Corriere della Sera - La Lettura
Atreju è l’eroe che apre le porte allo straniero
Fraintendimenti culturali La principale manifestazione giovanile della destra italiana ha preso il nome dal protagonista de «La storia infinita», romanzo del tedesco Michael Ende. Ebbene: ha la pelle olivastra, tatuaggi tribali di calce bianca e la sua missione, l’unica che può salvare la Regina di Fantàsia, è facilitare l’ingresso di un forestiero. Cioè un immigrato
La principale manifestazione politica della destra italiana ha preso in prestito il nome di uno dei protagonisti de La storia infinita, o, almeno, della sua deludente versione cinematografica: Atreju, scritto con la «j» come nell’edizione originale, mentre nella traduzione internazionale e italiana è con la «i» o la «y». A parte il cambio di lettera, perché proprio lui? Perché non Conan, o la Cimmeria, che non solo sono liberi da copyright ma rimandando a un eroe solitario capace di opporsi ai potenti fino a diventare lui stesso Re (avete presente un attore conservatore che diventa anche governatore della California?). Invece, Michael Ende: difficile. La sua storia è più allegorica di quella di Potter, più internazionale de Il signore
degli anelli, più intenzionale di Conan: è un’opera-mondo, inscindibile dall’identità del suo autore, popolata di personaggi ambigui, ermetici, in perenne trasformazione, doppi. È molto europea: il Minuscolino che attraversa le prime pagine a cavallo di una lumaca da corsa pare uscito da Collodi; il leone Graogramàn parla come il Leone/Cristo di C. S. Lewis in Narnia; il lupo Mork che tutto divora è quello dell’epica norrena e Bastiano Baldassare Bucci (il vero protagonista) chiama i suoi desideri come il «fa ciò che vuoi» del Gargantua di Rabelais. Vocazione europea, dunque? Il problema, se esiste, è più sottile. Quando il libro arriva, nel 1981, in Italia non si è ancora del tutto consumata una scaramuccia ideologica, peraltro ignorata in tutto il resto del mondo, se si debba considerare la letteratura fantasy una letteratura di destra. E non necessariamente per conquista: tutte le altre erano già prese. A scatenare gli animi è la prima edizione de Il signore degli anelli (Rusconi, 1970), ovvero la prova provata che per rovinare un libro non c’è niente di meglio che chiedere l’introduzione a un grande intellettuale: questa volta tocca a Elémire Zolla, filosofo delle religioni di stampo decisamente conservatore, che ne prepara una assolutamente sciagurata. Non solo in cinque pagine rivela l’intera trama del romanzo, con tanto di colpo di scena finale, ma ne travisa il senso: là dove Tolkien vuole fare una critica profonda all’insularità dei suoi compatrioti (gli stessi che hanno votato Brexit, per intenderci), Zolla intravede un manipolo di eroi pronti a lottare contro la burocrazia dello Stato.
Ad aggiungere danno su danno ci pensa la traduttrice, Vicky Alliata di Villafranca, che mette «Gnomi» al posto di Elfi, quando le sarebbe bastato aprire l’Encyclopaedia Britannica per scoprire che per i professori di Oxford «gnomo» è un «essere sotterraneo che custodisce tesori in miniere sotterranee»: quindi non tanto bene, per Legolas e Galadriel.
Ma ormai il dado è tratto: Tolkien diventa un piccolo paladino dell’anti-Stato, a Montesarchio (Benevento) si organizza il primo campo Hobbit (saranno 4) dove i giovani del Msi inneggiano al pensiero alternativo. Ci sono echi del Baden-Powell prima maniera, quello dei Boy Scout. E forse in pochi sanno (io l’ho appreso leggendo
La riscoperta dell’umanità di Charles King, Einaudi) che praticamente ogni elemento mitico dello scoutismo è stato saccheggiato dai nativi americani: accamparsi con le tende, vivere fuori, le penne come medaglie, i ruoli, i racconti attorno al fuoco... tutti miti che diventano americani quando a loro serve darsi un appannaggio di tradizione che poi, negli anni Venti e Trenta, fanno fiorire in Europa le varie e non sempre valorose gioventù sportive (rigorosamente outdoor) della propaganda.
Negli anni Settanta, comunque, gli Hobbit degli Appennini se li filano in pochi. I critici letterari sono ancora indaffarati a scimmiottare Jean-Paul Sartre (senza averne letto i saggi sull’immaginario) e non si accorgono che corrono pochissime differenze tra il libraio antiquario de La storia infinita, Gandalf e il dottor Živago. Altri editori intellettuali, Franco Maria Ricci e Roberto Calasso su tutti, scelgono di non prendere posizione, seguendo il consiglio di Nietzsche (la miglior critica possibile è girarsi dall’altra parte).
Sulle mappe del fantasy, e solo in Italia, rimangono quindi ben piantate alcune bandierine politiche, ed è a questo punto, nel 1998, che nasce l’idea di Atreju, con riferimento all’eroe che si oppone al Nulla, che nel libro è proprio Nulla, non è nemmeno un buco, perché un buco sarebbe già qualcosa. L’originale è un ragazzo selvaggio che indossa «calzoni lunghi e scarpe di morbido cuoio di bufalo». Un cacciatore a torso nudo, con un mantello rosso porpora, di peli di bufalo. Ha lunghi capelli nero-azzurri legati dietro al capo con una cordicella di cuoio e un gran ciuffo. Pelle olivastra, tatuaggi tribali di calce bianca. E la cosa più interessante è che la sua missione, l’unica che può salvare la Regina di Fantàsia, è facilitare l’ingresso di uno straniero, uno che abbia l’immaginazione necessaria per sistemare tutta quanta la baracca.
Lo spiegano bene Gianni Guadalupi e Alberto Manguel nel Manuale dei luoghi fantastici: Fantàsia è il luogo che più di ogni altro incentiva il turismo e l’arrivo di stranieri. È senza confini né frontiere, e, insomma, ha un disperato bisogno di una costante immigrazione (di lettori) per potersi reinventare di continuo. Atreyu, con la «y», si mette quindi al servizio di un ragazzino fantasioso, uno che ha appena marinato la scuola per chiudersi in una soffitta in compagnia di un topolino bianco (come il Bianconiglio di Carroll), flaconi, alambicchi, una volpe, un’aquila e un gufo impagliati, nonché l’immancabile scheletro in un angolo (come nei racconti di Buzzati). Quando si spoglia degli abiti zuppi di pioggia e si riveste per poter leggere, capisce che il libro è magico: non solo inizia capovolto, con le lettere allo specchio, ma è scritto in due colori, il rosso e il verde, e ha i due serpenti del caduceo in copertina, ovvero il male e il bene entrambi necessari.
Il ragazzino dirà le parole giuste per attivare gli oggetti magici, parole di lingue distanti tra loro (la spada Sikanda, la pietra Al-Tsahir, la cintura Ghemmal) e saprà fermarsi al momento giusto, prima di perdere il suo, di nome. Allora torna alla realtà, racconta ogni cosa a suo padre e si riconcilia con lui, esattamente come fece Ende nella vita vera (i quadri del padre, Edgar Ende, furono banditi dal nazismo e per lungo tempo i due non si videro). Insomma, per opporsi davvero al Nulla, occorre avere il coraggio di guardare fuori e portare, da fuori, idee e nomi nuovi.