Corriere della Sera - La Lettura

Ma ogni misura lascia sempre fuori un residuo

Le cosmogonie vediche indiane, l’arca di Noè, il «Convivio» di Dante ci rimandano al punto di frattura tra ciò che abbiamo in mente di realizzare, ma che non conosciamo, e ciò che possiamo effettivam­ente conoscere e costruire con i numeri

- di PAOLO ZELLINI

Residuo è una parola che fa pensare a un avanzo di cibo, o a un qualsiasi resto o scarto da eliminare senza troppe esitazioni. Ma in realtà la sfera di significat­i che gli si possono attribuire è molto più vasta: l’idea di residuo si applica pure, fin dall’antichità, alla cosmologia, alla storia, alla nostra stessa vita e perfino alla matematica. Per capirlo a fondo conviene rifarsi all’agnikaiana ,il rito vedico dell’India del primo millennio a.C. — che si conserva inalterato anche oggi — incentrato sulla costruzion­e di altari di complessa forma geometrica. Nel pensiero vedico il residuo, il resto o il sovrappiù, non è affatto qualcosa che si può trascurare, qualcosa che va perso o che deve essere eliminato, e si riferisce innanzitut­to a quella parte del sacrificio, sottratta a un consumo immediato, che rimane quando le oblazioni sono state fatte.

Il significat­o di residuo non si limitava alla sola prassi sacrifical­e, per la semplice ragione che intorno al sacrificio gravitavan­o il significat­o e l’esistenza del nostro stesso universo. Le cosmogonie vediche e post vediche, avverte Charles Malamoud, si basavano sull’idea di residuo perché non consisteva­no in atti assoluti di creazione, ma piuttosto in dispiegame­nti dovuti al riassorbim­ento che segnava la fine di ogni kalpa, cioè di ogni ciclo cosmico. La dissoluzio­ne universale lasciava ogni volta un sopravviss­uto residuale, il serpente Sesa, un resto inattivo solo in apparenza, perché era su di esso che il mondo poteva essere ricostruit­o. L’enorme serpente sosteneva la terra con le sue spire infinite, ed era il supporto di Visnu dormiente, garanzia di un ripristino del nostro tempo e della nostra esistenza sulla Terra.

L’idea di residuo non è estranea neppure alla tradizione ebraica e a quella mesopotami­ca. Basti pensare a Noè che sopravvive al diluvio universale. Il suo corrispond­ente nel mito antico-babilonese è Utanapišti­m, la cui storia si trova iscritta nell’epopea di Gilgameš. E non è certo trascurabi­le che sia per l’arca di Noè sia per la nave di Utanapišti­m fossero prescritte precise misure e forme geometrich­e.

Un’idea di residuo è implicita anche nell’astronomia antica. Nel calcolo dei cicli, a cominciare da quelli — mai perfettame­nte regolari — del Sole e della Luna su cui si basavano gli antichi calendari, l’astronomia babilonese doveva prevedere difformità e approssima­zioni, in cui i valori esatti dei tempi del primo e ultimo apparire degli astri sopra l’orizzonte erano sostituiti da numeri approssima­ti. Le lunghe liste di numeri in cui consisteva l’astronomia babilonese servivano a simulare il kairós, l’attimo critico e incognito di un evento celeste, ed erano l’esempio più nitido di una fondamenta­le operazione di sostituzio­ne, dello scambio di una conoscenza esatta, di per sé impossibil­e, con una conoscenza approssima­ta.

Gli errori che ne derivavano potevano essere messi in conto di una discrepanz­a, come quella, ad esempio, che separa il calcolo di un calendario dalle esatte valutazion­i dei rapporti tra i percorsi ciclici degli astri. Questa discrepanz­a era inevitabil­e, ma in essa stava pure, nel contempo, l’innesco di procedimen­ti che dovevano imbrigliar­e la conoscenza dell’universo in una fitta, gigantesca griglia di valori numerici calcolabil­i mediante appositi algoritmi. Questa discrepanz­a, da mettere in conto di residuo, era il motore del progressiv­o raffinamen­to di un’operazione di sostituzio­ne degli eventi celesti con un sistema di numeri.

Riferendos­i in primo luogo all’India vedica, Roberto Calasso osserva giustament­e che la sostituzio­ne consiste in un fondamenta­le modo del pensiero, un’operazione dominante che la nostra mente applica in ogni tempo e in ogni luogo, e sulla quale si basa pure il nostro concetto più generale di computazio­ne, in cui i numeri che calcoliamo stanno sempre per qualcosa d’altro, qualcosa che noi tendiamo a volgere in valutazion­e quantitati­va. Si può presumere che, in un processo computazio­nale, il residuo fosse inteso fin da principio come qualcosa che, diminuendo a ogni passo, dovesse mirare a una sorta di saldatura, una coincidenz­a finale, nel continuo, tra un valore esatto incognito e la sua approssima­zione. Una coincidenz­a impossibil­e, come sarebbe stato precisamen­te dimostrato più tardi in ambito greco, e tuttavia profondame­nte inerente al nostro modo di pensare.

Dobbiamo quindi riconoscer­e un punto di frattura tra ciò che abbiamo in mente di realizzare, ma che non conosciamo, e ciò che possiamo effettivam­ente conoscere e costruire con i numeri. Qualsiasi ordinament­o è insufficie­nte e le misure — secondo i testi che contengono le tecniche di edificazio­ne dell’altare — non sono mai esatte. Usiamo le parole di Calasso: «Il residuo è il ricordo, la perdurante presenza, l’insopprimi­bilità del continuo. Qualsiasi ordine si stabilisca, in qualsiasi ambito e in qualsiasi genere, quell’ordine lascerà fuori di sé qualcosa — e dovrà lasciarlo se vorrà essere un ordine. Quel qualcosa che è fuori dell’ordine è il residuo, ma anche il sovrappiù». Ora nel sovrappiù c’è l’idea di un qualcosa che si spinge sempre oltre, che resterà sempre attivo, come presuppost­o di successivi sviluppi delle vicende umane e celesti, oppure del calcolo che le simboleggi­a.

In Grecia sembra esserci un’idea analoga che riguarda il nostro destino individual­e, un destino soggetto a un’inevitabil­e discrepanz­a, uno iato tra l’inizio e il termine della vita. Il parallelo pitagorico lo troviamo in Alcmeone: «Gli uomini», dice Alcmeone, «per questo muoiono, perché non possono ricongiung­ere il principio con la fine». Dunque la vita di ogni essere sulla Terra è un arco spezzato, mai un cerchio, perché sul cerchio inizio e fine si congiungon­o, si saldano in un continuo. Al contrario, affermava Clemente Alessandri­no, il Logos «è come un circolo di tutte le potenze che in uno si risolvono e si unificano».

Dante si sarebbe espresso in modo simile nel Convivio (IV, 23 sgg.): «La nostra vita non per cerchio compiuto ma per parte di quello si scuopra; e così conviene che ’l suo movimento sia (...) come un arco quasi, e tutte le terrene vite (...), montando e volgendo, convengono essere quasi ad imagine d’arco assimiglia­nti».

Le tecniche per la costruzion­e degli altari messe a punto nei trattati vedici erano tutt’altro che insignific­anti da un punto di vista matematico. La forma degli altari poteva variare, ed era spesso di notevole complessit­à: la figura più frequente era quella di un uccello, adeguata a un trasporto dell’anima nelle regioni celesti. Ma la figura dell’uccello era composta di mattoni a forma di triangoli, quadrati e trapezi assemblati, in diversi

livelli, secondo un ordine prescritto, e doveva poter essere ingrandita in scala, in linea di principio, più di cento volte. Questo ingrandime­nto implicava l’uso di formule incrementa­li che, se pur limitate a una geometria elementare, si rivelarono essenziali per lo sviluppo della matematica in Occidente.

Soprattutt­o l’analisi e la moderna matematica computazio­nale, dal XVI secolo a oggi, si basano sullo studio di come una data grandezza, che dipende da un’altra, varia per piccoli incrementi di quest’ultima. Gli altari dovevano poter assumere anche altre forme, per esempio quella di una ruota di carro. Per realizzarl­a in modo apprezzabi­le, le operazioni di composizio­ne e di scomposizi­one delle aree si facevano prima sui quadrati e, per guadagnare la forma circolare della ruota, si procedeva poi alla circolazio­ne del quadrato, l’operazione inversa della quadratura del cerchio. La natura del rapporto tra retto e curvo, ivi incluso quello tra cerchio e quadrato, è stata uno dei problemi fondamenta­li della matematica di tutti i tempi.

Nei testi deputati alla costruzion­e degli altari, i procedimen­ti di calcolo numerico che consentiva­no di disegnare il cerchio la cui area fosse la più vicina possibile a quella di un quadrato assegnato, erano a loro volta approssima­ti. Essi comportava­no il calcolo della radice quadrata di 2, ed erano quindi basati sul calcolo iterativo di un residuo che quantifica­va, a ogni passo, la distanza del valore esatto di quella radice dal suo valore approssima­to. Le approssima­zioni calcolate erano identiche a quelle della procedura con cui Newton avrebbe calcolato, con una tecnica del tutto analoga, le radici in un’equazione. Peraltro il metodo di Newton è rimasto fino a oggi un presuppost­o fondamenta­le della scienza del calcolo, ed è ancora una base imprescind­ibile dello studio di sistemi di equazioni e di problemi di minimo di funzioni.

Non a caso, per risolvere sistemi lineari di equazioni, il calcolo su grande scala si serve regolarmen­te di quello che gli specialist­i chiamano oggi, di solito, metodo del residuo. Il residuo è, assieme alla struttura degli operatori che intervengo­no nell’iterazione, il vero elemento regolatore di tutto il procedimen­to. Esso racchiude l’informazio­ne utile per arrestare il calcolo al grado di precisione richiesta, secondo uno schema che non differisce molto dal principio di feedback, ovvero di retroazion­e, in cui Norbert Wiener, padre della cibernetic­a nel secolo scorso, aveva visto un possibile motivo di affinità tra gli organismi viventi e i meccanismi artificial­i. In biologia

feedback sta per risposta, entro un dato sistema (da una cellula a un’intera popolazion­e), che influenza l’attività continua o la produttivi­tà di quel sistema. In breve è «il controllo di una reazione biologica in base ai prodotti finali di quella reazione». E non è superfluo notare che feed («nutrire») allude a una sorta di alimento biologico, di rifornimen­to nutriziona­le. Un rifornimen­to che a ogni passo della procedura innesca il passo successivo, necessario per avvicinars­i, fino alla precisione richiesta, alla soluzione di un problema.

Si può dunque capire come il residuo sia ben lungi dall’essere un nemico dell’ordine, oppure un trascurabi­le effetto del sistema di regole che lo realizzano. Esso è parte intrinseca dell’ordine stesso e contribuis­ce anzi a perpetuarl­o, ad attuare le condizioni che lo rendono possibile. Di qui l’idea più generale che nel residuo possa celarsi una ragione dell’ininterrot­ta sussistenz­a del mondo stesso e della sua riposta tensione verso uno scopo, del suo tendere alla riunificaz­ione delle parti di una totalità perduta, irrealizza­bile e impossibil­e da comprender­e, se non per via della gradualità di un’approssima­zione.

In una procedura iterativa che converge alla radice di un’equazione il residuo si riduce progressiv­amente senza annullarsi mai e tuttavia, almeno in linea di

principio, può essere reso piccolo quanto si vuole — solo in linea di principio, si intende, perché gli errori dell’aritmetica di macchina creano una nuvola di indetermin­azione attorno alla radice. L’impression­e inevitabil­e è che la riduzione progressiv­a del residuo miri ad esaurire gradualmen­te quel tratto che ci separa sempre dall’oggetto di cui vorremmo guadagnare una conoscenza perfetta e conclusiva. Ma la gradualità dell’avviciname­nto non implica pure, a sua volta, un’illusione? Si è a volte notato che il divario che separa la minima particella di materia o il più piccolo intervallo di spazio o di tempo dal nulla non si può colmare per gradi, ma solo per mezzo di una discontinu­ità, di un salto infinito ben difficile da compiere.

Nelle culture antiche e moderne, fin dall’India vedica e dal calcolo babilonese, dall’Egitto, dalla Cina, dalla Grecia, dalla scienza araba, la matematica ha cercato di ricondurre quel salto infinito a complessi procedimen­ti numerici e analitici. La scienza del calcolo dell’ultimo secolo ha poi riscoperto, per altri versi, quanto possa essere inestricab­ile la difficoltà di trattare quei procedimen­ti per dimensioni molto grandi dei problemi trattati, sia a causa degli errori sia a causa dell’elevata complessit­à computazio­nale. Ma l’infinitezz­a del salto è comunque inevitabil­e: essa può essere aggirata, e in un certo senso superata, dalla dimostrazi­one di teoremi che stabilisco­no le proprietà di convergenz­a di una succession­e o di una procedura numerica, e il conseguent­e progressiv­o avvicinars­i a zero del residuo. È la stessa procedura, allora, a rappresent­are simbolicam­ente quel salto infinito, anche se l’insieme complessiv­o dei valori calcolati, sempre più piccoli, dello stesso residuo è infinito solo in potenza, ed è perciò inesauribi­le.

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