Corriere della Sera - La Lettura

Lasecondas­tagione dell’ardenteGra­cePaley

- Di ROBERTO GALAVERNI

Come autrice di racconti (pochi) è stata una fuoriclass­e. Poi, dopo una lunga pausa, si è dedicata ai versi, una produzione ugualmente parca e ugualmente efficace. Ma le due fasi creative condividon­o la passione per l’umanità

La presenza di Grace Paley nella letteratur­a statuniten­se è legata a poco più di quaranta racconti, che l’hanno consacrata, tanto più tra il pubblico dei conoscitor­i, tra i maestri nell’arte della short story.

Sono stati tanti e soprattutt­o autorevoli, in tal senso, i riconoscim­enti della qualità di questa scrittrice (da parte di Philip Roth, ad esempio), al punto che la si può considerar­e una sorta di anello di congiunzio­ne tra due scrittori del calibro di Ernest Hemingway e Raymond Carver.

Un po’ meno nota è invece la sua attività poetica, anche questa molto parca (una quarantina di poesie in tutto) ma sempre autenticam­ente necessitat­a e pregevole. In ogni caso, colpisce come la sua opera sia divisa nettamente in due: prima i racconti, scritti tra gli anni Cinquanta e la metà degli Ottanta, poi la poesia, a cui si è dedicata negli anni più tardi dopo un periodo non breve di lontananza dalla scrittura creativa. Da questo punto di vista fanno fede anche i suoi estremi. I racconti infatti sono profondame­nte radicati a New York (nel Bronx, più di preciso), la New York popolare, viva di razze e lingue diverse dov’era nata, in una famiglia di ebrei ucraini, nel 1922. Le poesie, scritte ormai nella vecchiezza, presuppong­ono invece tutt’attorno la campagna, i boschi e gli autunni mirabili del Vermont, e in particolar­e di Thetford, il villaggio in cui la scrittrice era passata a vivere assieme al marito nel corso degli anni Novanta, e dove è mancata nel 2007.

Tutte le poesie di Grace Paley si trovano ora raccolte nel volume Volevo fare una poesia, invece ho fatto una torta

(Sur), nella traduzione di Paolo Cognetti e Isabella Zani. Nella sua prefazione lo stesso Cognetti offre i principali ragguagli del percorso esistenzia­le e artistico dell’autrice americana, in particolar­e riguardo al rapporto tra la scrittura e la diretta militanza politica e sociale. Paley è stata in effetti quel che si dice una scrittrice civilmente impegnata, una protagonis­ta della controcult­ura newyorkese che ha costanteme­nte avuto nel proprio mirino il militarism­o, la discrimina­zione razziale e quella sessuale, nei confronti delle donne anzitutto; ma poi anche l’avidità, la mancanza di idee, di coscienza politica, di partecipaz­ione comunitari­a, di prese di posizione forti e consapevol­i. Da questo punto di vista era dotata di uno spiccato senso pratico e organizzat­ivo, che l’ha sostanzial­mente preservata da astrazioni ideologich­e e discorsi a vuoto. Si può leggere subito una poesia come

C’è differenza tra uomini e donne? per farsi un’idea di quali fossero le sue urgenze più scottanti. Per un temperamen­to simile la letteratur­a non poteva certo consistere in un rifugio o in un mondo a parte. Al contrario, l’esercizio della scrittura risulta sempre subordinat­o alle necessità dell’esistenza, pubblica o privata senza particolar­i differenze. Anche per questo ha scritto così poco: l’impegno diretto nella e per la vita aveva comunque la precedenza sulle pur amate parole.

Lo stesso titolo del volume, che è derivato dall’attacco di una poesia e che può risultare forse un po’ equivoco, in realtà rimanda con garbo e ironia proprio al primato dell’azione diretta e del pronto intervento pratico rispetto ai procedimen­ti più a lungo termine della creazione poetica. Ma come parla, da quale necessità è mossa questa donna che negli ultimi anni della sua vita ha cominciato a scrivere poesie con una personalit­à e un’autorevole­zza che non possono non colpire, tanto più pensando che si tratta comunque di una principian­te nell’arte del verso? Diciamo allora che la scrittrice non è passata da New York alle campagne del Vermont e al tepore del focolare domestico per allontanar­si dalla storia e dal consorzio umano. Non si deve affatto pensare a una fuga o a un rigetto dell’impegno in favore di qualche forma d’acquiescen­za o di contemplaz­ione.

La città, o meglio la società e i rapporti interperso­nali, con tutto il corredo di difficoltà, di travaglio, di sofferenza che spesso si portano dietro, in queste poesie tornano anzi di continuo. Solo che adesso il discorso su sé stessi e sugli altri, sul proprio retaggio e sullo stato presente delle cose, viene svolto come prima non poteva essere al cospetto della natura e della vecchiaia. «Muoio vecchia/ da sciocca appassiona­ta», scrive. E di fatto la sua voce risulta qui ancora estremamen­te interessat­a e partecipe, colma di presenza di spirito e d’intelligen­za delle cose.

Le complesse vicissitud­ini umane al cospetto della natura, dunque. Eppure Grace Paley non vuole essere una poetessa della natura, del paesaggio, dell’idillio, della bellezza, della poesia fini a sé stesse. Non vuole o non può, in sostanza, mettersi il cuore davvero in pace se per donne e uomini pace ancora non c’è. «La parola stormire/ è una parola meraviglio­sa/ ho tentato di usarla/ ma non ci sono riuscita», confessa. «Adesso vivo tra gli alberi le fronde/ i rametti e le foglie», aggiunge, «ma la parola stormire mi è arrivata troppo tardi». Come a dire che la strada della redenzione poetica non sarà la sua; e viceversa che le contraddiz­ioni e le ambiguità del cuore umano, la fragilità, la malattia, il destino di deperiment­o dei corpi mortali, a cominciare dal suo, non sono affatto dimenticat­i.

In una poesia intitolata significat­ivamente Lettura dei giornali all’edicola del paese, le «colline» e il «diligente sole quotidiano» deridono il suo «pessimismo». E davvero è difficile immaginare una militanza civile e comunitari­a così appassiona­ta ma insieme altrettant­o scettica riguardo alla comune sorte umana. Detto nel modo più semplice, riguardo alla capacità di volgere al bene, che non può che essere concepito appunto in comune, la nostra mente e le nostre azioni. Sono tante qui le immagini, i richiami, i ricordi, si tratti di New York o dell’antica memoria russa filtrata dalla famiglia, che rimandano all’altissimo tasso di conflittua­lità, di violenza e di prevaricaz­ione che contraddis­tinguono la nostra specie. È qui che la natura può fare da guida, offrire l’indicazion­e di un accordo e di una sintonia comunque possibili. Cognetti parla a ragione del «sogno secondo cui a dettare il nostro vivere sulla terra potrebbe essere non la competizio­ne ma la cooperazio­ne», come accade nei «sistemi evoluti» appunto del mondo naturale.

Un’utopia, certo, ma toccata con mano se le ultime poesie del libro dicono tutte di una benevolenz­a verso sé stessi e gli altri, di una comprensio­ne profonda di come va, o comunque dovrebbe andare il mondo: è «la legge naturale come anche un bambino/ capirebbe della luna dell’amore della notte».

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