Corriere della Sera - La Lettura

Il bar dei mostri spaziali è casa mia

Phil Tippett fu chiamato da George Lucas per gli effetti speciali di «Guerre stellari», del quale nel 2022 ricorreran­no i 45 anni. Inventò la locanda dove Luke incontra Han Solo: «Non capii che avremmo cambiato il mondo». Ha vinto due Oscar

- Di EMILIO COZZI

Tutto cominciò con una scimmia. I due Oscar per gli effetti speciali (Il ritorno dello Jedi e Jurassic Park) arrivarono poi, così la sfilza di premi internazio­nali. Ma l’inizio, per Phil Tippett, si dovette a una scimmia. Finta. Il lavoro fatto per King Kong dall’effettista Rick Baker aveva impression­ato così tanto George Lucas, da volere Baker per un nuovo film, quello su cui il regista stava giocandosi credibilit­à, patrimonio personale e salute. Si sarebbe intitolato Star Wars (Guerre stellari) e avrebbe cambiato il mondo. Cosa al momento ignorata da tutti, compreso Baker, che per rispettare le scadenze reclutò un manipolo di modellisti più economici che esperti. Tippett fu chiamato per questo: aveva 24 anni. La band di mostri che suona nella cantina dove Luke Skywalker conosce Han Solo e Chewbacca nacque allora «usando l’assortimen­to di tutte quelle cose che Baker aveva nel cassetto», confessa oggi Tippett. Due Academy Awards e quasi mezzo secolo più tardi (nel 2022 Star Wars festeggerà i 45 anni, e 35 RoboCop, altro film in curriculum), Tippett ha partecipat­o alla View Conference, simposio torinese su computer grafica ed effetti speciali. Un’occasione per celebrare l’ennesimo anniversar­io: i 25 anni di Dragonhear­t, che nel ’96 gli fruttò una delle 6 nomination agli Oscar della carriera.

Riesce a raccontars­i in poche parole?

«Sono sempre stato innamorato del lavoro di Willis O’Brien e Ray Harryhause­n. Da bambino, feci qualsiasi lavoretto pur di comprarmi una telecamera 8 millimetri stop-motion. Per fare pratica, iniziai a esercitarm­i con l’argilla, 40 anni dopo lo faccio con la grafica computeriz­zata».

Ottima sintesi...

«È stato un cammino in salita, il mio: all’inizio impiegavo anche tre mesi per realizzare una scena. Quando fui assunto alla Cascade Pictures, a Hollywood, avevo poco più di vent’anni, ma almeno dieci di esperienza. Un giorno, nel 1975, mi dissero che un tizio ingaggiava persone per un film di fantascien­za. Era Robert Edlund, che allora non avevo mai sentito nominare, ma che poi avrebbe vinto sette Oscar. In realtà cercava un cameraman, però mi consigliò di contattare un suo collaborat­ore. Quando, pochi giorni dopo, incontrai Dennis Muren, per la prima volta vidi un Motion Control Equipment e iniziai a lavorarci. Il film era Star Wars».

Capì che avreste cambiato la storia?

«No, pensavo a fare del mio meglio. Il successo di Star Wars sorprese tutti, anche Lucas: era convinto sarebbe stato il suo ultimo film. La realtà è che non c’erano abbastanza soldi, quindi George assunse artisti a basso costo come Jon Berg, Doug Beswick, Rob Bottin e me. Chiese di realizzare il maggior numero d’alieni in sei settimane. Lavorammo giorno e notte. Rob Cobb, un concept artist che poi contribuì ad Alien e Blade Runner, disegnò senza sosta. Che avventura!».

Avventura per la quale lei inventò creature e sequenze iconiche, oltre a tecniche di animazione innovative.

«In quegli anni, fra Star Wars e L’impero colpisce ancora sviluppamm­o idee come la Motion Control Unit, che avevo avuto lavorando a Piraña di Joe Dante. Avevo architetta­to un sistema per applicarla alle creature marine. Funzionò e decidemmo di impiegarla per le scene in movimento de L’impero. Tutto iniziò lì».

A livello visivo film datati come «Guerre stellari» e «Jurassic Park» sono più credibili di opere d’oggi...

«Certo: in un’epoca in cui il nostro immaginari­o è perlopiù digitale, è ancora la materia a risultare più convincent­e. La mia carriera l’ha dimostrato spesso».

Per esempio?

«La nemesi di RoboCop, il robot ED209: lo disegnò Craig Hayes, nemmeno ventenne ma per me già un genio, ispirato da anime giapponesi come Gundam. Subito, la sequenza nella sala riunioni, in cui il droide interagisc­e con gli attori, ci sembrò impossibil­e da realizzare con un blue screen e quel budget. Allora proposi a Paul Verhoeven, il regista, di creare un ED-209 a grandezza naturale. Per farlo sembrare vivo, lo feci vibrare sfruttando un subwoofer. Verhoeven andò in estasi. È stimolante lavorare con persone così ricettive. Capitava anche con Lucas».

Si dice avesse in testa tutto l’universo che ha raccontato nei suoi film...

«George? Credo non smettesse mai di crearlo, quell’universo. Durante la lavorazion­e de Il ritorno dello Jedi, ogni settimana controllav­a i progressi. Gli chiedevo di confrontar­ci sul copione e replicava ci fosse poco da leggere. Così capii che veniva a trovarci per farsi ispirare. Dava un’occhiata e se ne usciva con: “Che cos’è?”. “Un uomo calamaro”, rispondevo. “Perfetto, sarà l’ammiraglio Ackbar!”».

C’è un rapporto fantasia-scienza?

«Eccome! Quando, a 5 anni, vidi il primo King Kong, non avevo idea di che cosa fosse ma la mia passione per le creature si accese.Iniziai a studiare i dinosauri fino a diventare paleontolo­go dilettante. Per questo penso di essere stato la scelta giusta per Jurassic Park: sul set ne sapevo più di chiunque altro. Venni invitato alle sedute di sceneggiat­ura con Steven Spielberg e David Koepp e ricordo che, per quando il T. Rex attacca l’auto dei bambini, feci notare che un tirannosau­ro non avrebbe potuto addentare la macchina come previsto. Proposi che cercasse di capovolger­la per raggiunger­ne il tenero ventre. L’idea entusiasmò tutti. Anni dopo, alcuni paleontolo­gi mi dissero di essersi ispirati a Jurassic, come capitò a me con King Kong. C’è una relazione biunivoca fra immaginazi­one e scienza».

Il cinema alimenta ancora la fantasia collettiva, oppure oggi lo fanno solo videogioch­i e serie tv?

«Qualsiasi cosa ci sia là fuori ha una qualche influenza sulle persone. Il cinema ne ha. Non va emulato il lavoro altrui ma creato qualcosa di diverso. È stato il mio scopo: realizzare cose che nessuno avesse già visto. Quello che esiste è la scintilla, sta a noi trasformar­la in fuoco».

 ?? ??
 ?? ?? Il personaggi­o Phil Tippett (Berkeley, Usa, 27 settembre 1951; qui sopra), laurea artistica all’Università della California, ha 24 anni quando George Lucas lo ingaggia per Star Wars. Diventa poi head of animation & creature designer per la Industrial Light & Magic dove crea personaggi e tecniche di ripresa epocali: sono di Tippett gli scacchi olografici sul Millenium Falcon, le sequenze dei camminator­i meccanici de L’Impero colpisce ancora (in alto) ma anche Jabba the Hutt o l’ammiraglio Ackbar. Fondato il Tippett Studio nel 1984, contribuis­ce all’invenzione della gomotion e all’evoluzione della computer grafica lavorando a film come RoboCop, Indiana Jones e il tempio maledetto, Jurassic Park e alla saga di Twilight. Colleziona due Oscar (su 6 nomination), un Bafta (su 4), due Emmy e l’unanime riconoscim­ento del ruolo chiave nello sviluppo degli effetti visivi. Collabora con i Marvel Studios, di cui ha ammesso di non guardare i film, e nel 2021 ha diretto il terzo capitolo dello sperimenta­le Mad God, finanziato in crowdfundi­ng
Il personaggi­o Phil Tippett (Berkeley, Usa, 27 settembre 1951; qui sopra), laurea artistica all’Università della California, ha 24 anni quando George Lucas lo ingaggia per Star Wars. Diventa poi head of animation & creature designer per la Industrial Light & Magic dove crea personaggi e tecniche di ripresa epocali: sono di Tippett gli scacchi olografici sul Millenium Falcon, le sequenze dei camminator­i meccanici de L’Impero colpisce ancora (in alto) ma anche Jabba the Hutt o l’ammiraglio Ackbar. Fondato il Tippett Studio nel 1984, contribuis­ce all’invenzione della gomotion e all’evoluzione della computer grafica lavorando a film come RoboCop, Indiana Jones e il tempio maledetto, Jurassic Park e alla saga di Twilight. Colleziona due Oscar (su 6 nomination), un Bafta (su 4), due Emmy e l’unanime riconoscim­ento del ruolo chiave nello sviluppo degli effetti visivi. Collabora con i Marvel Studios, di cui ha ammesso di non guardare i film, e nel 2021 ha diretto il terzo capitolo dello sperimenta­le Mad God, finanziato in crowdfundi­ng

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy