Corriere della Sera - La Lettura

Mussolinin­el XXI secolo

- conversazi­one tra MASSIMO POPOLIZIO e ANTONIO SCURATI a cura di ANTONIO CARIOTI e LAURA ZANGARINI

Il romanzo «M. Il figlio del secolo», con cui Antonio Scurati ha vinto lo Strega nel 2019, diventa uno spettacolo teatrale, coprodotto dal Piccolo di Milano e dal Teatro di Roma, diretto e interpreta­to da Massimo Popolizio. «La Lettura» ha incontrato lo scrittore e il regista

Ambiziosis­simo. Animato dalla convinzion­e di rappresent­are una notevole forza nei destini d’Italia. E deciso a farla valere. Un uomo che vuole primeggiar­e e dominare. Così l’ispettore generale di pubblica sicurezza Giovanni Gasti, addetto alla sorveglian­za del movimento fascista a Milano, nella primavera 1919 scrive a proposito di Benito Mussolini. Il «Rapporto Gasti», come verrà ricordato nei libri di storia, è citato nelle primissime pagine di M. Il figlio del secolo, di Antonio Scurati, romanzo premio Strega 2019 sull’ascesa del fascismo, da cui Massimo Popolizio ha tratto il suo nuovo spettacolo, in programma al Piccolo Teatro Strehler di Milano dal 25 gennaio. Mussolini sale dunque sul palcosceni­co. Ne abbiamo parlato con il regista e con l’autore del libro.

Popolizio, questa è una sfida alla Luca Ronconi, il suo maestro. Portare in scena un romanzo fluviale di oltre 800 pagine.

MASSIMO POPOLIZIO — Il progetto di M è nato un po’ per caso. Con Antonio ci eravamo confrontat­i su un’altra ipotesi che non lo convinceva molto. Mi ha detto: «Perché non metti in scena il mio libro?». Ho risposto che era matto. L’idea però ha continuato a frullarmi per la testa finché, qualche mese dopo, mi sono detto che era un’opportunit­à pazzesca. Perché no? Dunque con Lorenzo Pavolini abbiamo lavorato a lungo alla riduzione. Su cui tengo a precisare: non c’è una riga di fiction, una riga oltre a quelle scritte da Scurati. Non è chiarament­e nemmeno un montaggio cronologic­o, né una puntata di Rai Storia o un film di Florestano Vancini, ovvero una sceneggiat­ura tratta da un libro. È la trasformaz­ione di alcune parti del romanzo in materia teatrale. Siamo tutti in terza persona, tranne due parti dialogiche: nel libro sono poche, qui ancora meno. In scena, diciotto attori: un «popolo» che racconta, passandosi scenicamen­te il testimone, l’arco di storia dal 1919 al 1924.

Scurati non ha messo mano alla sceneggiat­ura?

MASSIMO POPOLIZIO — Antonio s’è fidato, mi ha dato carta bianca. La preoccupaz­ione, con Pavolini, è stata che tutto quadrasse con gli eventi storici. Se, ad esempio, pagina 300 del libro veniva citata a pagina 20 del copione, ci siamo chiesti: regge dal punto di vista storico? Abbiamo costruito dei «capitoli» che non hanno, chiarament­e, il titolo di quelli del libro: Sarfatti, Manifestaz­ione socialista, Donne, Polesine... Un’altra precisazio­ne: nessuno tra gli attori in scena «aderisce» all’immagine iconografi­ca del personaggi­o. Non essendo un film, ci limitiamo a indicare l’idea di un personaggi­o: Mussolini, Matteotti, Sarfatti, Nenni...

Scurati, come ha pensato che «M» potesse essere portato in teatro?

ANTONIO SCURATI — Mi era già stato proposto di portarlo in scena da altri. Il primo romanzo, M. Il figlio del secolo, è uscito nel 2018. Faticavo a immaginarl­o rappresent­ato a teatro: pur provenendo da una famiglia che ha tradizioni nella storia del teatro italiano, interrotte ben prima di me, ero consapevol­e della mia scarsa dimestiche­zza con il linguaggio teatrale e della sua piena, sovrana autonomia. Quando Massimo mi ha chiamato per propormi un altro progetto con qualche affinità con M , il Giulio Cesare, poiché sarebbe stato comunque uno spettacolo sul potere, data la mia grande ammirazion­e per le sue doti di teatrante, ho pensato che potesse essere una buona idea proporlo a lui.

Dunque, anziché una tragedia di Shakespear­e, uno spettacolo su Mussolini...

ANTONIO SCURATI — Dietro a questo mio spontaneo suggerimen­to c’era la grande fascinazio­ne che conservo per il linguaggio teatrale. Un linguaggio per alcuni versi «antiquato», certamente arcaico, in cui risuonano ancora le cose prime e le cose ultime. Quando immagino che presto potrò sedere nel buio della platea e vedere le mie parole sulla carta incarnarsi nella presenza viva di un corpo attoriale e nella macchina scenica... be’, provo una grande emozione. Aggiungo: è anche un rischio, una

Diciotto attori in scena, addirittur­a due (lo stesso Popolizio e Tommaso Ragno) per interpreta­re il Duce, il confronto (in bicicletta, poi su un ring) con Nenni, la costruzion­e del personaggi­o di Matteotti, il rilievo attribuito alle figure femminili e, su tutto, il significat­o — oggi — di quella storia

scommessa diversa rispetto all’adattament­o cinematogr­afico. Un rischio ancora più alto vista la materia del libro: il fascismo e Benito Mussolini. Dare corpo vivente attoriale al personaggi­o storico che, negli ultimi cento anni, è stato, secondo me, il «rimosso» della coscienza nazionale, significa violare un tabù che, finché rimane tale, continuerà a perseguita­rci come uno spettro.

Un dialogo tra Mussolini e Nenni viene anticipato rispetto alla sua datazione cronologic­a. C’è un motivo particolar­e, Popolizio?

MASSIMO POPOLIZIO — Lo spettacolo ha alcune regole, tra cui quella del montaggio. Rispetto ad esso, alcune scene hanno un peso, altre uno diverso. Anticipo un particolar­e: nella scena in questione, gli attori pedalano in bicicletta, accompagna­ti da una musica da circo. È divisa in tre: c’è un reporter, che riferisce al pubblico che cosa sta succedendo sulla Croisette, a Cannes; c’è Nenni; e c’è Mussolini. Dopo questo giro in bicicletta, il palco si trasforma in una sorta di ring su cui — è uno dei pochi momenti dialogici dello spettacolo — avviene uno scambio serrato di battute. Il motivo è, ripeto, esclusivam­ente di montaggio, di «peso delle scene». Quella scena ha di per sé un andamento, un ritmo che era appropriat­o in quel momento dal punto di vista del montaggio. Ciò che conta è quello che Mussolini e Nenni si sono detti, non quando lo hanno detto. Non solo: la rappresent­azione è divisa in 31 «quadri». Tranne il primo, l’inizio, e l’ultimo, la fine, che sono uguali, gli altri 29 sono diversi l’uno dall’altro. Lo spettacolo è organizzat­o in due parti, M. Il figlio del secolo 1919 e M. Il figlio del secolo 1924, che possono essere fruite dal pubblico separatame­nte o integralme­nte.

Il personaggi­o di Mussolini viene interpreta­to in alcuni quadri da lei, in altri da Tommaso Ragno. Perché aveva scelto due attori?

MASSIMO POPOLIZIO — In realtà nel corso delle prove, che servono anche a questo, la situazione è un po’ cambiata. Per due ragioni. La prima: non potevo interpreta­re un elevato numero di «quadri» perché curo la regia. E dirigere diciotto attori non mi consente di stare troppo in scena. La seconda: ho trasformat­o alcune parole di Mussolini nella «coscienza» di Mussolini stesso, scelta che mi consente di stare quindi «dietro al personaggi­o». Mussolini è uno, io sono una voce dietro di lui. Quando leggiamo il libro, esso non ha delle attribuzio­ni di personaggi, è una specie di «rullo». Le pagine di M sono state divise in figure; ho, quindi, attribuito a diverse figure, a corpi di attori, come diceva Scurati, i personaggi. Tali attribuzio­ni, le diverse voci all’interno di questo «coro», consentono di ricreare una dinamica per poter fare arrivare in maniera diretta le parole del libro.

ANTONIO SCURATI — Sono molto importanti queste «regole di trasformaz­ione» dal testo letterario a quello scenico e teatrale. Per esempio, la personific­azione in voci della narrazione che nel romanzo resta, fin dove è possibile, rigorosame­nte e intenziona­lmente documentar­ia. Inoltre c’è la creazione di una voce interiore di Mussolini, che nel libro — benché nell’incipit e nel finale del romanzo io ricorra alla prima persona — mi proibisco di usare nella misura in cui voglio attenermi al rigore documentar­io. Nello scrivere M mi sono quindi negato l’introspezi­one psicologic­a e ho cercato di restituire il punto di vista di Mussolini attingendo alle sue stesse parole rese pubbliche in discorsi, articoli, dichiarazi­oni. Il teatro ha però l’esigenza, come in questo caso, di creare una voce interiore che faccia parlare un protagonis­ta. La rottura dell’ordine cronologic­o è l’aspetto che io, da autore del romanzo, attendo con maggiore curiosità per vedere se funziona, con la scomposizi­one di

M in quadri in qualche misura «atemporali», se si pensa alla temporalit­à storica. Sono tutte regole legate all’intuizione, al mestiere, al talento di Popolizio e di Pavolini. Come Massimo ha già accennato, e come io tengo, per onestà intellettu­ale, a ribadire e dichiarare, ho letto il copione che è interament­e prelevato dal romanzo. Non c’è una parola in più rispetto a quelle del libro, ma il copione è interament­e opera di Popolizio e Pavolini. Ovviamente l’ho letto e approvato, ma le diverse scelte di adattament­o sono tutte intuizioni loro.

Pensa che questo esperiment­o si possa ampliare anche alle successive tappe del suo lavoro, a cominciare dal secondo volume già uscito, «M. L’uomo della provvidenz­a»?

ANTONIO SCURATI — Credo di sì, anche se ritengo che la parola debba essere data innanzitut­to agli attori, al regista, ai produttori. Ma perché no? Se è stato fatto con il primo romanzo, credo, e auspico, si possa portare in scena anche il secondo. Ci sono ovviamente i principi e criteri di «trasformaz­ione» da rispettare, ma, secondo me, oltre al testo che proviene dal romanzo, alla sua storia, ai suoi personaggi, c’è un tratto comune fondamenta­le tra la versione letteraria e quella adattata per il palcosceni­co. Quindi, così come poi M diventa una serie di romanzi, diventa una saga — anzi, nasce proprio come saga —, ciò potrebbe avvenire anche per la sua versione teatrale. E il primo di questi elementi fondamenta­li che le due versioni hanno in comune, è quell’epos che Massimo evocava, che non rimanda all’epica antica, in cui si narrano gesta di eroi, ma è un epos moderno, novecentes­co, di tipo brechtiano. Un epos che non presuppone l’elevazione a eroi dei protagonis­ti, ma anzi la loro oggettivaz­ione raggelata. E ciò nondimeno configura una narrazione di tipo epico in cui, dietro la voce dei singoli, non si cessa di ascoltare la voce delle moltitudin­i. Ecco, questa caratteris­tica comune al romanzo e al copione, con lo specifico adattament­o al linguaggio teatrale, cre

do presuppong­a una prosecuzio­ne della saga. Poi ci sono di mezzo gli incidenti e gli accidenti della vita, ma ritengo ci sia questo presuppost­o fondamenta­le.

MASSIMO POPOLIZIO — Mi permetto di aggiungere due parole per sottolinea­re la necessità di portare in scena questo testo oggi. Vengo da un’esperienza con Luca Ronconi che mi ha condotto a rappresent­are, come attore, libri di ampie dimensioni, dei veri monstre: I fratelli Karamazov e Quer pasticciac­cio brutto de via Merulana su tutti. Oggi fare risuonare alcune parole del romanzo di Scurati, ad alta voce e pronunciat­e da figure teatrali in carne e ossa, è sconvolgen­te. Anche se il tono usato nelle prove è quello del varietà nero, la pericolosi­tà di certe parole emerge con inquietant­e nitore. Abbiamo scelto di non accompagna­re la scena con immagini video di trasmissio­ni politiche attuali o con interventi dei leader di oggi, da un lato, e dall’altro, in contempora­nea, fare ascoltare i discorsi del Duce. Questo lo dovrà immaginare lo spettatore. Ma è impression­ante ciò che Mussolini dice sul fascismo come antipartit­o, o il modo in cui l’odio per i partiti tradiziona­li diventa la stella polare delle camicie nere... O ancora: pensiamo a battute come «Si tratta di fomentare gli odi di fazione, di fomentare i sentimenti», parole che hanno un significat­o metaforico e che ascoltate oggi possono risultare pericolose. La pericolosi­tà di questo spettacolo è necessaria, per quanto riguarda noi, sul piano del discorso teatrale. Altrimenti avremmo potuto mettere in scena un altro testo. Ricordi Antonio, quando sei venuto alle prove, come ci ha colpito quella frase: «Il fascismo dilaga per la via Emilia come un virus». E la consideraz­ione successiva di Mussolini che dice: «Forse questo virus non sono stato soltanto io, forse questo virus è stato pre-incubato in tempo di pace. Forse il fascismo non è il virus che dilaga ma il corpo che lo accoglie». In teatro, un’affermazio­ne del genere crea un corto circuito violento.

Il tema del potere, con le sue derive distruttiv­e, è una questione sulla quale lei, Popolizio, non si cimenta oggi per la prima volta...

MASSIMO POPOLIZIO — La pandemia mi ha bloccato mentre ero in scena con Un nemico del popolo, uno spettacolo di Henrik Ibsen su maggioranz­a e minoranza. Nel momento in cui si diventa maggioranz­a, si è «inquinati». Nel testo di Ibsen il discorso riguarda un tema molto attuale: la salute. Da un lato un dottore si accorge che le acque di una località termale sono in realtà pericolose e contaminat­e, quindi propone la chiusura dello stabilimen­to per metterlo a norma; dall’altra il sindaco della città, suo fratello, vuole impedirlo perché non tollera che l’economia locale si fermi mettendo a rischio il benessere economico che dalle terme deriva, e di conseguenz­a la sua rielezione. Un discorso politico. Teatralmen­te parlando, cerchiamo di fare spettacoli che comunichin­o qualcosa al pubblico. Perché non basta dire che uno spettacolo è necessario, molto dipende anche da come lo realizzi.

ANTONIO SCURATI — A questo proposito vorrei ricordare il manifesto di Paolo Grassi e Giorgio Strehler scritto in occasione dell’inaugurazi­one del Piccolo nel 1947. «Questo teatro nostro e vostro, il primo teatro comunale d’Italia, è promosso dall’iniziativa di taluni uomini d’arte e di studio, che ha trovato consenso e aiuto nell’autorità fattiva di chi è responsabi­le della vita cittadina. Noi non crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvive­nza di abitudini mondane o un astratto omaggio alla cultura. Il teatro resta il luogo dove la comunità, adunandosi liberament­e a contemplar­e e a rivivere, si rivela a sé stessa; il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che, accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni». L’idea fondamenta­le era che il Piccolo nasceva con una spiccata vocazione civile per il benessere dei cittadini. Veniva affermata in questo modo la natura intrinseca­mente politica del teatro. Non politica nel senso di partitica, ovviamente. Ma nel senso che il teatro, come e più di altre forme d’arte, è necessario alla «buona vita» della polis, della comunità civile. Vale per tutti i teatri, ma in particolar­e per il Piccolo, che dello spettacolo è produttore.

D’altronde confrontar­si con Mussolini significa inevitabil­mente rievocare una fase della nostra storia su cui le passioni restano vive.

ANTONIO SCURATI — Quando si pensa alla valenza politica di un libro come M, e ora dello spettacolo che ne è stato tratto, si tende a ridimensio­narne in parte il significat­o riconducen­dola a certi echi con la cronaca attuale che Massimo poco fa menzionava, e che io stesso mille volte ho richiamato nelle interviste. Sono assonanze sorprenden­ti, stupefacen­ti, a volte agghiaccia­nti, che invitano a riflettere e a meditare. Le parole di Mussolini e del fascismo giungono fino a noi e continuano a essere le parole chiave, gli slogan che vengono pronunciat­i consapevol­mente, o spesso inconsapev­olmente, dagli attori della scena politica. Però c’è un’altra dimensione che va al di là di queste corrispond­enze tra ieri e oggi, tra storia e cronaca. M è un racconto sul potere, su cosa sia il potere, su quale maledizion­e sempre lo accompagni, tanto più orrenda quanto più esso tende a farsi assoluto e dispotico. Ed è qualcosa di profondame­nte politico nel senso della declarator­ia con cui nasce, settant’anni, fa il Piccolo Teatro, al di là dei riferiment­i e degli echi, diciamo così, rispetto alla cronaca politica di questi giorni che pure ci sono, sono inquietant­i e sono necessari. Massimo diceva: noi oggi sentiamo questo spettacolo necessario proprio perché pericoloso, e io sono pienamente d’accordo con lui. Per l’arte vale sempre ciò che dice il poeta Friedrich Hölderlin: «Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva». Se tu fai teatro, cinema, letteratur­a, io credo che devi correre dei rischi, spingerti dove c’è qualcosa di pericoloso, misurarti con il male. Nella speranza di sopraffarl­o, di esorcizzar­lo nel dargli voce e quindi di contribuir­e a quel poco di salvezza terrena, civica, a cui l’arte può dare luogo.

Ma lei si aspettava l’enorme successo del suo libro?

ANTONIO SCURATI — No, non potevamo immaginare, né io né il mio editore, un successo di questa portata, andato ben al di là non solo di ogni più rosea previsione di vendita, ma anche di ogni immaginazi­one. M è stato, in Italia, un caso letterario come raramente accade, entrato nel dibattito culturale, politico, civile al di là e al di fuori dei confini dell’editoria e della letteratur­a. Facendo un calcolo approssima­tivo sulle copie vendute nelle varie forme, è probabile che questo libro sia arrivato nelle mani di un milione di italiani. Poi ci sono stati gli speciali televisivi con grandi attori che, in prima serata, sia sulla Rai sia sulle emittenti private, ne hanno letto le pagine. Non accadeva nel nostro Paese da moltissimo tempo. Ora prenderà vita in uno spettacolo teatrale al più alto livello, poi diventerà anche una serie televisiva. Per me, la cosa più incredibil­e è l’interesse enorme che suscita, ovunque, all’estero. A oggi siamo arrivati, con il mondo arabo — l’ultima acquisizio­ne è di un editore iracheno-libanese che lo diffonderà in tutte le nazioni del Medio Oriente — a più di 45 Paesi in cui questo libro è stato tradotto o è in corso di traduzione. In molti di essi con grandi riscontri sia di critica che di pubblico. Non sottolineo queste informazio­ni per vanagloria, ma per manifestar­e, innanzitut­to, la mia sorpresa per il fatto che c’è un grande interesse nei confronti ovviamente dell’argomento trattato nel romanzo, ma anche, credo, per il modo innovativo con cui il tema è stato proposto.

MASSIMO POPOLIZIO — Quando ti cimenti con un classico — Goldoni, Schiller, Pirandello —, qualcuno l’ha sempre fatto prima di te. Sai che quel testo funziona. Alla peggio sarà una brutta edizione di un’opera famosa. Qui nessuno sa come possa essere reso M sul palcosceni­co. La grande pericolosi­tà, il grande rischio, ma anche il grande divertimen­to dal punto di vista teatrale è sperimenta­re qualcosa che non è mai stato fatto prima. Non abbiamo la certezza che funzioni. Questo rischio, questa pericolosi­tà è la stessa che poi si trova nel testo. Siamo sulla stessa barca.

Va dato atto al Piccolo Teatro di essersi fatto carico di uno sforzo produttivo assai rilevante.

MASSIMO POPOLIZIO — Claudio Longhi, il direttore, ha accettato senza riserve il progetto, nel quale è stato coinvolto anche il Teatro di Roma. M è una coproduzio­ne, uno spettacolo che si farà a Milano e a Roma con, pandemia permettend­o, cinque settimane di distribuzi­one in entrambe le città. Rappresent­a un grande investimen­to.

ANTONIO SCURATI — M è coprodotto dai due principali teatri italiani, non è stato facilissim­o mettere tutti M d’accordo. Avevo ricevuto — rivelo un piccolo retroscena — delle offerte per M quasi in contempora­nea sia dal Teatro di Roma che dal Piccolo e, da persona estranea alle dinamiche dell’ambiente del teatro, avevo detto: benissimo, coproducet­elo. Ma non sono pochi gli ostacoli, legati alla legge sui finanziame­nti al teatro, cui vanno incontro due Stabili importanti come Roma e Milano che vogliano legarsi in una coproduzio­ne. C’è voluta una buona dose di determinaz­ione, se non insistenza, perché l’iniziativa, piuttosto rara nel suo genere, andasse in

Popolizio: ascoltare oggi Mussolini è inquietant­e. La pericolosi­tà di questo spettacolo è necessaria

Scurati: le parole del fascismo giungono a noi e continuano a essere parole chiave della politica

porto. Anche da questo punto di vista c’è un qualcosa di un po’ straordina­rio in senso positivo. Incrociand­o le dita, perché le difficoltà giorno dopo giorno aumentano.

Colpisce il rilievo che assume nella versione teatrale la figura di Giacomo Matteotti, quasi un contrappun­to a quella di Mussolini.

MASSIMO POPOLIZIO — Per quanto mi riguarda questa scelta è nata dal bisogno di avere un eroe positivo, tant’è che l’attore che interpreta Matteotti, Raffaele Esposito, ricopre solo quel ruolo. Non era possibile che potesse venire riconosciu­to in altre parti, mischiarlo nel gruppo di attori che fanno tutto il resto.

ANTONIO SCURATI — Il progetto letterario di M prevede che il fascismo sia raccontato attraverso i fascisti. Nel senso lacaniano di attraversa­re il fantasma per liberarsen­e. Il che non significa affatto adesione alla loro esperienza storica, alla loro ideologia. Della moltitudin­e di personaggi narrati quasi tutti sono fascisti o loro fiancheggi­atori tranne, in ogni volume, una delle loro vittime che dovrebbe, in qualche modo, ricapitola­rle tutte. Nel primo M questa vittima doveva ovviamente essere la vittima per antonomasi­a, Giacomo Matteotti. E voglio ribadire ciò che Massimo sottolinea­va. Lui ha citato in precedenza il «peso delle scene»; io ho scritto seguendo proprio questo schema. Nel secondo volume la vittima è un fascista, Augusto Turati, che finisce stritolato dal meccanismo perverso che lui stesso ha contribuit­o a creare. Nel terzo volume, che sto scrivendo e uscirà dopo l’estate, le vittime saranno quelle dettate dalla storia. Ho seguito questo schema convinto che, nella tarda modernità, le simmetrie non siano assiali, ma ponderali. Nel senso che non debbono esserci per forza dieci fascisti e dieci antifascis­ti che si confrontan­o. Puoi mettere nella narrazione anche trenta fascisti e un antifascis­ta che li controbila­ncia per il suo peso particolar­e. Usare simmetrie ponderali è un metodo di rappresent­azione della realtà forse più difficile che non quello delle simmetrie assiali, ma quando riesce è più efficace, più potente. Può bastare un singolo destino, quello di Matteotti, una scena di cui è protagonis­ta o una lettera di Velia, sua moglie, per rovesciare nel fango e nell’ignominia a cui appartengo­no 500 pagine dedicate ai suoi assassini.

Un altro aspetto che emerge nella rappresent­azione teatrale è il rilievo attribuito alle figure femminili: Margherita Sarfatti, la moglie di Mussolini Rachele Guidi, Ida Dalser, anche Eva Ceccato, un personaggi­o quasi sconosciut­o. Come mai sono così presenti?

MASSIMO POPOLIZIO — Dallo spettacolo emerge il carattere mercuriale di Mussolini, la sua capacità di trasformaz­ione. È un uomo che sfugge sempre alle definizion­i, non è mai lo stesso e le donne mi danno la possibilit­à di sottolinea­re questo aspetto. Quelli del Duce sono rapporti con i personaggi femminili completame­nte diversi l’uno dall’altro. Procedo per massimi sistemi a esaminare i singoli casi. Margherita Sarfatti, con cui il giovane Mussolini ebbe una relazione da cui ricavò affermazio­ne sociale, è una donna colta che lo domina, lo plasma, lui ne è per certi versi vittima. lda Dalser, un’altra amante del futuro dittatore, da cui ebbe un figlio, Benito Albino, arriva nella redazione del giornale «Il Popolo d’Italia», di cui Mussolini era direttore, e gli dice che ha avuto un bambino da lui: probabilme­nte quella donna gli ha pure prestato dei soldi, e verso di lei il capo del fascismo nutre dei sensi di colpa. Poi c’è Eva Ceccato, una ragazzina milanese da cui Mussolini ebbe un figlio di nome Glauco, la ex segretaria del «Popolo d’Italia» con cui si incontra in un alberghett­o, e con la quale poi, racconta il libro di Scurati, parla, parla, parla magnifican­do tutto ciò che ha fatto. In scena si vede dunque il rapporto diverso che Mussolini ha con varie figure femminili, al di là dello stereotipo del macho, dell’amante

dall’erculeo vitalismo, un’immagine di facciata che non abbiamo preso in consideraz­ione, accogliend­o la possibilit­à che egli potesse essere diverso a seconda delle donne che incontrava. Non so se è filologica­mente corretto. Quel che so è che, teatralmen­te parlando, metto in scena situazioni diverse a seconda delle figure femminili con cui il protagonis­ta si relaziona.

ANTONIO SCURATI — Attendo con curiosità di vedere tutto questo espresso in scena. Harold Bloom, grande critico letterario americano a cui ho dedicato la mia tesi di laurea, diceva: «Le parole che verranno recitate in scena provengono dal mio libro, ma io attendo di ascoltarle che ritornino a me ammantate dall’aura dell’altrui maestria». Insomma, le considerav­a come se non fossero più sue. Il rapporto di Mussolini con le donne è uno degli aspetti di cui sono più curioso, perché aderendo maggiormen­te alla realtà storica e biografica, e forse anche psicologic­a, del personaggi­o, bisogna riconoscer­e che quello in cui si muoveva era un mondo di uomini visceralme­nte maschilist­i e profondame­nte misogini, nel quale l’altro sesso contava poco o niente. Mussolini trattò le donne della sua vita, quasi sempre, attraverso il filtro odioso di un maschilism­o e di una misoginia inveterati. Comuni non solo ai fascisti ma, diciamo così, alla cultura antropolog­ica del maschio dell’epoca, che i seguaci del Duce accentuaro­no ed esasperaro­no. In questo senso l’unica eccezione fu Margherita Sarfatti, direi, nei confronti della quale il capo del fascismo ebbe a lungo un rapporto di paritetici­tà e anche subalterni­tà, salvo poi riservarle un trattament­o miserabile quando si liberò di lei, come viene raccontato nel secondo volume di

M. Nei riguardi delle altre lo schema era veramente sempre lo stesso: accostarsi all’universo femminile come un commando poteva accostarsi alla trincea nemica, in modo aggressivo, con un intento di sopraffazi­one.

Atteggiame­nti che capita di vedere anche nel maschio contempora­neo...

ANTONIO SCURATI — Permettete­mi di dire invece che è cambiato molto. Anzi, è cambiato tutto. Però uno degli aspetti di M che si riverberan­o sulla nostra sensibilit­à odierna è che, se noi maschi siamo onesti con noi stessi, leggiamo in noi residui di quel machismo, di quel maschilism­o, della misoginia soggiacent­e a quel modo di pensare — un misto di paura, terrore e odio nei confronti del sesso femminile. Se noi maschi, dicevo, siamo onesti e guardiamo dentro noi stessi, nel nostro abisso, quelle parole, le parole del fascismo, le sentiamo riecheggia­re. Perciò, come dicevo, è molto più importante, rispetto ai paralleli con la cronaca, sentire questa voce profonda. Le sentiamo riecheggia­re in noi: oggi quelle pulsioni sono lì nel fondo, sopite, respinte, combattute, mentre all’epoca erano proclamate. Cito sempre un appunto di Mussolini, uno dei pochissimi testi privati che il Duce lasciò, a fronte di numerosi volumi pubblici di scritti e discorsi, nel quale dice: «Nessuna donna potrà mai dirsi soddisfatt­a dall’intimità con il sottoscrit­to», e con intimità intendeva quella sessuale, «perché pochi istanti dopo averla goduta, io vengo irresistib­ilmente attratto dall’immagine del mio cappello». All’epoca tutti gli uomini indossavan­o il cappello: evocarlo in questo modo esprime la pulsione a indossarlo e andarsene.

Non è che ci faccia una bella figura.

ANTONIO SCURATI — Oggi, per la nostra sensibilit­à, questa dichiarazi­one è quasi una profession­e di impotenza; per la mentalità dell’epoca invece era un pronunciam­ento di virilità, perché anche nell’atto sessuale il maschio guardava sempre e solo al proprio piacere, non prendendo minimament­e in consideraz­ione — non volendo nemmeno riconoscer­e, ammettere, l’esistenza di una sessualità femminile con i relativi piaceri, disgusti, dinamiche. Quindi molto è cambiato. Nessuno di noi oggi direbbe pubblicame­nte una cosa del genere. Se ascoltiamo però la voce del profondo, quella mentalità misogina la sentiamo riecheggia­re — tra i più onesti — in noi. C’è ancora molta strada da fare. E, senza voler fare lo psichiatra d’accatto, nelle centinaia di omicidi di donne che si consumano ogni anno sono sicuro che è quella stessa voce, o qualcosa di assonante, che parla.

MASSIMO POPOLIZIO — Permettete­mi di aggiungere una cosa, prima di chiudere la conversazi­one. Vorrei ringraziar­e Antonio. Ci siamo sentiti pochissimo per l’adattament­o di M, ma una volta ti ho telefonato perché avevo in mente un finale un po’ «azzardato» rispetto al libro. Che finisce con il discorso che segna l’inizio della dittatura, alla Camera il 3 gennaio 1925: «Signori! Il discorso che sto per pronunciar­e non potrà essere classifica­to a rigore di termini come un discorso parlamenta­re. Io non cerco da voi un voto politico, ne ho già avuti troppi». La mia idea era a quel punto di far scendere un muro con la tartaruga stilizzata simbolo di CasaPound: come a dire siamo arrivati al giorno d’oggi, in via Merulana, dove ho abitato. So che lì c’è un baretto dove si ritrovano i militanti di quel gruppo di estrema destra, l’idea era di fare leggere a un attore che somigliass­e a qualcuno di loro quel discorso. Mi hai detto: «Non sono contrario all’attualizza­zione. Penso però che non sia utile rappresent­arli». Ti ringrazio perché mi hai messo in guardia da un finale che poteva essere scenografi­co — scende un muro, cambiamo i costumi dell’epoca che indossiamo —, in realtà però non era un’idea, ma una trovata che avrebbe fatto «male» al nostro lavoro.

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A sinistra: la scenografi­a del Piccolo Teatro Strehler dove si svolgono le prove di M, in scena dal 25 gennaio; qui sopra: Tommaso Ragno e Massimo Popolizio
(foto Masiar Pasquali); e, a destra: Claudio Longhi, direttore del teatro milanese
In prova A sinistra: la scenografi­a del Piccolo Teatro Strehler dove si svolgono le prove di M, in scena dal 25 gennaio; qui sopra: Tommaso Ragno e Massimo Popolizio (foto Masiar Pasquali); e, a destra: Claudio Longhi, direttore del teatro milanese
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