Corriere della Sera - La Lettura
I ritratti di Moroni, quasi fotografie
Più realista del re, Giovan Battista Moroni distribuisce drappeggi. Al lavoro sulla pala d’altare della parrocchiale di Gorlago, procede: via le nudità dal suo Giudizio universale. Anche nella campagna bergamasca era infatti giunta nitida l’eco delle tribolazioni romane: dal Concilio di Trento, nel 1564, era uscita la censura del capolavoro di Michelangelo a cui il pittore nativo della Val Seriana si stava ispirando. Nella Sistina si erano alzati i ponteggi e Daniele da Volterra, da allora il Braghettone, aveva ritoccato le figure più scandalose. Moroni si adegua ai modelli, ma non del tutto: constatato che nell’originale i risorti sono nella stragrande maggioranza maschi, ritaglia profili femminili ristabilendo un equilibrio controcorrente. L’opera, cesellata in molti anni, resterà incompiuta: «La Confraternita del Corpo di Cristo interrompe i pagamenti nel 1579. L’artista, nato intorno al 1521, era morto all’improvviso», racconta lo studioso Simone Facchinetti. «A quel punto i ricchi committenti chiamano Gian Francesco Terzi a concludere l’incarico, passaggio che ci dice molto del clima del tempo: se Moroni è to i registri della Confraternita». Documenti che postdatano di circa un anno la morte del pittore (si pensava fosse avvenuta nel 1578) ampliandone l’attività. Curatore delle più recenti retrospettive dedicate all’artista (Bergamo, 2004; Londra, 2014; New York, 2019), il ricercatore si muove tra biografia, critica, scienza e cronaca.
Moroni è allievo e primo aiutante del Moretto da Brescia: pur cimentandosi con temi sacri, primeggia nel ritratto senza ritocco, quasi fotografico. «La sua sfortuna critica in vita sta qui. La categoria ritrattistica nel secondo Cinquecento occupava uno dei gradini più bassi nella gerarchia dei generi. Quella “naturale” stava addiritin un limbo indistinto: non esaltava le virtù dei soggetti, dunque non era ritenuta degna di nota».
Attivo per tutta la vita in Lombardia, tra la sua Bergamo e Brescia, con una parentesi a Trento, Moroni è totalmente ignorato da storiografi come Giorgio Vasari. Eppure mentre la critica snobba, la moda decolla. «Sempre più persone chiedevano ritratti per matrimoni o ricordi familiari». Il campo è redditizio e Moroni sa cogliere i suoi conterranei, anche di basso ceto, come nessuno prima. Se ne accorge, nel XVII secolo, Marco Boschini, indagatore di arte veneta, che descrive Il sarto (oggi alla National Gallery di Londra): «Quel Moron, quel Bergamasco/ per esser gran pittor bravo e valente/ El vogio nominar seguramente/ che de bona nomea l’ha pieno el tasco;/ Ghè dei ritrat, ma in particolar/ quel d’un sarto sì belo, e sì ben fato/ che ’l parla più de qual si sa Avocato». Tanto bello che l’immagine parla meglio di un avvocato. È però Roberto Longhi, nel 1911, a incoronare il pittore, mettendolo alla guida di una tradizione naturalistica lombarda che anticipa di un secolo Caravaggio. I volti di Moroni, annota poi, «sono veri e semplici, da comunicarci la certezza di averne conosciuto i modelli». Il bergamasco non disegna: le sue tavole nascono a colori, in presa diretta.