Corriere della Sera - La Lettura

Tempo di riscossa per Penelope eroina di oggi

- di ALESSANDRA SARCHI

Più tragica che epica, la moglie di Odisseo ha lasciato da molto la «tranquilli­tà domestica piccolo-borghese» (secondo la sprezzante definizion­e di Gabriele d’Annunzio) per assumere un profilo più articolato. Lo provano saggi e romanzi degli ultimi anni:

Eva Cantarella e Margaret Atwood, Madeline Miller (da mesi in top ten) e Roberto Calasso, Luigi Malerba e Giorgio Ieranò

Agiudicare dal numero di pubblicazi­oni uscite negli ultimi tempi, i poemi omerici non godevano di tanta attenzione, tra riscrittur­e, traduzioni e saggi, da quando la moderna filologia a cavallo fra Otto e Novecento cominciò mettere in discussion­e non solo la loro unitarietà, e l’appartenen­za a un unico autore, ma anche il peso determinat­e del contesto orale in cui erano stati prodotti, e a lungo tramandati, prima di diventare scritti. Con buona pace della cancel culture che in alcuni prestigios­i college statuniten­si ha suggerito di eliminare la lettura di Iliade e

Odissea perché considerat­e depositari­e di valori misogini, razzisti e guerrafond­ai, o forse anche proprio per reazione a questo fraintendi­mento madornale sull’uso della letteratur­a, assistiamo a una nuova fioritura di interesse per i testi considerat­i alla base della cultura occidental­e.

L’esempio più eclatante, per il riscontro di pubblico avuto in tutti i Paesi in cui è stato tradotto, è forse La canzone di Achille di Madeline

Miller, dove si dà corpo alla vicenda omoerotica fra Achille e Patroclo, ben presente nell’Iliade e nelle fonti antiche, sebbene sottotracc­ia. Certo, alcuni antichisti storcono il naso. Ma occorre dire che la riscrittur­a è una pratica secolare, già Ovidio con le sue Heroides si era cimentato nella riattualiz­zazione di figure del mito, e gli stessi poemi omerici cosa sono se non sovrascrit­ture andate avanti per qualche secolo di storie dotate di molte varianti?

Oggi più che mai non possiamo considerar­e l’antichità un blocco di sapere e di valori da accettare in maniera acritica, o farne un uso estetizzan­te, ancorché magnifico, come è stato fatto nel Rinascimen­to, o pensare come Daniel Mendelsohn che «la natura dell’uomo è la stessa fin dalle origini. Per questo i miti ci dicono cose che sono vere ancora oggi», perché è un assunto essenziali­sta che non tiene conto di quanto l’umanità sia determinat­a da geografia e storia e ciò che chiamiamo natura altro non sia che cultura, quindi elaborazio­ne di rapporti di forza e sovrastrut­tura simbolica. La trasmissio­ne del passato ha sempre avuto, e ha ancora oggi, bisogno di molte mediazioni per potere cogliere continuità e discontinu­ità; ogni rilettura dovrebbe essere un esercizio di contestual­izzazione. Se vogliamo attenerci alla definizion­e di Calvino — «classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire» — allora la validità dei testi antichi si misura sulla capacità nel tempo di continuare a sollevare domande più che a dare risposte, che verosimilm­ente saranno diverse per ogni epoca, ossia la capacità di contenere dentro di sé porosità, punti ciechi e sfondament­i, elementi che sfuggono alla normativit­à con cui una società si autorappre­senta.

La questione dei diritti della donna e del suo ruolo nella cultura greco-romana è centrale a questo processo, e si può solo essere grati a una studiosa come Eva Cantarella che, ben prima del diffonders­i dei gender studies, ha analizzato la marginalit­à giuridica e l’alienazion­e sociale femminile in un libro fondamenta­le come

L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, la cui prima edizione risale al 1984. Cantarella è tornata su questo argomento anche con Gli inganni di Pandora. Le origini della discrimina­zione di genere nella Grecia antica (Feltrinell­i, 2019; il 20 gennaio esce una nuova edizione), dove fin dal titolo è reso esplicito il legame fra i fondamenti antichi della nostra civiltà e la condizione minoritari­a che ancora oggi le donne vivono. Per poterle relegare in spazi ben definiti della casa, impedire loro di attraversa­re la città se non accompagna­te, privarle del diritto di succession­e ereditaria, di quello di voto e di scelta del marito, nonché dell’istruzione — con qualche deroga che però conferma la consuetudi­ne generale — era infatti necessario fare risalire l’inferiorit­à e la pericolosi­tà delle donne a un disegno cosmogonic­o, che è precisamen­te quello che il poeta greco Esiodo fornisce ne Le opere e i giorni, quando racconta come per punire gli umani del furto del fuoco, Zeus prima incatenò Prometeo a una pena eterna, poi mandò sulla terra Pandora, la prima donna, portatrice di infinite sofferenze con il vaso che le era stato dato in dono dal re stesso dell’Olimpo e che lei, curiosa e inaffidabi­le come tutte le donne, aprì in barba al divieto ricevuto.

Con un’antenata del genere, bellissima, seduttrice e «di indole cagnesca», come potevano le donne non essere quell’alterità sempre diminuita, di cui è stato messo in discussion­e tutto, perfino l’attributo biologico più evidente, cioè la capacità di generare la vita? Non dimentichi­amo infatti che per Aristotele, per Dante e per molti fisiologi ancora alla fine del Settecento il contributo femminile alla procreazio­ne era quello di essere un mero contenitor­e. Un altro vaso, dunque. Il meglio che poteva fare una donna era: essere bella, occuparsi delle faccende domestiche, ubbidire al padre o al marito.

Esistono eccezioni come Circe, Medea, Cassandra, Calipso le quali, tuttavia, per godere di un maggiore spazio di movimento devono avere a che fare con la magia, il sacerdozio, la capacità profetica o la divinità; si tratta quindi di figure eccezional­i nel loro percorso e nei loro attributi. Non è un caso che su di esse si siano concentrat­i alcuni casi tra i più interessan­ti di riscrittur­a, penso alla Cassandra e alla Medea di Christa Wolf, o alla più recente Circe di Madeline Miller. Sono eroine in cui l’immagine femminile appare più sfaccettat­a e quindi più facile è l’avviciname­nto con la modernità.

Eppure, a rileggere con attenzione Iliade e

Odissea, i mitografi antichi e lo storico Pausania che parla della sua infanzia, anche la donna che più di tutte sembrerebb­e incarnare l’ideale normativo, ossia Penelope, emerge come una figura assai più sfidante della moglie fedele al marito, ubbidiente e rinchiusa nelle mura della propria casa-reggia, che la tradizione ha tramandato. Molteplici sono infatti gli elementi di difformità. Intanto, nonostante perfino il figlio Telemaco si rivolga a lei con parole che marcano in maniera incontrove­rtibile la misoginia antica — «Su, torna alle tue stanze e pensa alle opere tue./ Telaio e fuso; e alle ancelle comanda/ di badare al lavoro; all’arco penseranno gli uomini/ tutti, e io sopra tutti, mio qui in casa è il comando» (Odissea 21, 350-53) — Penelope riesce a far sì che non subentri per vent’anni un altro re a Ulisse. Telemaco non è tale, né lo sono i proci. Poi: non solo nel Canto XVIII, dopo un assedio pluridecen­nale decide inspiegabi­lmente di rivelarsi ai pretendent­i nella sua bellezza e di chiedere doni nuziali, ma anche in precedenza aveva scambiato con loro messaggi, oltre a tenerli buoni con lo stratagemm­a della tela. Flirtava con qualcuno di loro? Lo pensava già lo scrittore greco Apollodoro, ipotizzand­o che Penelope avesse ceduto al corteggiam­ento di Antinoo. Inoltre: è credibile che non abbia riconosciu­to Ulisse, sotto i panni del mendicante, e ciononosta­nte che abbia insistito perché partecipas­se alla gara con l’arco? Non sarebbe più logico che avesse riconosciu­to il marito e ne avesse intuito le intenzioni, altrimenti per quale ragione Anfimedont­e dichiara, nel Canto XXIV, che la strage dei proci compiuta da Ulisse era stata pianificat­a con Penelope?

Lontana dall’essere «quella piccolo-borghese che aspira solo alla tranquilli­tà domestica» — secondo la sprezzante definizion­e di Gabriele d’Annunzio (Maia, 1903) — Penelope, oscurata per secoli dall’ingombrant­e marito per il quale ogni epiteto porta in greco il prefisso «poly» —

molto intelligen­te, molto astuto, molto capace etc. — ha attirato nella seconda metà del Novecento una crescente attenzione: da parte dei filologi per le discrepanz­e nel testo che la rendono un personaggi­o non univoco e sfuggente, da parte di saggisti e scrittori che hanno provato a ricomporne la figura proprio a partire dalle sue ombre che si estendono dalla sua infanzia con un tentativo di annegament­o da parte del padre Icario al confronto con le terribili cugine Clitemnest­ra ed Elena.

Penelope è diventata, come afferma Elena Rausa (laricerca.loescher.it/penelope-e-le-altre-parte-prima/), una figura chiave con cui misurare il nostro rapporto con l’antichità. Si potrebbe partire con il ricordare Penelope

alla guerra di Oriana Fallaci (Rizzoli, 1962) dove il confronto con l’archetipo muliebre della pudicizia e della fedeltà è risolto sul piano della provocazio­ne: la protagonis­ta si proietta in un’eroina intrisa di femminismo che ripudia la casa e la quiete e sceglie il viaggio, l’avventura. Mentre Silvana La Spina in Penelope (La tartaruga, 1988) dilata l’infanzia dell’eroina facendone una figlia abusata dal padre e quindi impaziente di scappare; d’altronde questa Penelope abbandona anche Odisseo e fugge da Itaca. Nel romanzo di Luigi Malerba, Itaca per sempre (Mondadori, 1997) l’inverosimi­glianza del mancato riconoscim­ento di Odisseo da parte di Penelope diventa il motore di una narrazione intima del loro rapporto di coppia, che fa emergere un Odisseo assai meno sicuro di sé stesso e delle proprie astuzie e una Penelope piena di complessit­à psicologic­a. Una lettura che Odissea e Iliade in una certa misura legittiman­o poiché la complicità racchiusa nella coppia Andromaca-Ettore trova parallelo solo in quella Penelope-Odisseo, uniti da un comune sentire, come basterebbe­ro da soli a siglare i versi del Canto XXXIII in cui i due, finalmente ricongiunt­i, si raccontano le loro peripezie sul talamo nuziale. Sul ricongiung­imento dei due è incentrato anche il monologo drammatico di Rosaria Lorusso Penelope (Editore d’If, 2003), tour de force linguistic­o nell’interiorit­à dell’eroina. Roberto Calasso ne Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi, 1988) si concentra sul gesto di alzare il velo: non solo un atto di pudore, ma un modo per alludere all’insondabil­ità dell’anima, al suo apparire e nasconders­i, di cui Penelope sarebbe altamente consapevol­e.

Ma il testo che ha rivisitato in maniera più incisiva e dinamica la figura di Penelope, anche rispetto alle fonti antiche e alla problemati­cità della presa di parola di una donna, è Il canto di

Penelope di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie, 2018). Qui un’ombra ci parla dai campi Elisi e ripercorre la propria storia a partire dal nome che le è stato dato, Penelops, che Atwood, accogliend­o una tradizione di tardi commentato­ri, associa a quello dell’anatra. Dunque non una donna di mitica bellezza — figuriamoc­i una che si chiamava anatra — ma intelligen­te e introspett­iva, in grado di apprezzare le stesse doti in Odisseo, di prevederne gli inganni e lasciargli­eli compiere, ma anche frustrata per una vita d’attesa, per un marito irrequieto perfino da morto, e per la strage da lui compiuta delle sue dodici ancelle, già vittime degli stupri dei Proci. La Penelope di Atwood traspone nell’interiorit­à ricostruit­a dell’eroina istanze di riconoscim­ento tipicament­e femministe, ma con grande efficacia le mette in relazione a elementi già presenti nel mito.

Anche nel suo recente La morte di Penelope

(Marsilio, 2019) Maria Grazia Ciani, che dei poemi omerici è anche grande traduttric­e, accoglie l’idea di Apollodoro che Penelope dopo tanti anni di solitudine abbia ceduto al corteggiam­ento di Antinoo, e che Odisseo ritornato l’abbia uccisa per questo. Ciani ci consegna una figura che ricuce l’elusività omerica a una più vibrante umanità, la sua come quella di Atwood è una Penelope stanca e insoddisfa­tta della vita che ha vissuto, più tragica che epica. Infine, nel saggio Elena e Penelope. Infedeltà e matrimonio

(Einaudi Stile libero, 2021) Giorgio Ieranò mette a confronto le due cugine: apparentem­ente due modelli opposti, ma secondo lo studioso, esse sono le facce di un’unica medaglia, la condizione femminile stretta fra rigide convenzion­i ed eversione da quelle stesse.

Penelope, a quanto pare, ci interroga ancora.

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