Corriere della Sera - La Lettura

Il Messico, Madrid, Dortmund. E l’euro

- Alessandra Coppola

I confronti tra Italia e Germania? Non solo in Messico nel 1970, passando per Madrid nell’82 e arrivando a Dortmund nel 2006. Non di calcio, ma di un confronto davvero determinan­te si occupa Mauro Batocchi in La

(Bocconi Editore–Egea, pp. 144, € 16). Batocchi è l’ambasciato­re italiano in Cile e da giovane diplomatic­o lavorò a Bonn, l’ex capitale tedesca. Un’ottica particolar­issima su fatti noti e meno noti.

che rappresent­ava l’odio reciproco. Per abbatterlo ci abbiamo messo mesi e mesi di fatica, fino a comprender­e come la pensa l’altro, riuscendo a costruire qualcosa insieme. Lui aveva 14 anni e quando diceva «sono fascista» non ne sapeva nulla. Io nemmeno, così come non capivo la definizion­e di «immigrata». Ho imparato il significat­o di tante parole grazie a lui, anche se in modo abbastanza aggressivo... Con i fumetti cerco di raccontare storie che non vengono mai raccontate e che sono vicende di normalità, quotidiani­tà, che molto spesso sottovalut­iamo. Una ragazza musulmana immigrata può essere amica di fascisti: perché no? Lui è cambiato, ma anche io. Perché non ci miglioriam­o a vicenda? Io ho riscoperto con lui il vero significat­o del dibattito. Siamo andati l’uno incontro all’altra, non per cambiare idea, ma per mettere insieme le cose che abbiamo in comune, per rispettare le nostre diversità.

Il modo di Francesco Wu di decostruir­e il nemico e raccontare un’altra storia sembra quello di rimboccars­i le maniche. Il suo stato permanente del profilo WhatsApp dichiara: «A lavurà»...

FRANCESCO WU — Nei miei vent’anni ho soprattutt­o studiato, frequentan­do amici italiani. Successiva­mente, però, mi sono accorto, nonostante fossi qua da sempre, ingegnere, integrato, che nel mondo del lavoro e dell’imprendito­ria venivo visto come un diverso, un cinese, molto più che negli anni di studio. Ero diventato l’ingegnere cinese che ruba il lavoro. Questa esperienza un po’ brutale mi ha portato a impegnarmi dal punto di vista associativ­o per cercare di migliorare le cose. Vedevo altri prima di me prendere la parola, ma lo facevano in modo confuso. Quando è stato il mio turno di raccontare dall’interno il nostro punto di vista, il mondo esterno ha scoperto che non siamo tanto diversi. Ci sono imprendito­ri capaci e onesti, e altri più furbi. Ma siamo nella media italiana, non siamo migliori ma neanche peggiori, ce la giochiamo... La chiave è stata proprio questo saper vedere il problema, capirlo, e poi raccontarl­o dall’interno. Il nodo era spesso la comunicazi­one. Quando ho fondato l’associazio­ne, sono andato a parlare con tutti, a chiedere: qual è il problema? Mi sono trovato a raccontare una comunità cinese bene integrata a Milano, smentendo una narrazione sbagliata. Nel mio caso mi ha aiutato anche un giornalism­o sano. Vale quello che dice Zamboni: quando c’è una narrazione dominante ti sembra che ci siano nemici dappertutt­o. È sempliceme­nte bastato cambiarla e s’è innescato un processo virtuoso. Ora, per esempio, la zona Paolo Sarpi da problemati­ca Chinatown è diventata uno dei quartieri più belli della città, con una

buona convivenza tra residenti autoctoni e negozianti cinesi.

Piccola eccezione, in un panorama italiano fosco, al punto che Massimo Zamboni canta: «Tira ovunque aria sconsolata». Colpa della pandemia?

TAKOUA BEN MOHAMEN — Io la sento moltissimo quest’aria sconsolata. Da tempo. La pandemia più che altro l’ha tirata fuori e l’ha aggravata. Ma c’era già, per la questione economica, finanziari­a... che ha permesso ad alcuni movimenti politici di dare la colpa a quello più debole, spesso il migrante. Con la pandemia si è tirato fuori il peggio, ma quel peggio c’era anche prima, non è arrivato adesso...

MASSIMO ZAMBONI — E infatti la canzone è nata anni prima del Covid. Questo carattere sconsolato è evidente, è evidente che l’Italia sia un Paese in vendita e anche a basso prezzo. La terra vale poco. La stragrande maggioranz­a del Paese — patrimonio artistico compreso — non vale quasi nulla. I «Compro oro» e tutti quei negozi comparsi in pochi anni danno l’idea delle difficoltà delle famiglie. Talvolta noi attribuiam­o a questo virus problemi esistenti da tempo e molto radicati.

TOMMY KUTI — Mi piace quello che hanno detto Takoua e Massimo: noi attribuiam­o a questo virus un sacco di problemi che c’erano già. Quello che a me personalme­nte questo virus ha lasciato è il tempo per confrontar­mi con la realtà che mi circonda. E anche per fare alcuni ragionamen­ti e vedere le cose per quello che sono. Siamo sempre di corsa, in giro; il Covid mi ha fatto realizzare che molte amicizie, relazioni, frequentaz­ioni andavano avanti perché la routine te lo imponeva. Questa situazione ha portato molte persone — e parlo prima di tutto di me — a fare i conti con i vuoti, i traumi, la sofferenza a cui prima non davano tempo.

È in questo momento sospeso che si è concesso una sorta di «ritorno alle origini», riscoprend­o l’Afrobeat fondato dal suo omonimo Fela Kuti?

TOMMY KUTI — Assolutame­nte sì. La vita a Milano per un ragazzo di provincia come me rischia di farti perdere. Durante il lockdown sono tornato dalla mia famiglia, ho ripreso a parlare lo yoruba che stavo smarrendo. È stato bello tornare a casa...

La terra d’origine resta uno dei temi di Zamboni: da «Emilia paranoica» dei Cccp (inizio anni Ottanta) a «Il modo emiliano di portare il pianto» che chiude questo nuovo album, che cosa c’è nel mezzo? Che relazione c’è tra le due Emilie, quella punk e quella che s’affligge?

MASSIMO ZAMBONI — In qualche modo sono due angolature della stessa visione. Ci sono quarant’anni anagrafici in mezzo ma è un po’ come diceva Francesco Wu: due patrie che fanno il 200 per cento, che convivono, l’Emilia paranoica di allora assieme a questo modo

emiliano di portare il pianto che è molto più accorato, più adulto naturalmen­te. Però parlano della stessa terra. Mi rendo conto che la vita ci chiede di maturare, come fa la natura con i suoi frutti; ma ci chiede anche di comprender­e in noi tutte le età precedenti, senza abbandonar­le. E quindi la rabbia e l’irritazion­e per lo spreco di questo territorio che tante volte si butta via rimangono inalterate, ma diventano più complesse per averlo — questo territorio — conosciuto, percorso, vissuto sempre di più. Il modo emiliano di portare il pianto è nata dopo i terremoti e anche qui rimanda a quello che diceva Francesco: il nostro modo è lavorare. È quello che noi sappiamo fare. L’emiliano non è un popolo capace di piangere, è un popolo che ha paura di farsi vedere a piangere. È un popolo forte, lo è sempre stato. La soluzione migliore è quella di buttarsi a testa bassa nel lavoro, che per noi è una benedizion­e. Non tanto perché genera economia ma perché genera pensieri positivi, ti fa sentire di avere due braccia, due gambe, una testa; di essere utile agli altri. Questo è importanti­ssimo. Mi rendo conto che è difficile per un emiliano parlare di patria, perché in fondo in fondo la patria per noi è l’Emilia. C’è una parte di orgoglio che non si riesce a tacitare, che però non è mai diventato arroganza. Perché l’orgoglio emiliano è sentirsi parte del mondo.

FRANCESCO WU — È in effetti molto sino-milanese questo modo di portare il pianto... Però vorrei dire qualcosa su questa faccenda dell’amico fascista di cui parlava Takoua: io non me la sento. Tuttora mi capitano episodi di razzismo. L’altro giorno ero in macchina, non conoscevo la strada, esitavo, un uomo in scooter mi ha suonato gridandomi: «Cinese di merda». Con gente così, che appena coglie un problema ti vede diverso, io non voglio più avere a che fare. Non sono diventato più buono ma più selettivo, forse più intolleran­te. Voglio stare tra gente aperta, accoglient­e. Casa è dove ci sono persone che mi fanno sentire a casa. MASSIMO ZAMBONI — Io credo che casa sia dove riposano i nostri morti. Possiamo girare moltissimo, trovarci bene in molti luoghi, ma in realtà casa è un patrimonio lunghissim­o che si trova dove abbiamo padre e madre e nonni e bisnonni, perché quello è qualcosa di inalienabi­le, inestingui­bile...

E se i nostri morti non riposano tutti nel medesimo luogo? Se sono sepolti altrove?

MASSIMO ZAMBONI — È un problema, e dobbiamo accettare questa divisione. Ma io credo che la vera casa, quella profonda, sia dove abbiamo lasciato qualcuno che è così simile a quello che noi siamo.

Ben Mohamed: è faticoso superare tanti pregiudizi Kuti: la creatività nasce dalla mescolanza culturale

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