Corriere della Sera - La Lettura
Francesco Sabatini Lingua in cammino L’infanzia in Abruzzo, la scoperta che nelle parole si nascondono tracce di scambi inattesi: i 90 anni di un maestro appassionato
Arifare le tappe del suo cursus honorum ci si metterebbe troppo. Dunque, basti dire che è il decano dei linguisti italiani e il presidente onorario dell’Accademia della Crusca, che ha presieduto attivamente dal 2000 al 2008, promuovendone il riconoscimento come ente pubblico. Ma più di tutto serve ricordare che, novant’anni il 19 dicembre, Francesco Sabatini non è stanco di nulla. Tanto meno è stanco di combattere sul fronte della lingua italiana, di studiare, di organizzare e partecipare a convegni, di leggere, di discutere, di scrivere. Appartiene a una generazione infaticabile e illustre di studiosi, filologi, lessicografi, storici della lingua, ma rispetto ai colleghi accademici è certamente meno accademico, tant’è vero che è diventato famoso offrendo ogni domenica mattina su Raiuno alle famiglie italiane il suo Pronto soccorso
linguistico. Con uno straordinario equilibrio tra cordialità, chiarezza e severità paterna. Senza dimenticare che a Sabatini si devono studi fondamentali che vanno dall’attribuzione a Boccaccio della cosiddetta Epistola napoletana fino alla teoria della grammatica valenziale, che rivoluziona il modo di analizzare la frase. Un arco di interessi incredibilmente ampio. In cui c’è il suo Abruzzo, a cui ha dedicato anche una giovanile esperienza politica negli anni Cinquanta, quando è stato consigliere comunale del suo paese, Pescocostanzo, occupandosi del Piano regolatore, per evitare gli scempi edilizi nel centro storico. E dunque, data la ragguardevole meta anagrafica raggiunta con slancio, più che dello studioso ci occupiamo della sua vita.
Francesco Sabatini, che origini ha la sua famiglia?
«La mia famiglia ha origine da un artista di ascendenza bolognese, chiamato nel Seicento a Pescocostanzo per costruire i soffitti a cassettoni nella Collegiata. La sua discendenza si è radicata in paese, dove c’era molta committenza d’arte. I miei antenati erano borghesi, dediti alle arti e alle professioni. Nell’Ottocento dichiaratamente liberali. Un mio prozio era canonico e ardente patriota, perseguitato dalla polizia borbonica».
E suo padre?
«Mio padre, Gaetano, era medico, dapprima medico condotto in vari paesi, poi ha esercitato privatamente. È stato anche volontario negli ospedali militari del Nord durante la Grande guerra. Si è sposato tardi, a 61 anni, nel 1929, con Bianca D’Eramo, di un paese vicino (Introdacqua), famiglia di garibaldini e repubblicani. I miei zii materni avevano nomi Menotti, Imbriani, Mazzini, Italo, Italia».
A cosa deve l’amore per la storia e la lingua?
«Mio padre aveva grande passione per gli studi storici e ha trasmesso a me e a mio fratello Giuseppe, anche lui medico, un carico fortissimo di memoria storica: non solo del Risorgimento, ma estesa al Medioevo. Aveva pubblicato documenti medievali conservati nella biblioteca di famiglia ed era in contatto con una cerchia di intellettuali degli anni Trenta. La formazione scolastica di noi figli era ampiamente rinforzata dall’apporto paterno. Di sera mio padre ci leggeva I promessi sposi ei romanzi di Guerrazzi e D’Azeglio. Cuore, Pinocchio, I tre
moschettieri, Salgari li leggevamo da soli».
Anche lei trova un interesse particolare per la storia della sua regione?
«La componente storica, soprattutto storico-territoriale, mi ha sempre accompagnato. Mio tema principale è stato quello della “Via degli Abruzzi”, cioè delle grandi correnti di scambi commerciali e culturali che legarono l’Abruzzo alla Toscana nel tardo Medioevo per il commercio della lana e poi alla Lombardia, con l’afflusso delle maestranze impiegate nella ricostruzione dopo i grandi terremoti del 1456 e del 1703-1706. È anche la via che portò l’esercito piemontese e il re all’incontro di Teano nell’ottobre 1860. Al passaggio della truppa, la mia famiglia mandò sacchi di grano per i rifornimenti».
Erano anche posti che piacevano ai letterati.
«Nel decennio anteguerra, mentre nella vicina Roccaraso si celebravano i fasti delle villeggiature mondane (d’inverno venivano anche i Savoia), a Pescocostanzo soggiornavano alcuni intellettuali: il filosofo Adolfo Omodeo, l’orientalista Giuseppe Tucci, il neuropsichiatra Ugo Cerletti. Nel dopoguerra veniva anche Natalia Ginzburg con il figlio Carlo. E l’urbanista Leonardo Benevolo, da cui come consigliere comunale ottenni gratuitamente il Piano regolatore».
In casa si parlava più il dialetto o l’italiano?
«In famiglia c’era una costante immersione nella cultura italiana, ma erano intensi i rapporti con l’ambiente locale, almeno fino al nostro trasferimento a Roma, che avvenne nel 1940. In casa si parlava stabilmente l’italiano, ma con venature regionali, soprattutto di lessico. Il comodino si chiamava colonnetta e l’asciugamani tovaglia. Ma dall’ambiente circostante ho appreso con facilità il dialetto locale: ogni tanto lo tiro fuori, per divertimento o per riflessione scientifica».
Per la recente istituzione del Parco Letterario Benedetto Croce, lei ha avuto modo di studiare i legami del filosofo con l’Abruzzo. Che cosa ne ha ricavato?
«Nel paese paterno, Montenerodomo, è stato una sola volta dopo la guerra per salutare un cugino e visitare la biblioteca di famiglia. A Pescasseroli, paese della madre, si è fermato un paio di volte: nel 1910 fece una conferenza agli abitanti dal balcone della casa materna. Di recente è emersa l’importanza di Raiano, vicino a Sulmona, che frequentava per villeggiatura tra il 1905 e il 1913».
Anche lì aveva una casa di famiglia?
«Era ospite di una cugina in un palazzo signorile, dove ha ricevuto l’editore Laterza, quando ha creato la collana degli “Scrittori d’Italia”. Lì viveva con la sua prima compagna di vita, la romagnola Angelina Zampanelli, morta di tisi in quel paese. Da Raiano, quando ormai era senatore, Croce poteva muoversi facilmente grazie alla ferrovia e poteva restare in contatto con corrispondenti italiani ed europei. Ha anche intrecciato fitti rapporti con studiosi abruzzesi, storici, archeologi, eccetera. Insomma, studiando le lunghe vacanze dall’agosto all’autunno, si coglie il suo legame con l’Abruzzo: soprattutto per ciò che ha dato, più che preso».
Che cosa ricorda della guerra?
«Con i bombardamenti su Roma i miei genitori decisero di stabilirsi a Pescocostanzo, dove tra le montagne si sentivano più al sicuro che a Roma. Il 19 luglio 1943 si trovavano sotto le bombe alla stazione Tiburtina: erano rientrati quel giorno a Roma per prendere i vestiti pesanti che sarebbero serviti al paese durante l’inverno. Riuscirono a tornare, ma con la linea Gustav gli ufficiali tedeschi ci occuparono la casa per due mesi e mezzo. Ricordo le segrete conversazioni in francese di mio padre
con un tedesco che gli confidò che lì sarebbe finito tutto raso al suolo e gli consigliò di prepararci a scappare».
Come riusciste a fuggire?
«Gli altri abitanti si rifugiavano nei boschi, ma i tedeschi restarono otto mesi sotto gli attacchi degli alleati: ci fu un eccidio a Pietransieri in cui i nazisti fecero 128 vittime, 34 delle quali erano bambini sotto i dieci anni. Noi incerti fummo caricati su un camion tedesco che rastrellava gli ultimi sfollati per portarli a Nord: infatti alcuni furono scaricati all’Aquila, altri a Padova. Fatto sta che a Sulmona il camion si fermò davanti a una birreria e mentre i tedeschi bevevano birra riparammo in casa dei nonni materni».
Lì finalmente eravate al sicuro?
«Rimanemmo nascosti per paura di essere ripresi e portati via. Avevamo qualche contatto inconsapevole con persone che poi seppi essere della formazione partigiana “Patrioti della Maiella”. Veniva a trovarci la sera, per chiacchierare con mio padre, un maresciallo dei carabinieri in borghese, passato dalla parte dei resistenti. E per qualche mese siamo rimasti in casa di un amico di famiglia, non sapendo che era entrato tra i partigiani della Maiella».
Vide l’arrivo degli americani?
«Me lo ricordo nettissimamente. E mi ricordo anche la libera circolazione dei patrioti della Maiella che andavano arrestando i repubblichini».
In che stato trovaste il paese al ritorno?
«La casa fu colpita da cannonate, incendiata e minata. Tutto ciò ha anche rafforzato il legame con la popolazio