapponese. I. Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIIIXII secolo), a cura di Edoardo Gerlini, con testo a fronte (Marsilio).
Si dica subito che un’impressione si genera nel lettore: quella di trovarsi di fronte a un’opera collettiva, che si produce attraverso il rispetto di norme e canoni che riguardano un’intera società. La poesia è insomma presso la corte un esercizio che si sviluppa a fianco dell’impegno amministrativo, tanto che le stesse occasioni della scrittura e dell’esecuzione dei testi poetici sono in gran parte pubbliche, legate a banchetti, cerimonie o anche, da un certo punto in poi, agoni poetici. Questo non significa che non ci siano individualità che spiccano per ispirazione e bravura tecnica (pensiamo ad esempio a Kakinomoto no Hitomaro, vissuto fino al 708 circa, riconosciuto come uno dei numi tutelari della poesia giapponese); tuttavia la scrittura poetica in questa cultura tende a sottolineare gli aspetti rituali, sociali della pratica letteraria, fino a produrre un corpus in qualche modo organico e omogeneo.
Non per nulla la poesia giapponese circola e si diffonde attraverso antologie ampie e strutturate (in particolare quelle imperiali), in cui si tende a dare una rappresentazione complessiva e stratificata del fenomeno, insomma a canonizzare il genere. Sono raccolte che spesso contengono un grande numero di testi e che sarebbe prezioso documentare per intero, nelle loro dinamiche di organizzazione e coesione testuale. Si pensi ad esempio al Man’yoshu («Raccolta di diecimila generazioni» o, secondo altri interpreti, «Raccolta di diecimila foglie», sottinteso di parola): si tratta della più antica antologia di poesia giapponese tramandata, contenente 4.536 componimenti, suddivisi in 20 volumi. Trasmette testi composti da poeti di diversa estrazione sociale, imperatori e nobili, ma anche persone di più basso rango e addirittura figure umili. Se l’haiku è di là da venire (sarà elaborato secoli dopo), la forma prevalente in questo primo periodo è il tanka (all’interno del Man’yoshu sono ben 4.207 sui 4.536 testi totali). Il tanka è formato da versi di 5-7-5-7-7 more (la mora, unità prosodica minima della poesia giapponese, coincide solo in parte col concetto di sillaba). Eccone un esempio di Otomo no Tabito (665-731): «Il promontorio di Minume/ ove venni con la mia amata,/ sulla via del ritorno,/ poiché ora sono da solo a osservarlo,/ m’invita alle lacrime».
Se pure si danno anche forme di più ampio sviluppo (ma meno diffuse), si coglie subito una caratteristica del filone principale della poesia giapponese: il condensarsi metrico e formale, la brevità e compattezza. È da ricordare inoltre che la poesia scritta in giapponese (waka )è contrassegnata dalla totale mancanza della rima.
Si badi bene: non è quanto accade in un altro ambito linguistico, quello dei componimenti poetici scritti da autori giapponesi in cinese (kanshi), in cui invece la rima è un elemento richiesto. Uno dei punti di forza dell’opera antologica curata da Edoardo Gerlini è proprio la sottolineatura dell’importanza delle poesie scritte da giapponesi in lingua cinese, come una parte non residuale né secondaria del canone. Ecco dunque che si descrivono ed esemplificano anche le grandi antologie relative alla produzione in cinese nell’arcipelago, a partire dall’antico Kaifuso, raccolta completata nel 751.
È così messa a tema la condizione peculiare della poesia prodotta in Giappone fino alla modernità, che è quella di un sostanziale bilinguismo quanto alla lingua scritta. Dunque nella letteratura si mettono a frutto due lingue, il giapponese e il cinese, con tutti gli annessi influssi culturali che quest’uso linguistico non autoctono porta con sé.
A proposito di contrapposizioni o doppi standard, un’altra situazione interessante riguarda il genere. Le antologie documentano ampiamente la produzione femminile, sia di imperatrici sia di poetesse di altra estrazione. E sebbene non manchi nei testi la possibilità di far esprimere un «io» poetico diverso da quello anagrafico del poeta, ci sono esempi di una voce propriamente femminile colta in tutta la sua forza. È il caso della poetessa Izumi Shikibu (fine del Decimo secolo-inizio dell’Unidicesimo), che ha lasciato anche una raccolta «familiare» (scelta di testi di un singolo autore o di un gruppo con legami di parentela) e che fu al centro di varie relazioni sentimentali, messe a frutto nella sua poesia. Eppure non l’amore in particolare sembra al centro degli interessi di questi primi poeti di una tradizione. Piuttosto lo sono il ciclo stagionale, la descrizione paesistica e, inoltre, il senso del potere, per cui l’imperatore è come il corrispettivo della divinità in terra. Dice il principe Otomo (648-672): «L’augusto splendore brilla come sole e luna./ La virtù imperiale copre tutto il Cielo e la Terra».