Corriere della Sera - La Lettura

Crescere è entrare nella stanza proibita

- di ANTONELLA LATTANZI

Il bandolo della storia

Sta arrivando il Natale del 1996 e le Valli di Lanzo sono coperte da una nevicata senza precedenti. Lì troviamo i protagonis­ti

All’esordio, apprezzati­ssimo, Marco Peano aveva dato conto con intensità della perdita della madre. Nel suo secondo romanzo lambisce i territori dell’horror metafisico e affronta la costruzion­e di sé, anche questo un trauma durissimo

«Ormai era chiaro a entrambi che diventare grandi significa imparare a dire addio». Nel 2015, Marco Peano (Torino, 1979), scrittore e editor di narrativa italiana, ha pubblicato il suo primo romanzo, L’invenzione della madre (minimum fax, 2015, Premio Volponi Opera prima). Un doloroso, mai gratuito, mai indulgente nella rappresent­azione della sofferenza, romanzo sulla morte di una madre. Una madre che nasce in qualche modo mentre muore, e nasce sotto forma di una parola mai pronunciat­a fino alla fine del romanzo: mamma.

Quel primo romanzo riusciva a raccontare attraverso il supporto, l’aiuto della lingua — intesa proprio come mezzo che aiuta a trovare un senso, prima ancora che come insieme di parole — il momento più buio della vita di ognuno. Riusciva perfino a essere un libro di speranza. Oggi, Peano torna col suo secondo romanzo, Morsi, distante in tutto dal suo primo soltanto all’apparenza. Anche questo romanzo racconta cosa vuol dire diventare grandi: imparare a dire addio, imparare che siamo altro dalla somma dei nostri genitori. Imparare la solitudine, e che gli adulti non solo non hanno tutte le risposte, ma forse neanche una. Ancora una volta, Peano lo fa con due strumenti potentissi­mi: la lingua — la letteratur­a, dunque — e una forma mai enfatica, mai definibile davvero, di speranza.

Sta arrivando il Natale del 1996. Una nevicata senza precedenti ricopre le Valli di Lanzo, in Piemonte. Sonia, in bilico sul confine che separa l’infanzia dall’adolescenz­a, ha già scoperto che la vita non è facile. Suo padre è un alcolizzat­o che perde un lavoro dopo l’altro, sua madre la chiama «scimmietta», le sorride sempre e cerca in tutti i modi di essere una buona madre nell’inferno in cui è costretta a permanere; ma non ci riesce sempre, anzi: è più un’ombra, un sogno che una persona vera. Sonia vive per lunghi periodi con la nonna, una donna scontrosa, misteriosa, che, anche se si prende cura di lei, non sa cosa voglia dire un gesto d’affetto, una vicinanza.

A parte la sua amica Katia, che però per Natale è tornata a Napoli, da dove viene la sua famiglia, Sonia è sola. Sogna di rivedere i genitori e, nonostante ami le Valli di Lanzo, non ne può più di vivere con sua nonna. Una donna dai confini grezzi, che in più nasconde certamente un segreto. C’è una stanza, in casa sua, inaccessib­ile. La gente del posto, ferma a cinquant’anni prima, vocifera che sia una guaritrice. Ma c’è qualcosa di più? Cosa si nasconde dietro la porta chiusa a chiave della nonna? Sonia è una ragazzina e vuole assolutame­nte saperlo.

C’è un terzo «Perdente» in questo romanzo — il Club dei Perdenti è come Stephen King chiama i ragazzini protagonis­ti del suo capolavoro, It — oltre Sonia e Katia (continuame­nte presa in giro per le origini meridional­i e gli occhiali da talpa): è Teo, figlio dei Savant, che hanno una cascina dove vendono latticini e salumi fatti in casa. Teo, grassoccio e impacciato, quasi incapace di parlare in italiano — il dialetto è la sua lingua, mentre quella di Sonia è l’italiano — sempre impregnato dell’odore degli animali che popolano casa sua. Il primo Perdente, Katia, esce subito di scena quando torna al Sud per le vacanze. Rimangono Sonia e Teo, che sono in un certo senso costretti a fare amicizia. Anche perché, mentre le Valli si svuotano per le feste, a Lanzo c’è qualcosa che non va. Poco prima della chiusura delle scuole, la professore­ssa Cardone è incorsa in quello che, in giro, qui chiamano tutti «l’incidente». Un eufemismo come un altro per nominare quello che nessuno vuole ricordare né rivelare ai bambini.

Ma Teo sa tutto. Lo racconta a Sonia. Non molto tempo prima che Sonia, durante un’assenza della nonna, sbirci nella sua stanza segreta e venga punita con una lunga segregazio­ne. Quando riuscirà, rocamboles­camente, a evadere dalla sua prigione, il mondo che Sonia troverà non sarà davvero il mondo: quanto piuttosto la fine del mondo. O la fine del loro mondo: il mondo di Sonia, di Teo, e degli abitanti delle valli.

C’è qualcosa di oscuro a Lanzo. Ma cos’è davvero? Qualcosa di sovrannatu­rale, un’infezione che ha colpito tutti gli adulti o piuttosto, soltanto, la cosa più orrorifica del mondo: la fine dell’infanzia?

Non vogliamo raccontare altro della trama di un romanzo caldissimo nel gelo della nevicata del ’96, intessuto con la morte e con i primi baci, con la richiesta d’amore incondizio­nato che un figlio fa sempre al genitore, senza contare che quel genitore è un uomo, è una donna, e non sempre riesce a venire a capo nemmeno di sé stesso. Un romanzo che si fonda sul potere delle parole — quelle che pronunci, quelle che non pronunci, quelle che non vuoi pronunciar­e perché neanche tu vuoi davvero sapere la verità, quelle che senti nella testa ma, fino a quando non cresci, non capisci —, sulle orme dei piedi e delle mani nella neve, sul coraggio — la cosa che non sai cos’è finché non sei costretto a usarla —, sull’affacciars­i nel corpo e nella mente della sessualità e dello smarriment­o. Un romanzo che cavalca il senso vero di ogni grande horror: sempliceme­nte, raccontare la realtà. Che schiva i generi come un rugbista gli avversari e che di ogni genere sa cosa prendere, cosa conservare, e cosa non gli serve. Un romanzo sull’invenzione della madre, del padre, dell’amore, ma pure di sé stessi.

«Il primo romanzo sarebbe meglio non averlo mai scritto», quante volte abbiamo riletto e ricopiato questa frase di Italo Calvino. Perché dal primo romanzo non possiamo mai prescinder­e. A volte è un male: il primo romanzo giganteggi­a su di te e proietta la sua ombra scura sui tuoi lavori successivi. Qui Peano riesce invece in uno scarto narrativo che crea un mondo e una lingua completame­nte alternativ­i al suo primo libro, scrivendo un romanzo che omaggia King, Shirley Jackson, Niccolò Ammaniti, ma che è capace di costruire un universo tutto suo; e un modo per dirlo. «Adesso però, ancora per poco, sono due ragazzini. Perlomeno nell’aspetto. Insieme hanno vissuto la più crudele delle esperienze. Il verbo del cambiament­o, spietato e necessario, è sceso su di loro come una benedizion­e: crescere».

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