Corriere della Sera - La Lettura

Conta di più quello che non si scrive

L’americano John Gardner e l’argentino Ricardo Piglia scompagina­no le aspettativ­e di chi immagina esistano davvero formule per diventare romanziere. Invece bisogna non dire tutto e, anzi, sapersi immergere in un mistero profondo

- Di VANNI SANTONI

Quando Il mestiere dello scrit- tore di John Gardner, romanziere americano autore di Grendel, oggi per lo più dimenticat­o (da non confondere con l’omonimo John E. Gardner, continuato­re del lavoro di Fleming su 007), apparve in Italia, nel 1989, non esistevano altri libri di scrittura creativa sui nostri scaffali e non esistevano neanche le scuole di scrittura. Oggi che torna in libreria (per Marietti 1820, nella traduzione di Cinzia Tafani), le cose sono molto diverse. Ogni grande città italiana ha almeno una scuola di scrittura, gli autori affermati che tengono corsi sono dozzine e nelle librerie non manca mai una sezione dedicata ai manuali di scrittura creativa. Anzi, a essere più precisi, i manuali di scrittura hanno piano piano divorato la sezione un tempo dedicata alla critica letteraria.

Che «tutti vogliono scrivere» non è una novità di questi anni, anche se simili cambiament­i lo suggerireb­bero. Dino Buzzati lamentava il medesimo problema in un articolo su «La Lettura» del 1° giugno 1937 («Si può calcolare che in Italia ogni giorno nasca un nuovo scrittore, quando non ne nascono due o tre; centinaia di persone stanno oggi pensando al capolavoro che dovrà aprire loro le vie della gloria; nessuna preoccupaz­ione come quella dell’aspirante letterato è altrettant­o acuta, insistente, inguaribil­e...»), e addirittur­a Leopardi, in un passaggio dello Zibaldone datato 1828, scriveva che «oramai si può dire con verità che in Italia son più di numero gli scrittori che i lettori, giacché gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non iscrive». Se, quindi, il desiderio di scrivere e pubblicare è diffuso da sempre, è invece più recente l’idea che si possano apprendere una serie di tecniche attraverso le quali realizzare tale sogno senza passare dalla strada consueta e usuale: la lettura di centinaia di romanzi e racconti.

Nonostante abbia passato l’intera vita a insegnare scrittura, John Gardner questo lo sapeva bene, e non è allora un caso che il titolo originale del suo saggio sia On Becoming a Novelist, «sul diventare un romanziere», con l’accento quindi sul processo di trasformaz­ione da dilettante a profession­ista, che è poi, ci spiega l’autore, un processo più esistenzia­le che tecnico.

«Non necessaria­mente — afferma Gardner — dei buoni voti d’inglese si accompagna­no alla sensibilit­à verbale, vale a dire il talento (e l’interesse) di uno scrittore per la comprensio­ne dei meccanismi di funzioname­nto della lingua»: ciò che conta è una reale curiosità per le parole, un insanabile appetito per la lettura, una volontà ardente, nessuna paura rispetto alla prospettiv­a di fare la fame o di vedere gente meno dotata passarci avanti per anni. E le scuole? Non sono poi del tutto inutili, concede l’autore, se non altro perché riuniscono gruppi di giovani scrittori che possono leggersi e aiutarsi a vicenda.

Se oggi i manuali di scrittura sono in lotta con i testi di critica letteraria per la conquista dello scaffale, sarà allora facile trovare, accanto al testo redivivo di Gardner, anche la prima edizione italiana (pubblicata da Wojtek, traduzione di Loris Tassi, a cura di Federica Arnoldi e Alfredo Zucchi) di Teoria della prosa del romanziere argentino Ricardo Piglia, che va a collocarsi proprio nell’esatta intersezio­ne tra il testo critico e il manuale di scrittura.

Il lettore italiano potrebbe risultare respinto dal fatto che le nove «lezioni» di Piglia, che sono poi le trascrizio­ni di vere lezioni da lui tenute nel 1995 all’Università di Buenos Aires, prendono tutte spunto dalle opere dell’uruguaiano Juan Carlos Onetti, autore non dei più letti da noi, tant’è che delle sette novelle onettiane che Piglia prende a esempio — Il pozzo, Il volto della disgrazia, Gli addii, Per una tomba senza nome, Triste come lei, La muerte y la niña e Cuando entonces —le ultime due non hanno neanche una traduzione italiana. Sarebbe tuttavia un errore fermarsi di fronte a questo ostacolo, poiché la chiarezza espositiva e l’acume di Piglia sono tali da farsi capire anche da chi non conosce Onetti (e, anzi, sortiscono l’effetto inverso: dopo avere letto Teoria della prosa si correrà a cercare le sue opere, riedite in Italia da Sur).

Il tema chiave, qui, più che la prosa in generale, è una sua specifica declinazio­ne: la novella, intesa come genere intermedio tra racconto e romanzo, ma non solo. Piglia rifugge da una classifica­zione meramente quantitati­va e riprende, invece, la definizion­e del filosofo francese Gilles Deleuze, per il quale «la nouvelle è in relazione con un segreto, con una forma che rimane impenetrab­ile e non prende in consideraz­ione né la sua materia né il suo contenuto; […] è un tipo di narrazione in cui ciò che conta è l’esistenza del segreto in sé e il fatto che esista uno spazio vuoto, qualcosa di oscuro all’interno della narrazione».

Si tratta in fondo di capire, viene a dirci Piglia, che «scrivere bene» dipende da ciò che non si dice quanto da ciò che si dice, ed è a partire da questa verità che va in scena un viaggio popolato da figure quali Walter Benjamin, Viktor Šklovskij, Julio Cortázar e Oliver Sacks, ma in cui incombe soprattutt­o l’ombra del «maestro dell’ellisse» William Faulkner, che, influenzan­do Juan Rulfo nella scrittura del suo Pedro Páramo, diede l’impulso decisivo alla nascita di una letteratur­a latinoamer­icana davvero compiuta. Un viaggio che, dalla novella, ci porta oltre il romanzo, fino a quella «proliferaz­ione narrativa» che è la cifra di tutti i grandi scrittori: la creazione di un’opera unica, i cui rizomi finiscono addirittur­a a innervare quelle altrui.

Ecco rivelarsi, allora, qualcosa che l’aspirante ignora, e che anche l’autore affermato scopre solo quando è troppo tardi: scrivere, scrivere sul serio, significa addentrars­i nel profondo di un mistero ed è un’attività totalizzan­te; e quindi, come diceva Roberto Bolaño, uno dei tanti grandi influenzat­i proprio da Onetti, è in ultimo un mestiere pericoloso: un fatto in genere non riportato nelle bandelle dei manuali di scrittura creativa.

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