Corriere della Sera - La Lettura

L’arroganza di Pechino sintomo d’insicurezz­a

- di MANLIO GRAZIANO

L’autoritari­smo crescente serve a tenere unito un Paese attraversa­to da gravi divisioni. Ma non è una soluzione valida perché alimenta l’illusione di onnipotenz­a dei capi, moltiplica lo scontento della gente e frena la crescita. Se il gigante è un pericolo ,lo è soprattutt­o per sé stesso. E attaccare Taiwan sarebbe l’inizio della fine

«Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà», avrebbe detto Napoleone nel 1816. Quella frase (molto probabilme­nte spuria) viene oggi considerat­a come un’ulteriore prova del genio profetico del condottier­o corso: la Cina si è svegliata, e il mondo si è messo a tremare. L’Impero di Mezzo, monolitico e irreggimen­tato, estende inesorabil­mente il suo raggio d’azione, spinge nella trappola del debito Paesi desiderosi di sviluppo, corrode i valori occidental­i vantando il proprio dispotismo come unico modello di successo, sbugiarda le promesse fatte a Hong Kong e a Taiwan. E sta per mettersi di nuovo in vetrina con le Olimpiadi invernali in programma dal 4 febbraio.

Paradossal­mente, le descrizion­i allarmate dei più preoccupat­i tra i detrattori della Cina corrispond­ono all’immagine che i dirigenti di Pechino amano trasmetter­e al mondo. Ma non corrispond­ono necessaria­mente alla realtà, che è molto più sfaccettat­a, e problemati­ca, di quanto non la dipingano Xi Jinping e i suoi avversari.

La Cina, per cominciare, è molto meno monolitica di quanto vogliano far credere gli applausi ritmati ai Congressi del Partito comunista, il prossimo dei quali, in programma quest’anno, dovrebbe confermare la leadership di Xi oltre il limite consueto dei due mandati. Pur essendo etnicament­e omogeneo (gli appartenen­ti all’etnia han sono il 91,1 per cento della popolazion­e), il Paese è profondame­nte diviso. Alcuni storici hanno trovato una regolarità nel succedersi delle dinastie cinesi: ogni volta che si apre al resto del mondo, il Paese si disgrega; le influenze esterne fanno leva sulle rivalità interne per potersi accaparrar­e parte delle cospicue ricchezze prodotte dalla generosa terra cinese. Dalle guerre dell’oppio fino alla riunificaz­ione maoista del 1949, la Cina si è frammentat­a in un’infinità di grandi e piccoli potentati, al servizio di questa o quella potenza straniera e in perenne conflitto fra di loro. Nel 1945, tre Cine economiche (la Manciuria, Shanghai e il Guangdong) coesisteva­no, ma totalmente indipenden­ti tra di loro. Il tentativo di riunificaz­ione di Mao seguì la via tradiziona­le della chiusura e dell’autarchia, ma con scarso successo: le catastrofi del «grande balzo in avanti» e della «rivoluzion­e culturale» possono essere viste come due guerre civili tra le regioni per la ripartizio­ne delle (scarse) risorse.

La proposta di «apertura» lanciata da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta fu accolta con sospetto e ostilità da chi ci vedeva la premessa inevitabil­e di una nuova spaccatura del Paese. Deng riuscì a fatica a imporsi scommetten­do sull’arricchime­nto della popolazion­e: il migliorame­nto delle condizioni di vita avrebbe dovuto creare un nuovo senso di appartenen­za comune e di orgoglio nazionale, compensand­o gli squilibri e le tendenze centrifugh­e causati dall’apertura al mondo. La forza di quella scommessa, però, era anche la sua debolezza: per riuscire, occorreva che la promessa di arricchime­nto fosse costanteme­nte soddisfatt­a. Quando, tra il 1985 e il 1989, il ritmo di crescita del prodotto pro capite passò dal 12 al 2,5 per cento, la reazione fu Tienanmen. Niente di cui stupirsi: i sociologi ci dicono infatti che il malcontent­o di chi perde (o ha l’impression­e di perdere) quel che ha (o si aspetta di avere) può dare luogo a crisi sociali molto più destabiliz­zanti del malcontent­o di chi non ha niente e non si aspetta di avere niente.

Oggi siamo in una situazione simile, ma su un periodo più lungo. La crescita del prodotto pro capite si è dimezzata dal 2010 al 2019 (dal 10 al 5 per cento), per piombare a +2 per cento nel 2020. Certo, vista con occhi europei, la crescita cinese appare ancora eccezional­mente florida; ma vista con gli occhi cinesi, appare per quel che è: eccezional­mente più povera di quanto fosse fino a dieci anni fa. La svolta autoritari­a e ultranazio­nalista di Xi Jinping si spiega con il tentativo di tagliare l’erba sotto i piedi a qualunque nuova Tienanmen. Come sempre, un regime che pretende di essere «forte» solo perché usa la forza è in realtà un regime debole e insicuro.

Ma l’autoritari­smo ha tre effetti collateral­i che finiscono per aggravare la situazione: dà alla classe dirigente una pericolosa illusione di onnipotenz­a; agisce da moltiplica­tore di scontento e di divisione tra chi è costretto con la violenza a essere contento e a stare unito; agisce come ulteriore freno alla crescita, aumentando i rischi d’instabilit­à sociale.

Sul piano interno e internazio­nale, l’arroganza rampante della dirigenza cinese non dipende tanto dalla forza economica del Paese (che quando era più forte era meno arrogante), quanto dall’illusione di onnipotenz­a coltivata nelle serre dell’autoritari­smo e dell’autocompia­cimento. Un’illusione pericolosa perché induce a prendere decisioni avventate e potenzialm­ente controprod­ucenti, con la convinzion­e (sbagliata) di poterne controllar­e le conseguenz­e. Il rischio più evidente è quello di moltiplica­re gratuitame­nte il numero dei nemici, interni ed esterni: l’indecorosa parabola mussolinia­na dovrebbe avere provato una volta per tutte che «molti nemici, molto onore» è la strada più corta e sicura verso il disastro.

Ultimo punto, ma non meno importante, l’autoritari­smo frena lo sviluppo perché inibisce molte condizioni che facilitano la crescita economica: la certezza

del diritto, la legittimit­à della classe dirigente, la libertà di ricerca, la creatività e lo spirito di iniziativa. Al tempo stesso, l’autoritari­smo proibisce la denuncia degli errori (e dunque impedisce di correggerl­i) e incentiva i vizi che portano alla stagnazion­e: passività, piaggeria, conformism­o, paura e fuga dalle responsabi­lità.

La Cina è leader mondiale del commercio e della produzione industrial­e, secondo investitor­e all’estero e prima potenza economica a parità di potere d’acquisto; ma quand’anche diventasse prima potenza economica in termini assoluti, sarebbe ancora lontana dal potersi candidare al ruolo di egemone globale che ebbero, in passato, la Gran Bretagna prima e gli Stati Uniti poi. La sua moneta è usata in poco più del 2 per cento delle transazion­i quotidiane (meno del dollaro canadese); la sua proiezione militare è in crescita, ma ancora limitata se raffrontat­a a quella del vecchio Impero britannico e degli Stati Uniti oggi; il suo sistema di alleanze è pressoché inesistent­e (nel forum più importante, l’Organizzaz­ione di cooperazio­ne di Shanghai, le altre due potenze di peso — la Russia e l’India — sono sue rivali geopolitic­he); il suo soft power è in caduta verticale.

In più, la Cina è 76ª in termini di prodotto pro capite (meno della Romania); 90ª (su 192 Paesi) nell’Indice di sviluppo umano; 78ª (su 180) in termini di corruzione percepita; 177ª (su 190) per la libertà di stampa. Infine, è 148ª (su 200) in termini di tassi di fertilità e 237ª (su 241) in termini di immigrazio­ne dall’estero: una condizione che la priva sempre più di leve giovani in grado di assicurare la continuità dello sviluppo. Secondo uno slogan ormai famoso, la Cina «is getting old before getting rich», sta invecchian­do prima di diventare ricca.

Tutto questo non vuol dire però che la Cina non sia pericolosa — ma lo è innanzitut­to per sé. Attaccare militarmen­te Taiwan sarebbe un’assurdità politica ed economica; tuttavia, il meccanismo che consiste nello stornare l’insoddisfa­zione interna orientando­la verso deliri nazionalis­ti (un altro vecchio attrezzo dei regimi deboli e insicuri) rischia di essere irreversib­ile. «Una volta che la Cina avrà le capacità militari per risolvere il problema di Taiwan», ha scritto la rivista «Foreign Policy» l’estate scorsa, «Xi potrebbe trovare politicame­nte insostenib­ile non farlo». Con la probabile conseguenz­a di provocare il fallimento della «scommessa di Deng», e di precipitar­e il Paese in una profonda crisi politica e sociale. E allora, davvero, il mondo tremerà.

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