Corriere della Sera - La Lettura
Il nuovo patriottismo del romanzo storico
ha appena aggiunto un titolo, il quarto, al ciclo «Il secolo dei giganti», con un romanzo che racconta il conclave che nel 1555 portò a Paolo IV («sembra di vedere la situazione italiana di oggi, alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica»);
è autore di una quadrilogia sui Medici («non possiamo lasciare per sempre Leonardo da Vinci a Dan Brown»). Insieme sostengono che è l’ora di spezzare l’egemonia anglosassone
Due autori approdati al romanzo storico da percorsi diversi, l’uno noto restauratore, l’altro noto romanziere, rivelano che la spinta a scrivere di vicende e personaggi storici è stata invece simile: il fatto che della complessa storia italiana, del Medioevo e del Rinascimento, si siano occupati soprattutto autori stranieri. Ma non solo: c’entrano la patria, la verità della storia (anche femminile), l’attualità. E c’entra la bellezza del romanzo storico: tanto che a fine conversazione, insieme, hanno suggerito dieci romanzi («bellissimi, e di più») che tutti dovrebbero leggere (nel grafico accanto). Antonio Forcellino è tra i maggiori studiosi europei di arte rinascimentale, autore di restauri come quello della tomba di Giulio II e del Mosé di Michelangelo: si è occupato del Rinascimento in vari saggi e nella serie Il secolo dei giganti ,di cui esce il quarto titolo Il papa venuto dall’inferno ( HarperCollins). Matteo Strukul è autore di thriller di ambientazione storica, e della quadrilogia bestseller iniziata con I Medici. Una dinastia al potere (Newton Compton), con cui nel 2017 ha vinto il Premio Bancarella, ed è in libreria con due romanzi storici, Dante enigma (Newton Compton) e, ambientato nel mondo antico, Il fuoco di Pandora (Solferino).
Mi occupo del Rinascimento da quarant’anni e ho la fortuna di entrare in quel tempo anche con il corpo, come restauratore. Mi sono accorto che quel tipo di approccio non bastava più. Ci sono sempre piccoli spazi che bisogna riempire (e che in qualche modo riempie anche la storia, perché gli eventi si portano dietro un’interpretazione): passare al romanzo storico m’è parso un modo per riempire quei vuoti e rendere la narrazione più agevole e realistica. Trovo che sia una forma più rigorosa di racconto: nel mio caso è facile da verificare, perché nei saggi e nei romanzi dico la stessa cosa.
Io sono arrivato al romanzo storico perché c’era un vuoto: trovavo bizzarro che esistessero molte monografie sui Medici e non ci fosse un romanzo scritto da un italiano. Quasi una scommessa. Arrivavo dal thriller, avevo già sperimentato la ricostruzione storica: poi ho avuto quest’intuizione, supportata anche da una tradizione formidabile, Umberto Eco, Sebastiano Vassalli, Valerio Massimo Manfredi, che mi esortava a narrare il Rinascimento. La mia volontà era portare un contributo al grande fiume della letteratura italiana di taglio storico avventuroso, raccontando proprio la nostra storia. Pensate che all’estero, uscita la tetralogia dei Medici, hanno detto: finalmente un autore italiano che racconta la storia italiana. La stampa mi ha definito un Dumas 2.0, e per me Alexandre Dumas è il riferimento: quel romanzo un po’ feuilleton, quindi popolare, che però non ha paura di misurarsi con la letteratura. Il grande romanzo francese, e penso a Balzac, sapeva anche divulgare, da un punto di vista storicoscientifico, e intrattenere, come deve fare comunque la letteratura. Quello è il modello. Rendere il Rinascimento dei Medici, il Medioevo di Dante, il Settecento di Casanova il più possibile fruibili da un pubblico ampio, senza alcun senso di inferiorità nei confronti dei colleghi stranieri: siamo titolati a raccontare la nostra storia!
Ma perché il romanzo storico è tanto frequentato all’estero e poco (finora) in Italia?
Perché non è facile. Bisogna studiare, tantissimo, non a caso Forcellino dice «sono quarant’anni che studio» — e questo è un primo problema, tant’è vero che i romanzieri storici italiani sono pochi. Secondo: manca nel Paese, non so perché, quel senso di minimo patriottismo e di amore per la propria storia. Siamo un Paese che ha un’attitudine all’oblio. Sembra che la storia si fermi alla Resistenza: altre epoche in cui l’Italia è stata al centro del mondo non sono state mai raccontate. Se penso al Seicento italiano, mi vengono in mente La chimera ei Promessi sposi, e basta.
Sto lavorando, negli ultimi due anni, a illustrare come la subalternità della cultura italiana, specie dal primo dopoguerra, abbia cancellato anche il rigore e la verità in un campo come quello della storia dell’arte. L’affermazione sembra esagerata, ma il mio prossimo libro riguarderà l’interpretazione sbagliata, manipolata, di alcuni documenti su Michelangelo da parte della cultura anglosassone, perché non li ha capiti. Mi è sembrata una cosa gravissima: quanto è facile la manipolazione della storia, e con conseguenze drammatiche! Quando parlo di subalternità, parlo del fatto che in Germania, Inghilterra, America, ma anche in Francia, si pubblica da un certo momento in poi dieci volte più di quello che si pubblica in Italia (in campo saggistico): loro hanno le risorse, loro hanno i quadri, loro comprano i disegni, le opere. La cultura italiana non ha gli strumenti per discutere.
Cioè, una cattiva comprensione della storia del Rinascimento ha conseguenze sul mondo di oggi? Siamo figli del Cinquecento?
C’è qualcosa in quell’epoca che trovo molto interessante; e il Rinascimento è ciò che conosco meglio. Chiaramente sono fortissime le corrispondenze con la modernità; anche la nostra, come quella, è un’epoca di cambiamenti radicali.
Aggiungerei: la storia, qualunque essa sia, del Rinascimento o di altre epoche, dà sempre il senso della prospettiva. Un esempio: stiamo vivendo questa maledetta pandemia. Ma nel momento in cui io racconto nelle Sette dinastie e nella Corona del potere la battaglia di Fornovo, con i francesi che portano con sé il mal gallico o mal francese, la sifilide, sto parlando di un’epidemia (potrei fare lo stesso per la peste, la Spagnola...). Nel momento in cui il romanzo storico ha a che fare con simili fatti, ti dà una prospettiva nuova, per cui tu dici: «Ok, oggi stiamo vivendo una pandemia nuova, sì, ma non dimentichiamo ciò che la storia ci ha insegnato». Poi c’è la faccenda della subalternità che la cultura non solo italiana ha nei confronti degli anglosassoni: questo dell’egemonia culturale è tema attuale,