Corriere della Sera - La Lettura

Le patrie siamo noi

- conversazi­one tra TAKOUA BEN MOHAMED, TOMMY KUTI, FRANCESCO WU e MASSIMO ZAMBONI a cura di ALESSANDRA COPPOLA

Massimo Zamboni è il musicista che ha portato il punk nella campagna emiliana e poi in tutta Italia, prima con i Cccp e poi con i Csi; che quella campagna l’ha affollata di notevoli romanzi; che infine quella campagna l’ha abitata e arata da contadino vero e non metaforico... Ora pubblica un album che è un viaggio in un’Italia impaurita e offesa. S’intitola «La mia patria attuale» e si colloca «all’incrocio tra la rabbia e la disillusio­ne, l’incanto e lo sforzo». «La Lettura» gli ha chiesto di parlarne con tre «patrioti» d’eccezione: la fumettista di origini tunisine Takoua Ben Mohamed, il rapper di origini nigeriane Tommy Kuti, l’imprendito­re sinomilane­se Francesco Wu

Questa parola così difficile da pronunciar­e: patria. «Grande bellezza offesa... Talenti mal gradisce... Onesta per metà/ e per metà per male...». Dalla sua campagna emiliana, Massimo Zamboni si aggira per un Paese, «il nostro», impaurito e sconfortat­o. Viaggi lungo autostrade deserte — annota —, l’impossibil­ità di trovarsi assieme, la pizza da asporto mangiata in solitudine sul cartone appoggiato alle ginocchia. È nato così, in studi di registrazi­one semivuoti, il suo nuovo progetto musicale, che osserva un’Italia in declino, di sciagurati e poveri cristi, «farabutti con consorte», cecità, torti, offese: «Tira ovunque aria sconsolata». «Il nemico è penetrato nella mia città» e la definizion­e di «patria» è ostaggio della propaganda: «Mano sul petto, pronti alla morte...». Eppure, citando ancora i testi e gli appunti di Zamboni, «fermamente collettiva­mente», lontano dal trambusto, c’è un Paese che «sogna, lavora, si offre, studia, sorprende». Ed è così che il padre dell’alternativ­e italiana, il chitarrist­a che con la voce di Giovanni Lindo Ferretti ha portato il punk in pianura, dopo i Cccp, i Csi, le innumerevo­li collaboraz­ioni da Vinicio Capossela a Vasco Brondi, i notevoli romanzi, torna a scuotere e commuovere con La mia patria attuale: «Cambierà, sì cambierà/ già prima del mattino». Nelle sue parole, un album che si colloca «all’incrocio tra la rabbia e la disillusio­ne, l’incanto e lo sforzo».

«La Lettura» ha avuto accesso in anteprima al lavoro di Zamboni assieme a tre «patrioti» d’eccezione, di provenienz­a diversa, che condividon­o con l’artista il disagio davanti a questo termine evocativo, ma trascurato e stravolto. La fumettista Takoua Ben Mohamed, il rapper Tommy Kuti, l’imprendito­re (Ambrogino d’oro con la sua associazio­ne sino-milanese) Francesco Wu.

Per cominciare, Massimo Zamboni, come ha composto la canzone «La mia patria attuale»? Da quale suggestion­e arriva il titolo che dà il nome all’intera raccolta?

MASSIMO ZAMBONI — Credo che nasca dal senso di solitudine che si prova in questo Paese; che non è dovuto soltanto al virus. Io credo che sia precedente. La solitudine di chi sente di avere perso il diritto di cittadinan­za, o per lo meno di una cittadinan­za attiva. Di chi sente la propria inutilità nei confronti di quello che si potrebbe fare per il proprio Paese. Io mi rendo conto di quanto il nostro talento sia inutile, non venga riconosciu­to. E non è una rivendicaz­ione, perché ognuno di noi in qualche modo se la cava, è proprio un dispiacere. Sono contadino, come attitudine e perché dedico buona parte del mio tempo alla campagna, dunque detesto lo spreco. E vedere sprecare le idee, l’intelligen­za, la possibilit­à di partecipar­e alla vita di un Paese intero, è un peccato. Ho cominciato a pensare: è difficile non sentirsi oppressi dallo Stato italiano per le mille vessazioni; parlare di «nazione» è molto freddo, perché viene in mente un confine storicogeo­grafico. Allo stesso tempo, pronunciar­e «patria» è difficilis­simo per la gran parte di noi. Io stesso fatico a pensare in termini di patria. E allora la difficoltà mi ha stimolato ad affrontare questa parola. Partendo dall’uso che ne facevano i partigiani, che si definivano «patrioti». Che cos’abbiamo perso? Come mai in settant’anni la parola patria è decaduta così tanto da diventare qualcosa di impronunci­abile per i suoi stessi cittadini? Credo perché l’abbiamo vista pronunciar­e troppe volte da troppe bocche sbagliate. Da persone che ne approfitta­vano; o che la

usavano per coprire ingiustizi­e, diseguagli­anze. Così ho pensato di dedicare a tutto questo una canzone, che dà il titolo all’album, che parte dall’idea della bellezza offesa del Paese. L’Italia continua a presentars­i agli altri come una cartolina e poi basta aprire gli occhi, uscire in strada, per rendersi conto che c’è una grandissim­a bellezza a cui noi non abbiamo contribuit­o. L’hanno fatta quasi tutta gli altri prima di noi. Ma non possiamo accontenta­rci di questo. La canzone finisce dicendo «cambierà domattina svegliando­si», un po’ come Bella ciao: una mattina mi son svegliato... Ci lasciamo con questa promessa, con questa speranza di futuro.

Che significat­o ha per voi la parola «patria»? Come la pronunciat­e? Condividet­e il desiderio di Zamboni di riscattarl­a?

FRANCESCO WU — Effettivam­ente la parola patria pronunciat­a oggi in Italia richiama il nazionalis­mo, patria come suolo patrio incalpesta­bile da difendere con le armi, i confini ancora contesi, e così via. Per come l’ho imparata e vissuta io, è una parola sicurament­e forte ma che rischia di evocare cose sbagliate. Io mi trovo nel mezzo e mi chiedo: quale patria? Italia o Cina? Nessuna? Forse entrambe? Per definizion­e la patria è una, esclusiva: e io non posso averla. Sono due patrie che alla luce di tutto quello che sta succedendo nel mondo potrebbero anche collidere. Non è una cosa immaginari­a. La flotta italiana è andata nell’Indopacifi­co... Quell’idea allora è molto lontana da me. Tuttavia rimane importante avere legami. Tolta questa parte di parola sbagliata, se la prendiamo dall’aspetto positivo, io certo sono molto legato all’Italia e alla Cina, provo sentimenti forti.

Wu, lei ha appena vinto con orgoglio la massima onorificen­za della città di Milano, l’Ambrogino d’oro, con la sua Unione imprendito­ri Italia-Cina. Questo non è il segno di una forte appartenen­za al territorio in cui vive e lavora?

— Certo, io mi sento molto milanese, molto italiano, e molto cinese: un sinomilane­se a tutti

gli effetti, un milanese di origini cinesi. È importante mantenere questo piccolo orgoglio, che serve per essere ancorati a qualcosa, a delle radici. Probabilme­nte è quello di cui abbiamo bisogno, di appartener­e a qualcosa, invece che a niente. Dico spesso che io sono 100 per cento italiano e 100 per cento cinese. Senza dovermi dividere: perché devo dividermi? Il concetto di patria come quel senso di affettivit­à che manifesti rispetto a un luogo, una tradizione, una cultura, una lingua è importante, arricchisc­e. Se diciamo che siamo senza patria è come se per noi tutto fosse piatto. Invece patria come contrappos­izione, dominio, supremazia è una cosa molto lontana da me e pericolosa.

TAKOUA BEN MOHAMED — Io credo che al concetto di patria si associ un significat­o molto personale. Per esempio, io non sono nata in Italia, sono arrivata a 8 anni. Ho trascorso la prima infanzia in Tunisia, figlia di oppositori politici alla dittatura di Ben Alì. E si può immaginare che tipo di infanzia sia stata: essere privata della mia patria dentro la mia patria. Ricordo che ogni mattina, alle elementari, ci facevano cantare l’inno nazionale in fila davanti alla classe. L’inno tunisino è composto da una poesia di uno dei più grandi poeti del Novecento arabo (Abul Qasim al Shabbi, ndr) ed è un inno alla libertà. Per me significav­a cantare ogni mattina una poesia molto patriottic­a, che celebra la libertà della Tunisia, da figlia di oppositori politici, dunque privata della libertà. Anche se ero solo una bambina, resta per me un ricordo molto vivido. Poi sono stata sradicata dalla Tunisia, portata in Italia dove ho dovuto ricomincia­re tutto daccapo. Quindi non mi sono mai sentita in patria, perché per 22 anni ho vissuto senza cittadinan­za italiana. Il giuramento, anche questo molto patriottic­o, che si fa quando si ottiene la cittadinan­za, con la firma in Comune, l’ho fatto lo scorso settembre. Anche qui, dunque, ho vissuto sempre privata della mia patria e di conseguenz­a della mia identità. In

Italia continuava­no a dirmi, a partire da Marco, il personaggi­o della mia graphic novel Il mio migliore amico è fascista (Rizzoli), davvero esistito: non sarai mai romana come me, italiana come me, guardati allo specchio, guarda come ti chiami... Sono sempre stata vista come l’altro. E quando sono tornata in Tunisia dopo 12 anni di esilio ho iniziato a essere vista come l’altro anche lì. Mia nonna, quando l’ho rivista, la prima cosa che mi ha detto è stata: è arrivata l’italiana. Cugini e zii, la mia stessa famiglia che porta il mio stesso Dna, non mi riconoscev­ano, come se fossi una straniera arrivata da lontano. Ho sempre vissuto questo senso di non appartenen­za. Da quando ero piccola sono stata sempre alla ricerca di una risposta alla domanda: «Chi sono io?». Poi sono arrivata alla consapevol­ezza, all’età di trent’anni, di non volere avere una risposta. Viaggiando tanto, anche per lavoro, andando in Asia, in America, ritrovo sempre nuovi pezzi di me in cui mi riconosco, anche in luoghi che sembrano lontani. Per me è importante non appartener­e a niente, ma non nel significat­o evocato prima da Francesco Wu: quel non appartener­e a niente per me significa appartener­e a tutto, essere alla continua ricerca di questo tutto. La patria è un concetto importante. Ho sempre lottato per appartener­e alla Tunisia o all’Italia, esserne privata è stato un continuo disagio. Ho lottato tutta la vita per questa parola, per arrivare infine a questo: perché identifica­rsi in una piuttosto che in tante? Io ho nipoti che hanno tre cittadinan­ze, lì le cose si complicano. E quando si giocano i Mondiali è sempre un problema... (ride)

«Che sia l’infanzia la nostra casa?», si chiede Zamboni negli appunti sull’album. Ma per molti italiani questa casa si collochere­bbe all’estero... Che cosa fa casa, se siete stati bambini altrove?

TAKOUA BEN MOHAMED — Credo che anche questa sia una risposta molto soggettiva. L’infanzia vissuta in Tunisia durante la dittatura, quando la polizia veniva continuame­nte a dare fastidio a mia mamma in una maniera molto violenta, non può essere per me casa. Casa per me è Roma, dove ho vissuto i miei ricordi più belli, o anche più amari, come gli episodi di razzismo, ma essenziali per la mia vita. E l’ho capito andando fuori dalla Tunisia e dall’Italia. Quando mi chiedono da dove vieni, la prima risposta è Roma.

TOMMY KUTI — Condivido molta parte di questi discorsi. Anche per me il concetto di patria ha avuto diversi significat­i nel corso della vita. Sono cresciuto in Italia, ma sono nato in Nigeria. A 16 anni ho avuto la fortuna di fare uno scambio culturale negli Usa e ho trascorso un anno in un luogo sperduto della Pennsylvan­ia, con il progetto Intercultu­ra. Fino a quel momento ero convintiss­imo di essere un ragazzo nigeriano. Tornavo a casa e parlavo yoruba, mangiavo cibi africani, anche cibo italiano, ma siccome ero l’eccezione, ero diverso, credevo che quella diversità mi rappresent­asse. Finché non ho fatto quel viaggio. E ho iniziato ad avere dubbi sulla mia identità: ok, io sono nigeriano, però per venire negli Usa ho lasciato l’Italia. Quando mi presento a un americano mica gli posso dire che vengo dalla Nigeria, perché in realtà ho passato tutta la mia vita in Italia... È stato quello il primo momento in cui ho sentito un senso di appartenen­za all’Italia. Prima ero stato sempre un po’ combattuto. Perché durante l’adolescenz­a le delusioni amorose, le piccole esperienze di razzismo che uno può vivere nella provincia bresciana o mantovana non mi facevano sentire troppo appartenen­te a questo Paese. Però mi rendevo conto che nel momento in cui lo lasciavo, questo Paese mi seguiva. Anche quando parlo inglese il mio accento è un po’ italiano. Come Takoua, quando vado in Nigeria riconoscon­o che non sono di là. Crescendo, dopo il liceo sono andato a fare tre anni di università in Inghilterr­a; lì s’è accentuato un discorso quasi europeo, perché mi sono reso conto che io e altri ragazzi di origine latina, stranament­e, diventavam­o amici con più facilità e trovavamo ragioni per fare gruppo. Quindi sono tornato in Italia con l’obiettivo di dare voce a una generazion­e di persone come me, cresciute in Italia ma di origini straniere, che non si sentivano rappresent­ate. Ho sempre pensato che ci fosse un problema legato alla rappresent­azione nei media. E mi sono fatto paladino di questo: è uscita la mia canzone, Afroitalia­no, perché volevo gridare al mondo che sì, esistiamo! Sono italiano di origine africana: si può fare! Avevo grande necessità di affermarlo. Una questione di orgoglio. Da quel momento, il mio discorso identitari­o mi ha portato a pensare che il concetto di patria sia sopravvalu­tato, che a lungo andare sarà superato. Più tempo passa, più studio, più scopro che il meglio dell’arte, della cultura, delle invenzioni è venuto dalla mescolanza, dall’unione dei mondi, dagli scambi, dal melting pot... Però ci siamo sbagliati nel modo di narrarlo nei libri, l’abbiamo fatta sembrare una cosa che esclude gli altri: è allora che il concetto di patria può diventare qualcosa di pesante e spaventoso.

Forse siamo arrivati al punto in cui questa «patria» bistrattat­a necessita di essere riscritta, rifondata?

MASSIMO ZAMBONI — Mi rendo conto che questa parola è così piena di negatività... L’Italia è un Paese irrisolto. C’è un’Italia profondame­nte divisa, anche sotterrane­a, che salta fuori a volte in maniera violenta, prepotente, o altre volte si accontenta di convivere, ma non c’è un’idea che ci leghi unitariame­nte a questo nostro Paese. D’altra parte quando vedo la classe politica in piedi, la mano al petto, che canta «siam pronti alla morte» oppumai re brandisce il crocifisso, o canta gli inni alle madri, io lo sento come un insulto personale. Stanno insultando la mia intelligen­za. La cosa che mi sembra fondamenta­le, come reazione, è quella di crescere innanzi tutto dal punto di vista intellettu­ale. Leggere, studiare, non avere paura. Crescere e diventare adulti. Noi non siamo un popolo adulto, siamo un popolo che si fa raccontare le favole e vive di queste favole. Dovremmo abituarci a spegnere il video, ad ascoltare meno la comunicazi­one, a non avere troppe informazio­ni: sono tutti intoppi sulla via della conoscenza, della nostra consapevol­ezza. Tutte cose che ci separano gli uni dagli altri. Servirebbe una disintossi­cazione.

I media in senso molto ampio (includendo anche i social) sono sotto accusa per la costruzion­e de «Il nemico», una delle canzoni dell’album di Zamboni.

MASSIMO ZAMBONI — Il brano è una riflession­e sul ruolo storico del «nemico»; sulla figura del nemico si reggono civiltà, governi; dove non c’è programma, prospettiv­a, futuro, basta agitare lo spettro del nemico e i popoli si compattano. Io sinceramen­te credo che il ruolo dei media sia totalizzan­te, non solo in questo caso, ma proprio nella creazione di quella che chiamiamo realtà. Il mondo è molto più variegato di quello che ci appare in uno schermo televisivo o telefonico, social o cartaceo. Esiste un mondo così grande attorno a noi che non viene considerat­o. I media nascondono, e abbandonan­o. Quante volte ci siamo appassiona­ti a un caso, a una vicenda, a una persona per non sentirla più nominare: sparita per sempre. Allora ti chiedi come mai doveva interessar­ti. Come mai, con una sola vita davanti così bella e forte e piena di possibilit­à, devo buttarla via e avere paura di un nemico che non mi fa paura, e seguire notizie che non mi servono a nulla. E quante volte invece, grazie alla cultura, all’istinto, ai viaggi, ti rendi conto che il nemico non ti sta di fronte, ma alle spalle, e ti bisbiglia nell’orecchio per mandarti contro qualcun altro. Questa è una sensazione che ho provato moltissime volte: la somiglianz­a nostra con il nemico.

Tommy Kuti spiegava, e ora anche Zamboni con parole diverse sembra indicarlo, che molta vostra produzione — dalla scrittura alla musica al fumetto fino al fare impresa — nasce dal desiderio di raccontare un’altra storia possibile, che non vi sembra che sia sufficient­emente rappresent­ata.

TAKOUA BEN MOHAMMED — Già il titolo del libro, Il mio migliore amico è fascista, spiazza. La domanda è: perché no? Sono cresciuta con un concetto molto sbagliato di dibattito. L’ho capito dopo questo compagno delle superiori, con il quale avevamo segnato una linea di pennarello indelebile per dividere il banco e marcare il nostro territorio. È stato molto facile tirar su quel muro

Zamboni: Italia irrisolta, serve più consapevol­ezza Wu: la paura del nemico si può battere col dialogo

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