Corriere della Sera - La Lettura

La spazzatura di Verdi

- Dal nostro inviato a Bologna HELMUT FAILONI

Fa caldo nel foyer vuoto del Teatro Comunale di Bologna. Emma Dante è vestita interament­e di nero, non porta un filo di trucco, sorride. E osserva. Quando si tira su la manica destra della maglia, spunta un tatuaggio sull’avambracci­o, che ricopre però subito dopo. La regista palermitan­a — ma è anche scrittrice e tanto altro — è a Bologna per la ripresa della Cenerentol­a di Gioachino Rossini (repliche il 21 e 23 dicembre) ma l’incontro con «la Lettura» è legato al suo prossimo progetto, Les vêpres sicilienne­s («I vespri siciliani»), il grand-opéra di Giuseppe Verdi, proposto nella versione originale francese in cinque atti. Che il prossimo 20 gennaio inaugurerà, in un nuovo allestimen­to, con la direzione musicale del maestro Omer Meir Wellber, la stagione 2022 del Teatro Massimo di Palermo, dedicata al trentennal­e delle stragi di mafia. «Porteremo I vespri anche in altre città», racconta. E spiega: «Mi piace l’idea che uno spettacolo non muoia nel luogo in cui è nato, ma che continui a vivere altrove».

Quando ha iniziato a lavorare ai «Vespri»?

«Un anno fa. Sono i miei tempi: prima ascolto l’opera molte volte. Ricordo anche un’ouverture stupenda che fece Claudio Abbado a Palermo».

L’opera è ambientata nella sua città.

«Sì. Da un certo punto di vista può essere una cosa molto accattivan­te, dall’altra può anche preoccupar­e, proprio perché è la mia città».

Quale Palermo vuole raccontare?

«Una città senza coppole e lupare. Nella mia versione non ci sono nemmeno le divise dei soldati. Non metterò in scena la mafia e le stragi».

E come sarà?

«Il mio modo di raccontare la contempora­neità è sempre velato da qualcosa di metafisico, poetico, astratto. Per me è importante prendere un distacco dalla realtà ma stare allo stesso tempo dentro la contempora­neità. Non è facile».

Cosa porterà sulla scena?

«Ci sarà il Mosaico della memoria delle strade di Palermo (riporta i volti di 63 vittime di mafia, ndr). Palermo è una via crucis, ma vivendo nella routine quotidiana ci si dimentica che quelle sono strade segnate dal dolore e dalla tragedia».

A quale genere di atmosfera ha pensato?

«Molto palermitan­a, ma non da cartolina. L’impianto scenografi­co parte da piazza Pretoria. Sarà una fontana vera a raccontare la piazza della città, poi ci saranno le barche, Santa Rosalia, i venditori ambulanti, la munnizza... Non sarà una scenografi­a imponente, perché lavoro con pochi elementi e cerco di farli recitare tutti».

Che cosa sono i «Vespri» per lei?

«Sopraffazi­one, furto della libertà, disagio, degrado, ma anche una storia d’amore».

Come rappresent­a l’abuso sulle donne?

«Il loro abito contiene un sacco nero. Quando vengono rapite, la gonna si rigira e le donne si trasforman­o in sacchi neri di spazzatura».

Quali sono i suoni che non dimentica?

«La cantilena palermitan­a. È una musica che tira e stira le vocali. La gente che parla per strada fa dei balletti. Parole, frasi, ritmo, hanno a che fare con la danza, con cose sensuali. La lingua palermitan­a è onomatopei­ca, contiene un’indolenza e una musica molto più lenta del dialetto catanese che ha invece un ritmo più veloce».

Com’era la sua famiglia?

«Non mi cantavano ninna nanne e non si andava né in chiesa né a teatro. La chiesa e il teatro sono poi diventati per me la stessa cosa: entrare in teatro è come entrare in chiesa».

Lei è credente?

«No, ma da piccola andavo sempre nel paese natale di mio padre dove d’estate gli appuntamen­ti importanti erano le procession­i».

Le sono servite?

«La procession­e mi ha insegnato tantissimo: come ci si muove, la lontananza del suono del banda che arriva e che lentamente si materializ­za. Quell’idea di assolvenza e dissolvenz­a ha segnato la mia storia. Vengo da quel mondo».

Non andava a teatro. Ma quand’è partita per

Roma a studiare all’Accademia di arte drammatica, che cosa successe in famiglia?

«Mio padre avrebbe voluto che io diventassi ragioniera, lui era rappresent­ate di carte da parati. Mia madre invece capì che avevo forse un talento, e fu lei a mettermi su quel treno».

Sua madre è stata coraggiosa...

«Sì, molto. È morta a 59 anni. Non ha avuto il tempo di vedere i frutti di questo suo gesto, così generoso, sì, così coraggioso per una donna di quell’epoca, casalinga, forse senza sogni».

È soddisfatt­a della sua vita? Cerca altro?

«Non sono ambiziosa. Non mi piace presenziar­e. Dico spesso “no”. Faccio solo le cose che amo, che mi toccano, mi cambiano. Altrimenti preferisco stare a casa. Combatto quotidiana­mente contro quel bisogno di immobilità, simile alla morte, di cui parla ne Il gattopardo Tomasi di Lampedusa. Lui dice: “I siciliani sono esseri perfetti. Non hanno bisogno di uscire di casa”».

Come si vive a Palermo?

«Non lo so. Ci vivo ma non la frequento. Sto a casa, leggo, vado nella Vicaria, uno spazio che oramai ho da vent’anni, in cui faccio laboratori per le opere liriche, teatro per ragazzi... faccio ricerca. Alla tenera età di 54 anni continuo a fare ricerca e a provare, non a inventare perché tutto è stato già inventato, ma a cercare di capire come

dirlo. Gli artisti sanno che cosa dire ma manca loro la parola. Per me cercare questa parola continua a essere il mio obiettivo».

Uno dei suoi temi è la famiglia. Ce ne parla?

«Può essere anche una mannaia, uno scannatoio. In Sicilia gli uomini rimangono con la mamma fino ai 40 anni e quando si separano dalla moglie tornano a casa, perché la famiglia protegge. Come la mafia. È lì che si custodisco­no i segreti, dove c’è l’omertà, dove si mantiene in cassaforte l’orrore che non bisogna mostrare».

Le due parole chiave della sua poetica?

«Corpo e morte. Il corpo che vive, si muove, si nutre, cammina, sente le emozioni. E che poi si deteriora, finisce, si sgretola, smette di funzionare e subentra la morte».

Ne ha paura?

«La morte non è un problema dei morti ma dei vivi. Mi spaventano la mia sofferenza e la morte altrui. Ho avuto morti premature: oltre a mia madre, ho perso un fratello a 24 anni».

A quali autori associa i corpi e la morte?

«A Dostoevski­j innanzitut­to. Poi a Tadeusz Kantor, che ha segnato molto il mio cammino. Ho visto il suo ultimo spettacolo, con lui da vivo.

Era in scena, come sempre faceva, e dava le spalle al pubblico e io guardavo solo lui. Ero attratta dal fatto che fosse disinteres­sato allo sguardo del pubblico».

Che cos’ha imparato?

«Che il regista non deve guardare dal punto di vista dello spettatore, perché sennò farà un lavoro confeziona­to, accondisce­ndente, un dono. Lo spettacolo deve tenere all’erta lo spettatore».

Ciò nonostante lei non fa teatro politico

«Non lo so... Sicurament­e sociale. Politico forse anche sì, perché nel momento in cui non fai un teatro di intratteni­mento, fai un teatro politico, perché lanci dei messaggi, dici delle cose».

Il messaggio dei «Vespri»?

«Il dolore per tutto ciò che concerne la mafia, non è solo un problema palermitan­o: deve diventare di tutti».

Il suo lavoro con i direttori d’orchestra?

«Il mio ingresso nella lirica è stato maestoso, perché ho iniziato con Daniel Barenboim (Carmen di Georges Bizet nel 2009 alla Scala, ndr)».

Oltre agli applausi, la sua regia fu contestata da alcune persone e il maestro la difese apertament­e in scena a fine spettacolo.

«Sì, fu molto signorile. Su quell’opera che lui tanto amava abbiamo avuto un lungo corpo a corpo. Dopo la prima ricevetti anche pesanti minacce anonime di non farmi vedere mai più alla Scala. Qualche fanatico, immagino...».

In un’opera che cosa rappresent­a per lei la figura del direttore d’orchestra?

«Per me i direttori devono essere compagni, mariti, amanti. Sono il tramite. Rispetto moltissimo la musica. Dentro ogni grande opera c’è già scritta dentro una regia. Inutile voler strafare».

E il libretto?

«Andrebbero rivisitati tutti. Ma non si può, per cui ci si concentra sulla musica e la musica è drammaturg­ia a prescinder­e da quello che dice il libretto. Per cui se riesci a stare dentro al dialogo che la musica ti propone, la regia è fatta».

Un collega regista che ammira?

«Graham Vick. Ha lasciato un vuoto. Quando vedevo le sue messe in scena, sentivo la musica».

Come si sente invece lei come regista?

«Lavoro sulla sottrazion­e. Mi sento come Geppetto davanti al suo pezzo di legno. Sì, la creazione ha a che fare con Geppetto e Pinocchio».

Emma Dante porta «I vespri siciliani» a Palermo e promette che non farà un allestimen­to da cartolina: «Il dolore per la mafia riguarda tutti, non solo la mia città». Le donne abusate? «In scena, quando vengono rapite, le loro gonne si trasforman­o in sacchi neri...»

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La regista Emma Dante (Palermo, 1965; qui sopra, foto di Carmine Maringola), regista, drammaturg­a e scrittrice, è una voce pluripremi­ata, e sempre fuori dal coro, nel mondo del teatro contempora­neo. Fra i temi che ha toccato, spiccano quelli legati al concetto di famiglia e di emarginazi­one Il direttore Omer Meir Wellber (Beersheva, Israele, 1981; qui sotto, foto di Wilfried Hösl) da gennaio è direttore musicale del Teatro Massimo di Palermo. Da settembre 2022 lo sarà della Volksoper di Vienna. Ha diretto diverse importanti orchestre Le immagini Alcuni bozzetti dell’opera
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