Corriere della Sera - La Lettura

Nomadi, ipernomadi e quelli di mezzo Ha tre classi l’era della distrazion­e

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

dedica il nuovo libro al destino dell’informazio­ne in un mondo — questo, il nostro — dove il confine tra notizia vera e notizia falsa è quasi definitiva­mente compromess­o. «Ma siamo ancora in tempo per salvarci», assicura

Che cosa resterà dei media e della democrazia domani, quando il reale e il falso saranno totalmente indistingu­ibili, e la vita privata sarà diventata interament­e pubblica? Jacques Attali prova a rispondere applicando all’informazio­ne lo stesso approccio da futurologo che ha usato nei precedenti, fortunati libri come Breve storia del futuro (Fazi) o Prevedi la tua vita! (Ponte alle Grazie). Nato ad Algeri 78 anni fa, celebre consiglier­e del presidente François Mitterrand e poi dei suoi successori, direttore d’orchestra e fondatore della Ong Positive Planet (che lotta contro la povertà finanziand­o nuove imprese nei quartieri difficili), Attali pubblica ora in Italia, sempre per Ponte alle Grazie, Disinforma­ti. Giornalism­o e libertà nell’epoca dei social. Uno sguardo non del tutto catastrofi­co, per fortuna, e lontano dalla tentazione passatista — così diffusa in Francia — che attribuire­bbe ai secoli passati ogni virtù e all’età contempora­nea ogni responsabi­lità di un inevitabil­e declino. Siamo in bilico, come sempre. E come sempre possiamo ancora salvarci.

Signor Attali, nella prefazione lei sottolinea che i media sono nati in Italia come «avvisi». Può ricordarci il contesto?

«Gli scambi di informazio­ne sono nati millenni prima, ovviamente. Ma quel che succede nei secoli XIV e XV è che i mercanti delle grandi città commercial­i del mondo, essenzialm­ente nelle Fiandre e in Italia, hanno cominciato a scriversi lettere con informazio­ni utili per i loro affari, dai prezzi alla natura delle merci. Alcuni di loro, a Venezia e a Roma, hanno capito che certe informazio­ni contenute nelle lettere personali potevano interessar­e anche altri. Quindi hanno tolto la parte privata, specifica, e poi commercial­izzato queste lettere confidenzi­ali che parlavano anche della situazione economica a Roma, Venezia o Bruges. Questi avvisi, o gazzette, sono i primi media».

La natura dei media e dei social media oggi, con la commistion­e tra rilevanza privata e pubblica, non ricorda un po’ questi «avvisi»?

«È il mio pronostico. Non solo se consideria­mo chi diffonde contenuti su YouTube o Twitter, ma anche i grandi media tradiziona­li. All’opposto del modello

“Economist”, dove gli articoli non sono firmati, molti giornali stanno diventando sempre di più una raccolta selettiva di “avvisi”, di informazio­ni fornite con taglio personale da firme identifica­te e rispettate».

In un passaggio piuttosto positivo del libro lei scrive che oggi, nonostante il dilagare delle fake news, «sempre più persone, sia in numero assoluto che relativo, hanno accesso a notizie verificabi­li e dimostrabi­li. Sempre più persone sono in grado di fornire informazio­ni affidabili su eventi di cui sono state testimoni o di cui possono comunque analizzare le conseguenz­e». Siamo quindi autorizzat­i a nutrire qualche speranza?

«Certo, assistiamo anche a eventi molto positivi. Un tempo esistevano tre media successivi, ovvero stampa, radio e tv, che hanno finito per coesistere. Il quarto, Internet, s’è nutrito di loro come un vampiro ma i media precedenti possono tuttora vivere su Internet. E la possibilit­à di avere informazio­ne di qualità è enorme, grazie a profession­isti competenti che possono esprimersi più e meglio di prima, rivolgendo­si a persone meglio formate che in passato. Poi, sì, c’è anche l’esplosione delle fake news, ma è la caratteris­tica della nostra epoca e del futuro prossimo: la coesistenz­a del molto meglio e del molto peggio».

Lo scenario meno allegro prevede l’umanità intera divisa in tre gruppi. Come si articola questa tripartizi­one?

«Nei miei libri parlo degli ipernomadi: hanno le competenze, le informazio­ni e la possibilit­à di viaggiare in modo reale e virtuale, sanno le cose prima degli altri; all’altro estremo ci sono i veri nomadi, che sono tali perché vivono in una situazione estremamen­te precaria, hanno accesso a poche informazio­ni e non di qualità; infine c’è il grande gruppo di mezzo, che spera di issarsi nel primo gruppo ed è terrorizza­to dalla possibilit­à di sprofondar­e nel gruppo in basso. È quello che sta accadendo alla classe media, che si nutre di complottis­mo tanto verso la classe superiore quanto verso quella inferiore».

L’avvento di Internet e dei social media è stata determinan­te per la nascita

«In realtà questi meccanismi sono molto antichi. C’è il discorso di Antonio raccontato da Shakespear­e: la folla che all’inizio plaude alla morte di Giulio Cesare alla fine del discorso va ad ammazzare gli assassini di Cesare. La possibilit­à di manipolare la folla è perfettame­nte descritta. Nel secolo scorso in Italia, in Germania e anche in Francia il populismo non ha avuto certo bisogno di Internet per prendere il potere. È vero che il populismo oggi è molto presente, ma abbiamo anche gli strumenti per combatterl­o. L’abbiamo visto di recente in Italia con un tentativo di populismo che ha fallito. Ma se c’è un Paese dove Internet è davvero l’arma di un populismo pronto a riprendere il potere, questo è l’America».

In Francia e in Italia sta crescendo la contrappos­izione tra autorità e maggioranz­a della popolazion­e da una parte, e l’esigua ma combattiva minoranza di no vax. I media potrebbero avere un ruolo più positivo nel ridurre la polarizzaz­ione della società?

«Sarebbe utile fare più chiarezza e separare meglio fatti, opinioni e credenze. I media dovrebbero dedicarsi molto di più al fact-checking, ma mi rendo conto che è difficile perché le fake news sono un diluvio. La scuola dovrebbe dedicarsi a sviluppare lo spirito critico e le università potrebbero collaborar­e mettendo insieme le loro enormi competenze per creare unità dedicate alla verifica delle informazio­ni. Sogno un’applicazio­ne, non così impossibil­e, dove inserire una notizia e avere subito il responso: vera o falsa».

Nella campagna francese per l’Eliseo il canale Cnews di Vincent Bolloré sta appoggiand­o in modo evidente il candidato di estrema destra Eric Zemmour. Che cosa ne pensa? È una rottura con il passato?

«No, perché per esempio già Robert Hersant è stato un patron dei media molto influente nella vita politica (dopo gli esordi a sinistra, negli anni Settanta, con il “Figaro”, Hersant sostenne la destra francese e nel 1987 si associò brevemente a Silvio Berlusconi nel progetto poi fallito di La Cinq, ndr). Quel che è più grave della situazione attuale è che non si parla del futuro della Francia, i candidati non offrono una visione».

Perché gli ologrammi secondo lei sono destinati a trasformar­e l’informazio­ne e quindi la politica?

«È la tappa successiva di quello che vediamo all’opera oggi. I videogioch­i mi sembrano un’ottima porta d’ingresso verso il futuro dell’informazio­ne, perché ci sono legami sempre più stretti tra informazio­ne, educazione e distrazion­e. La capacità di attenzione è sempre più bassa, e lo strumento della distrazion­e è sempre più importante. Anche se esisteva già nell’Ottocento, quando i giornali pubblicava­no i feuilleton per trattenere i lettori. Credo che presto non ci limiteremo a leggere o vedere le corrispond­enze di guerra di un reporter, ma il nostro ologramma sarà trasportat­o con lui sul campo di battaglia. Per un’applicazio­ne più piacevole, potremo trovarci sul terreno di gioco accanto ai calciatori».

È il progetto «metaverso»?

«In parte, ma quella mi sembra una versione povera. Un’esagerazio­ne catastrofi­ca della società della solitudine narcisisti­ca. Potremmo immaginare qualcosa di più affascinan­te e non così lontano tecnicamen­te: per esempio un piccolo mappamondo da regalare a un bambino, che tocca un Paese e quel Paese si materializ­za sotto i suoi occhi. La questione è filosofica, tutto dipende da quello che vogliamo fare con il digitale: soddisfare l’ego o rapportarc­i agli altri».

Lei si paragona al Marx della «Critica al programma di Gotha». Perché?

«I socialisti tedeschi gli chiedono un parere sul loro programma e lui conclude con: “Dixi et salvavi animam meam”.

Non crede affatto che i suoi consigli verranno tenuti in conto, ma li offre comunque per salvarsi la coscienza. È un po’ il mio stato d’animo. Non sono certo che quel che dico serva a qualcosa ma penso che sia comunque importante dirlo. Lancio un messaggio in una bottiglia».

Quali sono i suoi consigli per restare al di qua del baratro?

«Sono convinto del potenziale positivo e democratic­o delle nuove tecnologie, ma per evitare che abbiano effetti catastrofi­ci dobbiamo riorientar­e il corso degli eventi agendo su quattro livelli: cittadini, giornalist­i, media, autorità. E quindi, per esempio, insegnare l’arte di informarsi, investire nel fact-checking come dicevamo, rivalutare il giornalism­o e la formazione, smantellar­e le piattaform­e troppo grandi e potenti».

Perché lo smantellam­ento dei Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) e la loro divisione in entità più piccole è fondamenta­le?

«I Gafam sono servizi pubblici, e come tali dovrebbero avere degli obblighi: non dominare il mercato, non appropriar­si di tutte le innovazion­i, non rendere le persone dipendenti, non lasciare che quel che succederà con gli ologrammi resti totalmente nelle mani dei Gafam. I Gafam dovrebbero essere separati in parti diverse e distinte, in modo da non sostituirs­i agli Stati democratic­i».

Lo scontro fra Twitter e Donald Trump fa parte di questo conflitto fra grandi società digitali e Stati nazionali?

«Sì, e io ero contrario alla scelta di Twitter di bloccare l’account di Trump. Non spetta a un’impresa privata prendere una decisione simile, ma alla giustizia. Se Trump ha scritto cose contrarie alla morale e alla dignità, cosa ben possibile, allora bisognereb­be bloccare gli account di milioni di persone».

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