Corriere della Sera - La Lettura
Io Antonietta sorella di Chagall
Idipinti dai colori accesi, febbricitanti. Le sculture anti-graziose, monumentali e fortemente espressive. Cui si aggiungono i disegni su carta, i documenti, alcune foto di famiglia, lettere e pagine di diario. In tutto un centinaio tra opere e testimonianze, per raccontare — con taglio antologico e tematico al tempo stesso — il cammino di Antonietta Raphaël (1895-1975), l’artista di origini lituane che fu esponente di punta della cosiddetta «Scuola romana».
Titolo della rassegna, allestita fino al 30 gennaio alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (lagallerianazionale.com), Attraverso lo specchio. Un’espressione scelta per sottolineare la forte componente autobiografica del lavoro di questa artista dal temperamento ribollente e dotata di straordinaria fantasia, nelle cui opere riaffiorano di continuo emozioni, luoghi, istanti, affetti, sogni, gioie, ricordi, timori, desideri, «fantasmi», viaggi, amori…
«Ogni dipinto della Raphaël è uno specchio sul quale la pittrice si china per vederci riflessa la propria immagine», annotava Alberto Moravia nel 1970. E la frase è stata scelta dalle curatrici della mostra, Giorgia Calò e Alessandra Troncone, per introdurre un percorso in cui ampio spazio è riservato ai temi identitari dell’arte di Raphaël: femminilità, maternità ed ebraismo, su tutti.
Lo specchio dunque come metafora e filo conduttore, a partire proprio dai numerosi autoritratti che ripetutamente tornano nella produzione di Antonietta, la quale amava rappresentarsi come donna, madre e artista mettendo al centro della propria opera la sua identità. Donna indipendente e anticonformista, cosmopolita, una «straniera di passaggio» come la descrisse Mario Mafai — a lungo sodale, compagno e marito di Antonietta — a Roberto Longhi nel 1929, la Raphaël era nata a Kovno, attuale Kaunas, in Lituania, ultima di undici figli. Dopo la morte del padre, il rabbino Simon, nel 1905, ancora bambina, si trasferì insieme alla madre a Londra, all’epoca destinazione comune per tanti ebrei d’Oriente in fuga dai pogrom zaristi.
Nella capitale inglese, dove tornerà negli anni Trenta, Antonietta studiò musica, pianoforte in particolare, alla Royal Academy. Ma è a Roma che probabilmente iniziò a dipingere (i primi anni della sua esistenza restano ancora avvolti nel mistero, compreso un lungo soggiorno a Parigi) ed è qui che strinse il sodalizio d’arte e di vita con Mario Mafai dal quale avrà tre figlie: Miriam, Simona e Giulia. Quest’ultima, scomparsa di recente, ha contribuito a impaginare la mostra romana. Sua la supervisione scientifica del progetto, e sua la firma in calce a un suggestivo scritto in catalogo che rievoca la figura materna: «Portava con sé l’eco di un Oriente mitico e lontano, con una pelle di leopardo originale e, avvolto in un vecchio tappeto berbero, il suo amato violino, gli spartiti musicali di Scarlatti e di Brahms, la prima edizione dell’Ulisse di Joyce, le poesie di Dante in inglese, quelle scandalose di Oscar Wilde, il Cantico dei Cantici, i sonetti sensuali dell’amico Isaac Rosenberg e le foto di arte sumera, egiziana e greca, di Fidia e di Prassitele. Era presente la cultura classica con una rara edizione settecentesca delle Metamorfosi di Ovidio impreziosita da incisioni, un ampio bianco sarafan russo ricoperto di vivaci ricami e, avvolta con amore in un telo di candido lino, eredità della forte spiritualità ebraica, la Hanukkiah. Era l’antico candelabro del ’700 di suo padre, Simon, a legarla alle sue radici nella tradizione ebraica: un intricato intreccio fra passato e presente, mitico e mistico, sogno e realtà».
In questo intreccio fra passato e presente un posto speciale lo occuperà, dalla metà degli anni Venti, la leggendaria casa di via Cavour 325, epicentro di quella che Roberto Longhi definirà Scuola Romana di via Cavour. Un minuscolo appartamento con un grande terrazzo affacciato sui Fori, in un palazzo umbertino oggi non più esistente, dove la lituana di Roma dipinse a stretto contatto con Mafai e Scipione, dando vita a opere originalissime che fin dagli inizi manifestarono «i vagiti o la rapida crescenza di una sorellina di latte dello Chagall», secondo una celebre definizione dello stesso Longhi, che fu tra i suoi primi esegeti.
Un ampio spazio in mostra è riservato proprio all’intenso e complesso rapporto, un’intera vita tra amore e conflitti, Raphaël-Mafai: Ritratto di Mario (1928), in cui lui è colto nell’atto di dipingere Antonietta; Lezione di piano, opera di Mafai (1934) che ricorda il ruolo centrale della musica nella vita di Antonietta; Mario che dipinge lei in abito da sera nel suo studio di scultura (1934), e ancora Antonietta che si autoritrae scrivendo una lettera a Mario (1942). Un fitto gioco di rimandi e citazioni fino a un ultimo quadro, Mafai nello studio, omaggio postumo di Raphaël all’indomani della scomparsa del marito pittore (1965), qui immortalato mentre dipinge una delle sue celebri nature morte.
Ebraismo e femminilità — con ricorrenti figure di donne indipendenti e volitive — tornano invece nei dipinti di Raphaël di cui sono protagoniste Giuditta, Tamar o Salomè, eroine che diventano simbolo novecentesco non tanto di grazia e bellezza, quanto di forza e combattimento, donne in grado di sovvertire arcaiche e dominanti logiche patriarcali.
Un’ultima sezione della mostra raccoglie infine amici e compagni di strada di Antonietta: Scipione, Renato Guttuso, Giacomo Manzù, Katy Castellucci, i ritratti di Helenita Olivares, moglie di Aligi Sassu, e di mecenati che sostennero il suo lavoro, come quello della moglie di Alberto Della Ragione (1939), la coppia che accolse i Mafai a Genova, in fuga da Roma dopo l’approvazione delle leggi razziali. A partire da quest’ultimo nucleo di opere, che evocano l’entourage dell’artista lituana, la mostra costruisce anche un filo diretto con la collezione permanente del museo, suggerendo al visitatore un percorso nelle altre sale della Galleria, con opere di artisti che condivisero con Antonietta il cammino creativo.