Corriere della Sera - La Lettura
Ma il performer cerca solo l’originalità
La via di Giorgio Strehler, poi quella del «Caligola» (era di Camus o piuttosto di Carmelo Bene?). E oggi che cosa resta?
Luca De Fusco ha ricordato su «la Lettura» della scorsa settimana che il regista nacque come mediatore: era necessario che l’attore non invadesse il palcoscenico, che ogni singolo attore non facesse di testa sua. Probabilmente la nascita della regia all’inizio del Novecento (Stanislavskij, Mejerchol’d) è più complessa: meno analizzabile nei suoi singoli moventi e nelle intenzioni generali. La questione di fondo è: quale il rapporto tra testo, inteso come punto di partenza, e messa in scena, realizzazione dello spettacolo, insomma regia?
Anche se prima ve ne furono cospicui segnali, in Italia poniamo la nascita della regia con il lavoro di Giorgio Strehler. Siamo nel 1947. Ma già nel 1959 ecco Carmelo Bene, ecco un teatro pensato, vissuto e realizzato in tutto diverso modo. Rispetto al passato quale fu il contributo di Strehler? Nella prima metà del Novecento sarebbe stato difficile trovare un punto di vista sul testo messo in scena. Strehler un punto di vista lo aveva nella scelta del drammaturgo e della sua singola opera (Gor’kij, Goldoni) e nello stesso tempo nel come leggerli, quell’autore e quell’opera. Lo spettacolo che lo spettatore vide divenne L’albergo dei poveri, non tanto di Maksim Gor’kij quanto di Giorgio Strehler: il regista non si limitava a coordinare il lavoro degli attori, creava l’angolatura da cui leggere il testo. Poi quell’angolatura andò diventando più stretta, o più ampia: fino al punto che alla scelta del dramma si sarebbe fatto caso fino a un certo punto. Resta il dato che alcuni registi, senza tradire il testo, senza trascurarlo, si affermarono come artisti veri e propri, veri e propri autori, pur rimanendo fedeli alla materia (al contenuto) dell’opera prescelta: fedeli, cioè in qualche modo obiettivi. Penso ad Aldo Trionfo, a Giancarlo Cobelli, a Roberto Guicciardini, a Mario Missiroli, massimamente a Massimo Castri. Qualunque scelta effettuassero, si riconosceva il loro peculiare discorso, la loro operazione era un’opera, il loro lavoro era poesia.
In questo breve elenco non cito Luca Ronconi, il cui talento inventivo (fantastico) si affermò nei primi anni della sua storia (Orlando furioso, La tragedia del
vendicatore, L’anitra selvatica), più tardi stemperandosi con l’abbondanza e l’eterogeneità nella scelta dei testi. Ronconi, questa è la verità, non ebbe mai una sua poetica. Una poetica potente, dirompente, la ebbe subito Carmelo Bene. Il Caligola di Camus era un’opera dello scrittore francese o un’opera del suo interprete? Interprete diventa una parola chiave: vale «autore», in ciò distinguendosi dai grandi attori dei decen
ni precedenti — con le medesime ragioni dei registi che al testo rimanevano fedeli «a modo loro». Carmelo Bene si comportava come Memo Benassi, da «grande attore», tuttavia ben diverso da lui a causa di un’idea messa in gioco nell’interpretazione dell’opera citata nella locandina dello spettacolo.
È a questo punto, all’inizio degli anni Settanta, che nei quotidiani e nelle riviste di settore si accese un proficuo dibattito su cosa il teatro stesse diventando. Ricordo il contributo teorico, ma anche pratico, organizzativo, che venne da Torino, da Giuseppe Bartolucci. Il nuovo teatro non era più il testo e la sua messa in scena; era, o poteva essere, niente altro che la messa in scena, la «scrittura scenica». Testo scritto e non scritto, recitazione, scenografia, musica — un corpo unico. In tale prospettiva la conseguenza è che il testo scritto divenne un oggetto diverso da quello che si credeva: divenne un oggetto potenziale. La divisione tra i due estremi si andò attenuando. I registi che rimanevano fedeli al testo (sempre a modo loro) aumentarono. Gli «altri», i
performer — quelli che avevano prima di tutto sintetizzato, cioè ridotto la durata degli spettacoli a causa della concorrenza sul tempo operata dal cinema — videro crescere le difficoltà del loro lavoro fino agli estremi di oggi, quando a fare concorrenza al cinema è la velocità delle piattaforme.
Resta il problema, da una parte e dall’altra, di una crescente ricerca non di un punto di vista poetico ma di una qualche originalità, di un caso unico, un caso speciale. Non è più questione, come scriveva Sandro De Feo recensendo nel 1957 La signorina Giulia di Visconti, se Strindberg sia naturalista o scrittore di una «logica superiore, di una superiore economia, di una rapinosa fatalità». La questione è la sopravvivenza: essa, nel declino del teatro di regia, si manifesta come intrattenimento o come lampo di arguzia — che non lascia segno, breve o lungo che sia.