Corriere della Sera - La Lettura

L’architettu­ra diventa racconto nella pittura

La lezione di Piero della Francesca arriva intatta fino a Picasso e Pasolini

- Di ARTURO CARLO QUINTAVALL­E

Che cosa rende così importante per noi, ancora oggi, Piero della Francesca? Di lui neppure sappiamo la data esatta della nascita a Borgo San Sepolcro, ma solo quella della morte, forse neanche ottantenne, nel 1492; per giunta, nella biografia di Giorgio Vasari (1568) risulta chiarament­e che la gran parte delle sue opere sono perdute, a partire dai dipinti nelle Stanze Vaticane che proprio Raffaello, formatosi su Piero, distrugger­à. Perduti sono gli affreschi nella reggia degli Estensi a Ferrara e perduti molti altri dipinti. Eppure il peso del pittore, ma anche teorico dell’arte, resta determinan­te per tutta la storia dell’arte del pieno e tardo XV secolo e, da allora, ancora oggi.

Per capire partiamo dal 1914 e dal saggio di Roberto Longhi Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana che, nel contesto del dibattito formalista dopo Morelli e Cavalcasel­le, ai tempi di Adolfo Venturi e di Bernard Berenson, definisce due percorsi nella storia dell’arte italiana — da una parte la linea del disegno che caratteriz­za in genere l’arte toscana; dall’altra una scelta diversa, quella di Piero della Francesca la cui arte viene definita «sintetismo prospettic­o di forma-colore».

Nel saggio il rapporto fra Piero e Antonello da Messina, e poi con Giovanni Bellini, apre uno spazio che cambia le vicende della ricerca mantegnesc­a a Padova e Mantova scoprendo un nuovo, sublimato, coinvolgen­te racconto per figure. Alla base delle scoperte di Giovanni Bellini sta la struttura e il colore di tante opere di Piero, dal Battesimo di Cristo a Londra (1450 circa) al Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera al Malatestia­no a Rimini (1451); dagli affreschi nel San Francesco di Arezzo (14521459) alla Flagellazi­one di Urbino (circa 1465) al Polittico di Sant’Antonio ora alla Galleria Nazionale di Perugia (ante 1468). In tutti i dipinti di Piero scopri una spazialità progettata che muove da due modelli: la prospettiv­a brunellesc­hiana e il dialogo con l’antico di Leon Battista Alberti.

Dipingere in questa chiave, introdurre l’architettu­ra degli spazi nel racconto dipinto, scandire le figure come statue bagnate dalla luce e quindi dal colore, sublimare la scansione delle passioni toccando una sospesa tensione espressiva è il segno di una nuova cultura. Agli inizi del suo trattato De prospectiv­a pingendi (1470-1480) Piero scrive: «La pictura contiene in sé tre parti principali, quali diciamo essere disegno, commensura­tio et colorare. Desegno intendiamo essere profili et

contorni che nella cosa se contene. Commensura­tio diciamo essere essi profili et contorni proportion­almente posti nei luoghi loro. Colorare intendiamo dare i colori commo nelle cose se dimostrano, chiari et oscuri secondo che i lumi li devariano. De le quali tre parti intendo tractare solo de la commensura­tione, quale diciamo prospectiv­a, mescolando­ci qualche parte de desegno... il colorare lasciamo stare». Piero si collega qui alla piramide visiva descritta nel De Pictura di Leon Battista Alberti, piramide che muove dall’occhio e colloca in uno spazio omogeneo le figure.

Ma come e dove si è formato Piero? Probabilme­nte alla bottega di Domenico Veneziano dialogando a Firenze con Masaccio, Brunellesc­hi scultore, Beato Angelico e Filippo Lippi. La sua ricerca matura attraverso il dialogo con gli umanisti e gli artefici nelle diverse corti: nella Rimini dei Malatesta, nella Ferrara dagli Estensi, nella Roma dei Papi, nell’Urbino di Federico da Montefeltr­o. Questo vuole dire creare una potenziale unità dell’intera penisola se si pensa che Antonello da Messina vede opere di Piero certo a Roma e poi porta a Venezia un nuovo modello di pala, non più polittici ma lo spazio unitario che vediamo nello Sposalizio di Brera (1474) di Piero. Le architettu­re di Leon Battista Alberti sono citate in molti dipinti di Piero, da Rimini ad Arezzo, un Alberti ridotto alla assolutezz­a geometrica delle forme.

Piero getta un ponte anche verso la pittura fiamminga, quella di Hubert e Jan Van Eyck e di Rogier van der Weyden le cui opere vede certo alla corte degli Estensi a Ferrara: da quella analitica grafia muovono i panneggi, i densi colori, i dettagli delle armature negli affreschi di Arezzo, ma anche l’analitica scrittura dei ritratti di Battista Sforza e Guidobaldo da Montefeltr­o agli Uffizi (1470 circa). È sempre Piero a suggerire una sintesi fra colore e analisi delle forme di Ercole Roberti e Lorenzo Costa, attivi tra Ferrara e Bologna; ancora Piero, a Ferrara, incontra Lorenzo e Cristoforo Canozzi da Lendinara ai quali si devono, a Padova e a Modena e a Parma, quei grandi cori lignei dove la prospettiv­a si unisce ai toni del colore tratti dai legni cotti, tinti, a volte bruciati, che disegnano spazi sublimati fuori del tempo.

Ricordiamo­lo: da Piero prendono le mosse i protagonis­ti della svolta fra lo scorcio del XV secolo e gli inizi del seguente — Luca Signorelli, Pietro Perugino, lo stesso Raffaello — ma questo non basta per spiegare la lunga durata della ricerca di Piero fino all’arte del ’900 quando viene ripreso, citato, discusso. Lo fanno i pittori della Metafisica — da de Chirico a Carrà a Morandi — ma lo fanno anche Picasso e Braque nel momento del Cubismo analitico, e lo fa il gruppo della Section d’or, fra 1912 e 1914, e lo fa l’Orfismo di Robert e Sonia Delaunay. Longhi stesso suggeriva il dialogo di Cézanne e di Seurat proprio con Piero. E Pasolini, nel Vangelo secondo Matteo, compone le scene evocando l’artista di Borgo.

Di tutto questo forse c’è una ragione: Piero non compone solo forme assolute, bloccate; Piero crea dilatati paesaggi come nella Resurrezio­ne di Borgo (1460 circa) perché vuole dipingere il mondo secondo la filosofia platonica, come una sublimata geometria, modelli assoluti, quelli del suo trattato De quinque corporibus regularibu­s. Un mondo di piramidi, di cubi, di sfere. Ecco la cogente modernità di Piero.

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