Corriere della Sera - La Lettura
Ma ogni misura lascia sempre fuori un residuo
Le cosmogonie vediche indiane, l’arca di Noè, il «Convivio» di Dante ci rimandano al punto di frattura tra ciò che abbiamo in mente di realizzare, ma che non conosciamo, e ciò che possiamo effettivamente conoscere e costruire con i numeri
Residuo è una parola che fa pensare a un avanzo di cibo, o a un qualsiasi resto o scarto da eliminare senza troppe esitazioni. Ma in realtà la sfera di significati che gli si possono attribuire è molto più vasta: l’idea di residuo si applica pure, fin dall’antichità, alla cosmologia, alla storia, alla nostra stessa vita e perfino alla matematica. Per capirlo a fondo conviene rifarsi all’agnikaiana ,il rito vedico dell’India del primo millennio a.C. — che si conserva inalterato anche oggi — incentrato sulla costruzione di altari di complessa forma geometrica. Nel pensiero vedico il residuo, il resto o il sovrappiù, non è affatto qualcosa che si può trascurare, qualcosa che va perso o che deve essere eliminato, e si riferisce innanzitutto a quella parte del sacrificio, sottratta a un consumo immediato, che rimane quando le oblazioni sono state fatte.
Il significato di residuo non si limitava alla sola prassi sacrificale, per la semplice ragione che intorno al sacrificio gravitavano il significato e l’esistenza del nostro stesso universo. Le cosmogonie vediche e post vediche, avverte Charles Malamoud, si basavano sull’idea di residuo perché non consistevano in atti assoluti di creazione, ma piuttosto in dispiegamenti dovuti al riassorbimento che segnava la fine di ogni kalpa, cioè di ogni ciclo cosmico. La dissoluzione universale lasciava ogni volta un sopravvissuto residuale, il serpente Sesa, un resto inattivo solo in apparenza, perché era su di esso che il mondo poteva essere ricostruito. L’enorme serpente sosteneva la terra con le sue spire infinite, ed era il supporto di Visnu dormiente, garanzia di un ripristino del nostro tempo e della nostra esistenza sulla Terra.
L’idea di residuo non è estranea neppure alla tradizione ebraica e a quella mesopotamica. Basti pensare a Noè che sopravvive al diluvio universale. Il suo corrispondente nel mito antico-babilonese è Utanapištim, la cui storia si trova iscritta nell’epopea di Gilgameš. E non è certo trascurabile che sia per l’arca di Noè sia per la nave di Utanapištim fossero prescritte precise misure e forme geometriche.
Un’idea di residuo è implicita anche nell’astronomia antica. Nel calcolo dei cicli, a cominciare da quelli — mai perfettamente regolari — del Sole e della Luna su cui si basavano gli antichi calendari, l’astronomia babilonese doveva prevedere difformità e approssimazioni, in cui i valori esatti dei tempi del primo e ultimo apparire degli astri sopra l’orizzonte erano sostituiti da numeri approssimati. Le lunghe liste di numeri in cui consisteva l’astronomia babilonese servivano a simulare il kairós, l’attimo critico e incognito di un evento celeste, ed erano l’esempio più nitido di una fondamentale operazione di sostituzione, dello scambio di una conoscenza esatta, di per sé impossibile, con una conoscenza approssimata.
Gli errori che ne derivavano potevano essere messi in conto di una discrepanza, come quella, ad esempio, che separa il calcolo di un calendario dalle esatte valutazioni dei rapporti tra i percorsi ciclici degli astri. Questa discrepanza era inevitabile, ma in essa stava pure, nel contempo, l’innesco di procedimenti che dovevano imbrigliare la conoscenza dell’universo in una fitta, gigantesca griglia di valori numerici calcolabili mediante appositi algoritmi. Questa discrepanza, da mettere in conto di residuo, era il motore del progressivo raffinamento di un’operazione di sostituzione degli eventi celesti con un sistema di numeri.
Riferendosi in primo luogo all’India vedica, Roberto Calasso osserva giustamente che la sostituzione consiste in un fondamentale modo del pensiero, un’operazione dominante che la nostra mente applica in ogni tempo e in ogni luogo, e sulla quale si basa pure il nostro concetto più generale di computazione, in cui i numeri che calcoliamo stanno sempre per qualcosa d’altro, qualcosa che noi tendiamo a volgere in valutazione quantitativa. Si può presumere che, in un processo computazionale, il residuo fosse inteso fin da principio come qualcosa che, diminuendo a ogni passo, dovesse mirare a una sorta di saldatura, una coincidenza finale, nel continuo, tra un valore esatto incognito e la sua approssimazione. Una coincidenza impossibile, come sarebbe stato precisamente dimostrato più tardi in ambito greco, e tuttavia profondamente inerente al nostro modo di pensare.
Dobbiamo quindi riconoscere un punto di frattura tra ciò che abbiamo in mente di realizzare, ma che non conosciamo, e ciò che possiamo effettivamente conoscere e costruire con i numeri. Qualsiasi ordinamento è insufficiente e le misure — secondo i testi che contengono le tecniche di edificazione dell’altare — non sono mai esatte. Usiamo le parole di Calasso: «Il residuo è il ricordo, la perdurante presenza, l’insopprimibilità del continuo. Qualsiasi ordine si stabilisca, in qualsiasi ambito e in qualsiasi genere, quell’ordine lascerà fuori di sé qualcosa — e dovrà lasciarlo se vorrà essere un ordine. Quel qualcosa che è fuori dell’ordine è il residuo, ma anche il sovrappiù». Ora nel sovrappiù c’è l’idea di un qualcosa che si spinge sempre oltre, che resterà sempre attivo, come presupposto di successivi sviluppi delle vicende umane e celesti, oppure del calcolo che le simboleggia.
In Grecia sembra esserci un’idea analoga che riguarda il nostro destino individuale, un destino soggetto a un’inevitabile discrepanza, uno iato tra l’inizio e il termine della vita. Il parallelo pitagorico lo troviamo in Alcmeone: «Gli uomini», dice Alcmeone, «per questo muoiono, perché non possono ricongiungere il principio con la fine». Dunque la vita di ogni essere sulla Terra è un arco spezzato, mai un cerchio, perché sul cerchio inizio e fine si congiungono, si saldano in un continuo. Al contrario, affermava Clemente Alessandrino, il Logos «è come un circolo di tutte le potenze che in uno si risolvono e si unificano».
Dante si sarebbe espresso in modo simile nel Convivio (IV, 23 sgg.): «La nostra vita non per cerchio compiuto ma per parte di quello si scuopra; e così conviene che ’l suo movimento sia (...) come un arco quasi, e tutte le terrene vite (...), montando e volgendo, convengono essere quasi ad imagine d’arco assimiglianti».
Le tecniche per la costruzione degli altari messe a punto nei trattati vedici erano tutt’altro che insignificanti da un punto di vista matematico. La forma degli altari poteva variare, ed era spesso di notevole complessità: la figura più frequente era quella di un uccello, adeguata a un trasporto dell’anima nelle regioni celesti. Ma la figura dell’uccello era composta di mattoni a forma di triangoli, quadrati e trapezi assemblati, in diversi
livelli, secondo un ordine prescritto, e doveva poter essere ingrandita in scala, in linea di principio, più di cento volte. Questo ingrandimento implicava l’uso di formule incrementali che, se pur limitate a una geometria elementare, si rivelarono essenziali per lo sviluppo della matematica in Occidente.
Soprattutto l’analisi e la moderna matematica computazionale, dal XVI secolo a oggi, si basano sullo studio di come una data grandezza, che dipende da un’altra, varia per piccoli incrementi di quest’ultima. Gli altari dovevano poter assumere anche altre forme, per esempio quella di una ruota di carro. Per realizzarla in modo apprezzabile, le operazioni di composizione e di scomposizione delle aree si facevano prima sui quadrati e, per guadagnare la forma circolare della ruota, si procedeva poi alla circolazione del quadrato, l’operazione inversa della quadratura del cerchio. La natura del rapporto tra retto e curvo, ivi incluso quello tra cerchio e quadrato, è stata uno dei problemi fondamentali della matematica di tutti i tempi.
Nei testi deputati alla costruzione degli altari, i procedimenti di calcolo numerico che consentivano di disegnare il cerchio la cui area fosse la più vicina possibile a quella di un quadrato assegnato, erano a loro volta approssimati. Essi comportavano il calcolo della radice quadrata di 2, ed erano quindi basati sul calcolo iterativo di un residuo che quantificava, a ogni passo, la distanza del valore esatto di quella radice dal suo valore approssimato. Le approssimazioni calcolate erano identiche a quelle della procedura con cui Newton avrebbe calcolato, con una tecnica del tutto analoga, le radici in un’equazione. Peraltro il metodo di Newton è rimasto fino a oggi un presupposto fondamentale della scienza del calcolo, ed è ancora una base imprescindibile dello studio di sistemi di equazioni e di problemi di minimo di funzioni.
Non a caso, per risolvere sistemi lineari di equazioni, il calcolo su grande scala si serve regolarmente di quello che gli specialisti chiamano oggi, di solito, metodo del residuo. Il residuo è, assieme alla struttura degli operatori che intervengono nell’iterazione, il vero elemento regolatore di tutto il procedimento. Esso racchiude l’informazione utile per arrestare il calcolo al grado di precisione richiesta, secondo uno schema che non differisce molto dal principio di feedback, ovvero di retroazione, in cui Norbert Wiener, padre della cibernetica nel secolo scorso, aveva visto un possibile motivo di affinità tra gli organismi viventi e i meccanismi artificiali. In biologia
feedback sta per risposta, entro un dato sistema (da una cellula a un’intera popolazione), che influenza l’attività continua o la produttività di quel sistema. In breve è «il controllo di una reazione biologica in base ai prodotti finali di quella reazione». E non è superfluo notare che feed («nutrire») allude a una sorta di alimento biologico, di rifornimento nutrizionale. Un rifornimento che a ogni passo della procedura innesca il passo successivo, necessario per avvicinarsi, fino alla precisione richiesta, alla soluzione di un problema.
Si può dunque capire come il residuo sia ben lungi dall’essere un nemico dell’ordine, oppure un trascurabile effetto del sistema di regole che lo realizzano. Esso è parte intrinseca dell’ordine stesso e contribuisce anzi a perpetuarlo, ad attuare le condizioni che lo rendono possibile. Di qui l’idea più generale che nel residuo possa celarsi una ragione dell’ininterrotta sussistenza del mondo stesso e della sua riposta tensione verso uno scopo, del suo tendere alla riunificazione delle parti di una totalità perduta, irrealizzabile e impossibile da comprendere, se non per via della gradualità di un’approssimazione.
In una procedura iterativa che converge alla radice di un’equazione il residuo si riduce progressivamente senza annullarsi mai e tuttavia, almeno in linea di
principio, può essere reso piccolo quanto si vuole — solo in linea di principio, si intende, perché gli errori dell’aritmetica di macchina creano una nuvola di indeterminazione attorno alla radice. L’impressione inevitabile è che la riduzione progressiva del residuo miri ad esaurire gradualmente quel tratto che ci separa sempre dall’oggetto di cui vorremmo guadagnare una conoscenza perfetta e conclusiva. Ma la gradualità dell’avvicinamento non implica pure, a sua volta, un’illusione? Si è a volte notato che il divario che separa la minima particella di materia o il più piccolo intervallo di spazio o di tempo dal nulla non si può colmare per gradi, ma solo per mezzo di una discontinuità, di un salto infinito ben difficile da compiere.
Nelle culture antiche e moderne, fin dall’India vedica e dal calcolo babilonese, dall’Egitto, dalla Cina, dalla Grecia, dalla scienza araba, la matematica ha cercato di ricondurre quel salto infinito a complessi procedimenti numerici e analitici. La scienza del calcolo dell’ultimo secolo ha poi riscoperto, per altri versi, quanto possa essere inestricabile la difficoltà di trattare quei procedimenti per dimensioni molto grandi dei problemi trattati, sia a causa degli errori sia a causa dell’elevata complessità computazionale. Ma l’infinitezza del salto è comunque inevitabile: essa può essere aggirata, e in un certo senso superata, dalla dimostrazione di teoremi che stabiliscono le proprietà di convergenza di una successione o di una procedura numerica, e il conseguente progressivo avvicinarsi a zero del residuo. È la stessa procedura, allora, a rappresentare simbolicamente quel salto infinito, anche se l’insieme complessivo dei valori calcolati, sempre più piccoli, dello stesso residuo è infinito solo in potenza, ed è perciò inesauribile.