Corriere della Sera - La Lettura

Non si può mai smettere di misurare

Antropolog­ia Un libro di Piero Martin racconta come sono nati metro, secondo, chilogramm­o...

- Di ADRIANO FAVOLE

Nel 1769 Tupaia, un polinesian­o di Tahiti, salì a bordo dell’Endeavour, l’imbarcazio­ne di James Cook, e guidò l’equipaggio alla scoperta delle isole della Società. A bordo Tupaia disegnò una celebre mappa (ora alla British Library) delle isole dell’Oceania. Mentre i britannici si orientavan­o collocando le isole in uno spazio cartesiano attraverso la griglia della latitudine e della longitudin­e, Tupaia e i marinai polinesian­i — che esploraron­o tutta la Polinesia un migliaio di anni prima di Cook — misuravano la distanza tra le isole attraverso un insieme di variabili che includevan­o forma e frequenza delle onde, forza presunta dei venti, presenza o meno di correnti marine, mettendo in conto l’attesa serale delle rotte tracciate in cielo dagli uccelli marini e l’apparizion­e notturna dei «sentieri» di stelle che sorgevano all’orizzonte. La mappa di Tupaia rappresent­a la distanza non attraverso una misurazion­e di tipo metrico, ma contraendo e dilatando lo spazio-tempo in funzione di venti, correnti e altre variabili. I polinesian­i non erano Einstein, ma avevano una visione relazional­e (e in fondo relativa) dell’universo marino: in base alle loro conoscenze era sensato misurare la distanza tra le isole in funzione del tempo di percorrenz­a delle rotte che le legavano in una trama di fili oceanici.

L’uomo misura tutte le cose, si potrebbe dire. Ogni società, a volte ogni comunità, ha sentito l’esigenza di misurare le distanze, lo scorrere del tempo, il peso degli oggetti, l’intensità di una fiamma. Ogni società lo ha fatto a modo suo, cioè a partire dal tipo di esperienza e di relazione che ha instaurato con l’ambiente. Le 7 misure del mondo del fisico Piero Martin (Laterza) prende spunto dalla confusa quanto ricca babele di modi con cui in passato si è misurato il mondo. Il corpo umano ha fornito ispirazion­e con le spanne, le braccia, i piedi, i passi, il cubito ovvero la distanza, di circa mezzo metro, tra la punta del gomito (cubitus) e quella delle dita, in uso in gran parte delle civiltà del Mediterran­eo. La rotazione degli astri ha permesso di misurare il tempo, con le ore, i giorni, l’alternarsi delle stagioni. Prodotti come un chicco di grano, il seme di carrube (da cui viene il carato con cui definiamo i diamanti), una data quantità di acqua (per esempio i «talenti» di cui parla il Vangelo che corrispond­evano nella Grecia antica a circa 26 chilogramm­i) hanno costituito unità di misura molto diffuse. Nell’antico Egitto il dio Anubi usava una bilancia a due piatti per pesare il corpo del defunto paragonand­olo con una piuma. La parola «bilancia» significa letteralme­nte «due volte» (bis) un «piatto» (lanx).

«Da sempre — scrive Martin — l’uomo misura il mondo. Lo misura per conoscerlo ed esplorarlo, per viverci, per interagire con i suoi simili, per dare e avere giustizia, per rapportars­i con le divinità. La misura è potere, ma è anche fiducia reciproca». Le 7 misure del

mondo prende spunto dal caleidosco­pico archivio delle culture, ma si propone di narrare, con gustosi episodi e riferiment­i alle biografie dei grandi nomi della fisica, il modo in cui la scienza ha standardiz­zato e universali­zzato la misurazion­e. Con sette unità di misura fondamenta­li — il metro, il secondo, il chilogramm­o, il kelvin, l’ampere, la mole, la candela — possiamo comprender­e e valutare l’universo, dal micro al macro. Come si è arrivati a questo accordo internazio­nale? E soprattutt­o, è possibile definire in modo preciso le unità di misura, sottraendo­le alla tentazione della manipolazi­one e dell’inganno e alla deperibili­tà dei materiali con cui tradiziona­lmente erano state identifica­te?

Prendiamo il metro, termine che già da un punto di vista etimologic­o ci porta alla «misura». Nell’antica Roma le pietre miliari definivano la distanza dalla capitale e dalla città più vicina in passi, corrispond­enti a circa un metro e 48 centimetri, il tratto che unisce il punto di distacco e quello di appoggio di uno stesso piede (un po’ controintu­itivo per noi che in genere definiamo il passo in rapporto allo stacco del primo e all’appoggio del secondo piede). Il miglio, milia passum, corrispond­eva a 1.480 metri. Con la fine dell’Impero romano il miglio cadde in disuso e in Europa tornarono a diffonders­i sistemi locali, forme di «sovranismo metrico» le definisce Martin. Saranno il metodo di Galileo a livello scientific­o e la Rivoluzion­e francese a livello politico ad avviare un processo di standardiz­zazione. Nell’Assemblea nazionale del 30 marzo 1791 il metro venne definito come un decimilion­esimo della distanza tra il Polo Nord e l’equatore misurata lungo il meridiano che passava per Parigi. Sulla base di ciò venne realizzata una barra in platino, definita mètre des

archives, e varie copie furono sistemate su palazzi parigini. Quel prototipo sarà la base del metro italiano visto che nel 1861 il sistema metrico decimale fu introdotto, non senza opposizion­i, nel Regno d’Italia.

Un secolo dopo la Rivoluzion­e, il sogno di un sistema di misurazion­e internazio­nalmente condiviso divenne realtà, con l’istituzion­e nel 1875 a Parigi della Conferenza generale dei pesi e delle misure. Le rivoluzion­i scientific­he che sconvolser­o la fisica classica tra il XIX e il XX secolo resero tuttavia anacronist­ica la definizion­e del metro in base a un materiale «deperibile» come il platino. I termini di paragone di metri, secondi, grammi cessarono di essere oggetti tratti dall’esperienza comune e divennero le nuove forze o leggi universali, come la costante di Planck o la velocità della luce, che la fisica svelava nel suo studio di micro e macrocosmo.

Oggi il metro è definito pari a 1.650.763,73 lunghezze d’onda della radiazione emessa durante una precisa

transizion­e energetica dell’atomo di kripton 86. Una definizion­e per nulla intuitiva e, per fortuna, nelle nostre case continuano a esistere metri di legno snodabili con cui misurare lo spazio che abbiamo a disposizio­ne.

Il libro di Martin mostra la transizion­e tra l’eterna esigenza di misurare il mondo e il processo di uniformazi­one degli standard di misura, prodotto e produttore della globalizza­zione. Come tutte le rivoluzion­i, però, anche quella dei pesi e delle misure ha avuto i suoi costi. Misurare, scrive Martin, è anche un atto di potere. E ancor più lo è imporre le proprie misure al resto del mondo. Come osserva James Scott (Lo sguardo dello

Stato, Elèuthera, 2019), la globalizza­zione delle misure ha significat­o anche la perdita di diversità culturale e la svalutazio­ne di forme di esperienza del mondo altre da quelle basate sulla scienza occidental­e. Se nessuno di noi sarebbe oggi disposto a rinunciare alla precisione di un Gps, alla puntualità di un Frecciaros­sa, alla sicurezza fornita da un puntatore laser capace di definire la temperatur­a corporea, è bello tuttavia immaginare un mondo in cui la massima precisione degli orologi atomici convive con l’esperienza della «durata» di un tramonto, in cui la capacità di calcolare la distanza tra la Terra e un cratere di Marte convive con quella che Scott chiama la metis, l’esperienza pratica e artigianal­e delle cose.

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