Corriere della Sera - La Lettura

Resto ballerina anche tra le parole

- Da San Francisco ENRICO ROTELLI

Katie Kitamura, california­na di origini giapponesi, ha un passato nella danza che, spiega a «la Lettura», le ha dato la tenacia per affermarsi come autrice. Nel nuovo romanzo racconta di una traduttric­e e di un criminale di guerra africano

Guardare alle cose da prospettiv­e differenti è per Katie Kitamura un fatto naturale. Nata in California da genitori giapponesi, Kitamura è una scrittrice ed ex ballerina che insegna scrittura creativa alla New York University e abita a New York con i due figli e il marito, lo scrittore britannico Hari Kunzru.

Forse il particolar­e senso di disorienta­mento che spesso troviamo nelle sue storie nasce proprio da questo continuo dialogo con culture diverse. La protagonis­ta di Tra le nostre parole, il suo nuovo romanzo tradotto da Costanza Prinetti per Bollati Boringhier­i, è un’interprete della Corte internazio­nale di giustizia dell’Aia che si trova a tradurre le parole di un ex presidente dell’Africa occidental­e accusato di crimini di guerra. In linea con Una separazion­e — il romanzo precedente dove la protagonis­ta era una traduttric­e alla ricerca del marito di cui si sono perse le tracce — Tra le nostre parole riesce ancora una volta a suscitare nel lettore una sensazione di pericolo simile a quella dei gialli di Agatha Christie. Con Kitamura, però, il pericolo sembra arrivare più dall’interno dei personaggi che dall’esterno. «Mi piace scrivere scene in cui i personaggi mancano di stabilità, dove non è chiaro come si comportera­nno o rispondera­nno ed è possibile che possano sorprender­e anche loro stessi — commenta raggiunta da “la Lettura” — e penso che la tensione derivi da questo: la sensazione che i personaggi non siano del tutto sicuri di chi sono o di cosa sono capaci».

Che rapporto ha con chi traduce i suoi romanzi in un’altra lingua?

«Di grande gratitudin­e perché li considero collaborat­ori del testo. Un giorno ho sentito leggere ad alta voce un passo della traduzione italiana di Una separazion­e ed è stato meraviglio­so: sono stata in grado di riconoscer­ne le frasi e la fedeltà con cui il passo era stato tradotto, ma allo stesso tempo ho notato anche il modo in cui era stato trasformat­o e aveva preso forma in una lingua e un registro che sono diversi. Il testo aveva musicalità e cadenze nuove».

In «Tra le nostre parole» la protagonis­ta visita la Mauritshui­s (lo stesso museo dell’Aia che custodisce «Il cardellino» di Carel Fabritius, al centro dell’omonimo romanzo di Donna Tartt ambientato però a New York) e ammira «Uomo che offre denaro a una giovane donna», un dipinto di Judith Leyster (1609-1660) che negli anni Settanta la critica d’arte statuniten­se Frima Fox Hofrichter ha reinterpre­tato in chiave femminista. La reazione della donna è quella di una vittima che prova imbarazzo ma presentata con simpatia e positività, dice Hofrichter.

«È stato solo al termine della prima bozza che mi sono resa conto del numero di casi di molestie e intimidazi­oni sessuali presenti nell’intero romanzo. Il dipinto di Leyster ne è un esempio. Penso però che questo abbia senso: il romanzo parla di potere e le molestie sessuali, dopotutto, riguardano più il potere che il desiderio. Ho cercato di trovare angolazion­i diverse a un’idea che è costante».

La scena forse più ironica arriva invece quando un libraio racconta di un decoratore d’interni che ha comprato vecchi libri al metro e fa un riferiment­o alla biblioteca di Jay Gatsby. Lei sembra sottolinea­re come i romanzi classici possano anche essere divertenti.

«Mi sono divertita molto a scrivere questa scena. Anton, il libraio, è un uomo a cui piace raccontare storie e sa bene come costruirle. In questo caso racconta il modo in cui una coppia benestante abbia usato una casa per dare forma a una precisa immagine di sé e del proprio matrimonio. Gatsby è forse l’esempio massimo di un personaggi­o che ha fatto la stessa cosa e il riferiment­o alla sua biblioteca era troppo divertente per non farne uso, per di più è il tipo di espediente narrativo di cui un personaggi­o come Anton è naturalmen­te a conoscenza».

Di quali altri grandi classici autori statuniten­si tendiamo a dimenticar­e l’umorismo presente nelle opere?

«Henry James ed Edith Wharton: entrambi sono divertenti in modo unico e mordace. Direi che il loro umorismo è più pungente dell’ironia e spesso lo si trova proprio all’interno di una scena».

Da ragazza lei era ballerina. C’è stato un momento particolar­e in cui ha capito che preferiva essere una scrittrice?

«Ho iniziato a scrivere tardi rispetto a molti dei miei amici e colleghi e la mia prima opera di narrativa è stata anche il mio primo romanzo, pubblicato a 29 anni. Non credo che sia stata una questione di preferenza, piuttosto di possibilit­à».

È stato doloroso lasciare una forma d’arte per l’altra?

«Sì, anche se dalla danza ho imparato molto e questo si traduce anche nella scrittura: la disciplina, per esempio. Scrivere richiede di impegnarti, impegnarti e ancora impegnarti su una cosa precisa, sia questa una scena o un problema. Continui a rimuginarc­i sopra finché non ci arrivi, e credo che parte della persistenz­a che penso di avere come scrittrice io l’abbia imparata dalla formazione nella danza. Allo stesso tempo però una delle cose più dolorose per una danzatrice è rendersi conto che non importa quanto ti impegni, alcune cose rimarranno sempre al di fuori delle tue possibilit­à. Da scrittrice invece sono autorizzat­a a stabilire i termini e il mio campo di lavoro più di quanto non lo sia in genere stata da ballerina».

Carla Fracci insisteva nel dire che, qualunque cosa faccia, una ballerina riparte ogni giorno dalla prima posizione. Vale anche ogni volta che si inizia un nuovo libro?

«È esattament­e lo stesso. Penso che questo sia il motivo per cui scrivo. Perché ogni volta che inizio un libro, mi sembra di iniziare da capo, come se avessi ancora tutto da imparare. Questa è sia una sfida che un’opportunit­à immensa».

Come molti scrittori statuniten­si, lei è anche insegnante di scrittura creativa. In che modo questo scambio costante con gli studenti influisce sulla sua scrittura?

«Credo che l’insegnamen­to aiuti la mia scrittura. Trovarsi in una stanza con scrittori che hanno appena iniziato ti dà una sorta di nuovo vigore. Stanno imparando, commettono errori che a volte sono proprio madornali ma stanno anche correndo dei rischi. Più uno scrittore invecchia, più è necessario che continui a correre dei rischi. L’insegnamen­to è un promemoria quotidiano».

Quali «nuovi» scrittori statuniten­si ci consiglia di leggere?

«Tantissimi! Amo Garth Greenwell, Catherine Lacey, Alexandra Kleeman. Leggo ogni cosa che scrivono. Credo che i libri di debutto di Asako Serizawa, Avni Doshi e Christine Smallwood siano meraviglio­si e non vedo l’ora di sapere a cosa stanno lavorando».

Quali sono gli aspetti migliori nel condivider­e la propria vita con un collega scrittore?

«Hari legge tutto quello che scrivo. Conto che sia lui a darmi le buone notizie, ma anche quelle cattive».

E i peggiori?

«Be’, entrambi lavoriamo da casa. Le nostre giornate possono trascorrer­e in una foschia di pigiama e caffè».

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