Corriere della Sera - La Lettura
Lasecondastagione dell’ardenteGracePaley
Come autrice di racconti (pochi) è stata una fuoriclasse. Poi, dopo una lunga pausa, si è dedicata ai versi, una produzione ugualmente parca e ugualmente efficace. Ma le due fasi creative condividono la passione per l’umanità
La presenza di Grace Paley nella letteratura statunitense è legata a poco più di quaranta racconti, che l’hanno consacrata, tanto più tra il pubblico dei conoscitori, tra i maestri nell’arte della short story.
Sono stati tanti e soprattutto autorevoli, in tal senso, i riconoscimenti della qualità di questa scrittrice (da parte di Philip Roth, ad esempio), al punto che la si può considerare una sorta di anello di congiunzione tra due scrittori del calibro di Ernest Hemingway e Raymond Carver.
Un po’ meno nota è invece la sua attività poetica, anche questa molto parca (una quarantina di poesie in tutto) ma sempre autenticamente necessitata e pregevole. In ogni caso, colpisce come la sua opera sia divisa nettamente in due: prima i racconti, scritti tra gli anni Cinquanta e la metà degli Ottanta, poi la poesia, a cui si è dedicata negli anni più tardi dopo un periodo non breve di lontananza dalla scrittura creativa. Da questo punto di vista fanno fede anche i suoi estremi. I racconti infatti sono profondamente radicati a New York (nel Bronx, più di preciso), la New York popolare, viva di razze e lingue diverse dov’era nata, in una famiglia di ebrei ucraini, nel 1922. Le poesie, scritte ormai nella vecchiezza, presuppongono invece tutt’attorno la campagna, i boschi e gli autunni mirabili del Vermont, e in particolare di Thetford, il villaggio in cui la scrittrice era passata a vivere assieme al marito nel corso degli anni Novanta, e dove è mancata nel 2007.
Tutte le poesie di Grace Paley si trovano ora raccolte nel volume Volevo fare una poesia, invece ho fatto una torta
(Sur), nella traduzione di Paolo Cognetti e Isabella Zani. Nella sua prefazione lo stesso Cognetti offre i principali ragguagli del percorso esistenziale e artistico dell’autrice americana, in particolare riguardo al rapporto tra la scrittura e la diretta militanza politica e sociale. Paley è stata in effetti quel che si dice una scrittrice civilmente impegnata, una protagonista della controcultura newyorkese che ha costantemente avuto nel proprio mirino il militarismo, la discriminazione razziale e quella sessuale, nei confronti delle donne anzitutto; ma poi anche l’avidità, la mancanza di idee, di coscienza politica, di partecipazione comunitaria, di prese di posizione forti e consapevoli. Da questo punto di vista era dotata di uno spiccato senso pratico e organizzativo, che l’ha sostanzialmente preservata da astrazioni ideologiche e discorsi a vuoto. Si può leggere subito una poesia come
C’è differenza tra uomini e donne? per farsi un’idea di quali fossero le sue urgenze più scottanti. Per un temperamento simile la letteratura non poteva certo consistere in un rifugio o in un mondo a parte. Al contrario, l’esercizio della scrittura risulta sempre subordinato alle necessità dell’esistenza, pubblica o privata senza particolari differenze. Anche per questo ha scritto così poco: l’impegno diretto nella e per la vita aveva comunque la precedenza sulle pur amate parole.
Lo stesso titolo del volume, che è derivato dall’attacco di una poesia e che può risultare forse un po’ equivoco, in realtà rimanda con garbo e ironia proprio al primato dell’azione diretta e del pronto intervento pratico rispetto ai procedimenti più a lungo termine della creazione poetica. Ma come parla, da quale necessità è mossa questa donna che negli ultimi anni della sua vita ha cominciato a scrivere poesie con una personalità e un’autorevolezza che non possono non colpire, tanto più pensando che si tratta comunque di una principiante nell’arte del verso? Diciamo allora che la scrittrice non è passata da New York alle campagne del Vermont e al tepore del focolare domestico per allontanarsi dalla storia e dal consorzio umano. Non si deve affatto pensare a una fuga o a un rigetto dell’impegno in favore di qualche forma d’acquiescenza o di contemplazione.
La città, o meglio la società e i rapporti interpersonali, con tutto il corredo di difficoltà, di travaglio, di sofferenza che spesso si portano dietro, in queste poesie tornano anzi di continuo. Solo che adesso il discorso su sé stessi e sugli altri, sul proprio retaggio e sullo stato presente delle cose, viene svolto come prima non poteva essere al cospetto della natura e della vecchiaia. «Muoio vecchia/ da sciocca appassionata», scrive. E di fatto la sua voce risulta qui ancora estremamente interessata e partecipe, colma di presenza di spirito e d’intelligenza delle cose.
Le complesse vicissitudini umane al cospetto della natura, dunque. Eppure Grace Paley non vuole essere una poetessa della natura, del paesaggio, dell’idillio, della bellezza, della poesia fini a sé stesse. Non vuole o non può, in sostanza, mettersi il cuore davvero in pace se per donne e uomini pace ancora non c’è. «La parola stormire/ è una parola meravigliosa/ ho tentato di usarla/ ma non ci sono riuscita», confessa. «Adesso vivo tra gli alberi le fronde/ i rametti e le foglie», aggiunge, «ma la parola stormire mi è arrivata troppo tardi». Come a dire che la strada della redenzione poetica non sarà la sua; e viceversa che le contraddizioni e le ambiguità del cuore umano, la fragilità, la malattia, il destino di deperimento dei corpi mortali, a cominciare dal suo, non sono affatto dimenticati.
In una poesia intitolata significativamente Lettura dei giornali all’edicola del paese, le «colline» e il «diligente sole quotidiano» deridono il suo «pessimismo». E davvero è difficile immaginare una militanza civile e comunitaria così appassionata ma insieme altrettanto scettica riguardo alla comune sorte umana. Detto nel modo più semplice, riguardo alla capacità di volgere al bene, che non può che essere concepito appunto in comune, la nostra mente e le nostre azioni. Sono tante qui le immagini, i richiami, i ricordi, si tratti di New York o dell’antica memoria russa filtrata dalla famiglia, che rimandano all’altissimo tasso di conflittualità, di violenza e di prevaricazione che contraddistinguono la nostra specie. È qui che la natura può fare da guida, offrire l’indicazione di un accordo e di una sintonia comunque possibili. Cognetti parla a ragione del «sogno secondo cui a dettare il nostro vivere sulla terra potrebbe essere non la competizione ma la cooperazione», come accade nei «sistemi evoluti» appunto del mondo naturale.
Un’utopia, certo, ma toccata con mano se le ultime poesie del libro dicono tutte di una benevolenza verso sé stessi e gli altri, di una comprensione profonda di come va, o comunque dovrebbe andare il mondo: è «la legge naturale come anche un bambino/ capirebbe della luna dell’amore della notte».