Corriere della Sera - La Lettura
Ese le notti di Shakespeare diventano 13...
Le critiche teatrali (ora in volume) di Nicola Chiaromonte e l’attacco di Luca De Fusco alla «tirannia del regista» riaccendono un faro sulla libera interpretazione di un testo, sul conflitto tra scrittura e scrittura scenica. Ecco il parere di dieci protagonisti
Fino a che punto il regista o l’attore-regista possono impadronirsi di un’opera teatrale? Fino a che punto possono stravolgerne i contenuti, dilatarne i tempi, modificarne l’ambientazione? La dodicesima notte di Shakespeare può arrivare alla tredicesima? I sogni di una notte di mezza estate possono essere a metà inverno? D’altra parte Giulietta e Romeo da molto tempo sono cittadini del mondo... Dunque quali sono i confini tra una lettura filologica, fedele al testo, e la sua libera, persino necessaria, interpretazione?
Una questione eterna, che attraversa da sempre i palcoscenici e che è diventata di nuovo sorprendentemente attuale in questo inizio d’anno. Prima l’uscita del Meridiano dedicato all’opera (e dunque anche all’opera di critico teatrale) di Nicola Chiaromonte, che detestava l’artificio, rifiutava «l’abuso interpretativo», sosteneva che l’artista «può dire di nuovo, a suo modo, solo ciò che è stato detto» («la Lettura» #527 del 2 gennaio); poi, una settimana dopo, l’intervista a Luca De Fusco alla vigilia del suo insediamento alla direzione dello Stabile di Catania («la Lettura» #528 del 9 gennaio), che afferma: «Innanzitutto bisogna tornare ai testi, il regista deve smettere di essere strabordante. A volte non vediamo rappresentata un’opera, ma il suo stravolgimento, il testo diventa pretesto. Il regista si sta allargando, un tiranno che dispone di autore e attori come sua emanazione: gli attori vanno coordinati, non schiavizzati».
Abbiamo posto la questione ad alcuni protagonisti della scena attuale: registi, attori-registi e, naturalmente, autori. Ecco che cosa hanno risposto.
DAVIDE LIVERMORE —
«Mi ritengo l’anti-stravolgitore per eccellenza, nonostante quello che si dice sul mio conto. Cosa significa stravolgere? La cosa fondamentale, per un regista, è capire l’intenzione del drammaturgo o del compositore e, se esiste una loro idea precisa, chiaramente enunciata, occorre tenerne conto. Un’altra riflessione importante è su quale sia stato il ruolo del teatro, di prosa o lirico, nella società in cui è stata concepita un’opera. Il teatro di regia per me è una traduzione, io mi sento sempre in rapporto con il decoder, cioè uno strumento di decodifica, e oggi, dopo circa quarant’anni di tv commerciale, è necessario comprendere in che modo vada letta un’operazione registica attuale: ormai non siamo più considerati arte, bensì intrattenimento. In sintesi, la domanda fondamentale che mi pongo è: voglio servire il testo veramente, portando a galla ciò che nasconde, oppure mi attengo a ciò che il pubblico si aspetta dalla sua pedissequa rappresentazione? La mancanza di una vera coscienza del teatro, oggi, ci fa stare in bilico tra lo spettatore che desidera assistere a uno spettacolo come un momento di relax nella propria jacuzzi personale, in tutta tranquillità, e chi invece avverte l’urgenza di assistere alla forza primigenia di una nuova creazione tradotta nella realtà attuale. A volte si pensa che si tratti di una questione estetica, ma non è mai un problema di scene e costumi. Quando uno spettacolo resta impresso a qualcuno, perché magari lo ha fatto arrabbiare, mi chiedo il motivo e scopro che la mia messinscena ne ha evidentemente toccato una parte profonda».
ANDRÉE RUTH SHAMMAH —
«Condivido le operazioni di drammaturgia scenica, quando questa è un modo per illuminare una parte nascosta, un aspetto dell’epoca cui appartiene l’autore dell’opera, non per tradirlo. Un testo classico, per esempio, lo puoi rendere vecchio attualizzandolo e renderlo invece moderno lasciandolo nella sua cornice. Per quanto mi riguarda, appartengo alla scuola che vuole esaltare l’autore e non mortificarlo. Un regista che, attraverso un’opera, racconta la propria storia, deve in qualche modo riscriverla, magari ispirandosi a quella originale. Insomma, perché si fa teatro? Qual è l’obiettivo finale? Lo si fa per mostrare la propria bravura oppure per portare a conoscenza del pubblico la grande letteratura teatrale? Purtroppo, spesso il difetto è che il teatro si parla addosso, si fanno scelte affinché quattro critici si accorgano di te... e questo non va bene. L’importante è non abbassare il tono, la qualità della tua ricerca registica: così vieni premiato dal pubblico, con cui puoi continuare il dialogo. Credo, inoltre, sia fondamentale dare spazio ai nuovi drammaturghi, ma in un contesto in cui si crede, altrettanto, nell’attualità dei classici».
CARLO CECCHI —
«I registi o gli attori non possono, non devono stravolgere il testo; se lo fanno sono dei cialtroni. Oddio, certe interpretazioni, se sono fatte intelligentemente senza distruggere i contenuti originali e ne mantengono lo spirito alla lettera, sono benvenute. Ma ormai vanno di moda cose strane... vabbé, facciano loro». EMMA DANTE —
«Di solito metto in scena le mie storie, però affronto anche tragedie greche e opere liriche. Stravolgere, tanto per farlo, non va bene, tuttavia cerco di leggere tra le righe di un testo altrui, mi pongo domande suggerite dal testo, mi creo una mia visione sul versante immaginifico. Non lavoro mai per dare luogo a una provocazione fine a sé stessa, sono sempre abbastanza fedele, pur tentando di offrire la mia interpretazione, perché è importante fare rivivere i classici, dandogli un nuovo profumo: una fioritura, insomma, non una violenza... mi sento una specie di giardiniera. Per quanto riguarda l’opera lirica — il 20 gennaio debutto proprio con I vespri siciliani di Giuseppe Verdi al Massimo di Palermo — la faccenda è più dura, perché i libretti originali sono quelli e sono abbastanza, anzi molto, datati, però non puoi cambiare una virgola, perché sono legati alla parte musicale. È pur vero, tuttavia, che la musica aiuta a dare nuova linfa ai libretti, perché è il canto a descrivere i personaggi e a contagiarti con la sua spiritualità».
GABRIELE LAVIA —
«Non so cosa significhi regista fedele o infedele. Quello che so è che esistono registi che, pur considerando la messinscena di un’opera secondo la propria visione, ne rispettano la priorità; e quelli più strani, singolari, forse infedeli, che impongono la loro visione davanti all’opera medesima. Io, che vengo dalla scuola di Strehler, appartengo alla prima categoria, preferisco che la mia visione sia sotto-messa al testo e non sovra-messa. Il maestro del Piccolo non si sarebbe mai sognato di stravolgere il significato di un testo. Semmai, con il suo rigore, spaccava il capello in quattro sul senso di ciò che l’autore voleva esprimere. Poi, certo, esiste anche la poetica del regista e, infatti, se l’autore è contemporaneo e vivente, è fatale che non si riconosca nella rappresentazione della sua opera, perché in palcoscenico si uccide sempre, in un modo o nell’altro, l’opera originaria. Ciò cui assiste il pubblico è il mito che si rinnova. La lirica poi: occorre confrontarsi con il libretto e con la musica. Qui i protagonisti sono i cantanti e l’orchestra, il regista ha un ruolo secondario. Mi sento meno responsabile».
CAROLINA ROSI —
«Lo stravolgimento è troppo provocatorio se assume
un suo significato indipendente rispetto alla scrittura di un drammaturgo. Ora, nel repertorio contemporaneo è impossibile lo stravolgimento, perché l’autore è vivo e potrebbe vietare la trasformazione del testo. Per fare un famoso esempio, basta ricordare l’incidente tra Luchino Visconti e Harold Pinter, quando l’autore inglese ritirò i diritti e fece addirittura sospendere le repliche, all’Argentina di Roma, dello spettacolo tratto dalla sua commedia Vecchi tempi perché non si riconosceva nella regia. Veniamo al repertorio di tradizione: ci sono stati molti esperimenti, molte interpretazioni fini a sé stesse. Ricordo Antonio Latella che mise in scena un Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo: ne dette la sua lettura senza cambiare una virgola, facendo recitare agli attori perfino le didascalie... Ma il significato dell’opera venne comunque stravolto. E allora dov’è il limite tra lasciare un testo com’è scritto e modificarne profondamente il significato? Io ho notato, negli anni, che più un regista sa il fatto suo e meno sente la necessità di porre la sua individuale decodificazione stravolgendo un testo; anzi ne ribadisce, ne approfondisce i contenuti. Altrimenti è più giusto che il regista si scriva il testo per conto proprio, oppure si dica che è liberamente tratto da... Non sposo la pratica strabordante del metteur en scène nei confronti di quello che un autore ha voluto esprimere... Certo, si può adattare l’opera in un’altra epoca, si può magari renderla più comica, futuristica, immaginifica, ma perché tiranneggiarla? Il mio è un no al famolo strano».
ROBERTO ANDÒ —
«Molto spesso assistiamo a stravolgimenti illegittimi, gratuiti. La visione del regista diventa così quella assoluta del testo, perché alcuni di noi si sentono geni. Altre volte, però, accade che l’audacia di un’interpretazione registica si tramuti in uno scandalo, perché certi spettatori tradizionalisti la ritengono un oltraggio, e magari non è proprio vero. Il regista è come un direttore d’orchestra e, nei confronti di un’opera, deve assumere un senso di responsabilità in modo molto serio. Può anche essere rivoluzionario, però deve dimostrarsi poi in grado di sostenere con i fatti la sua rivoluzione, cioè non può smantellare tutto in maniera assurda, arbitraria, e non può sovrapporre solo la propria piccola, personale vanità al lavoro dell’autore. Attualizzare un testo antico può andare bene, certo, perché è giusto essere contemporanei, per non scadere in un teatro museale, ma senza esagerare, altrimenti diventa sottocultura».
LUCIA CALAMARO —
«È come mettere il dito nella piaga della drammaturgia. Il testo teatrale è, per sua natura, bucato, contiene dei vuoti, perché è creato per una doppia intermediazione: quella dell’attore, che scaturisce dalla sua carne viva, e quella del regista. Io sono più dalla parte degli attori che dei registi... e so che con questa affermazione mi farò dei nemici. Intendiamoci: teatro non significa ascoltare il testo, ma si tratta di fare risplendere quello che il testo vuole comunicare, fare sentire e vedere ciò che è insito nella drammaturgia originale... è un lavoro di grande avvicinamento all’interiorità dell’autore; ma questo non mi pare che succeda spesso. L’attore forse è più vicino all’incarnazione della parola, del suo sottotesto. Dico la verità: quando qualcuno ha messo in scena i miei drammi, non sono andata a vederli, per paura di non riconoscermi. Mi fa piacere ovviamente che i miei lavori vengano rappresentati e sono felice che i miei testi non finiscano con me, che muoiano sulla mia scrivania, dunque sono grata a chi li prende in mano. Ma so anche, per esperienza, che la loro visione è diametralmente diversa se non addirittura opposta alla mia. In altri termini, sono molto critica e infastidita da un regista o un attore che adopera un mio testo come pretesto per distruggerlo, aggiungendo ai miei contenuti alcuni suoi pensierini sulla materia da me trattata. Perché allora dico: se vuoi fare l’autore esponiti in quanto tale, non metterti sulle spalle di altri per dire la tua. Ammetto che la mia posizione è severa, però è chiara».
GIORGIO BARBERIO CORSETTI —
«Un testo teatrale può essere un punto di riferimento, l’ispirazione per un viaggio parallelo che si compie attraverso i simboli e la potenza evocatrice del testo stesso, approfondendo lo sguardo nelle sue parti più profonde e nascoste. Ma la lettura scenica deve avere come punto di riferimento innanzitutto il presente in cui viviamo e quindi, attraverso un classico, si può fare emergere anche la propria storia artistica, prendendo spunto dal nucleo centrale del classico stesso. In entrambi i casi, il grande lavoro registico è passare dalla pagina scritta a qualcosa che avviene in presenza sul palcoscenico, e che può accadere soltanto attraverso gli attori. I passaggi sono i seguenti: prima c’è l’interpretazione da parte del regista e poi quella degli attori, che trasformano ancora una volta il tutto con la loro recitazione. È inevitabile comunque che si parta dalla nostra soggettività, dal nostro modo di abitare il mondo, qui e ora, sia che si entri in una drammaturgia per farla crescere in un mondo analogo e parallelo, sia che ci si concentri esclusivamente sul suo nucleo bruciante».
LUCREZIA LANTE DELLA ROVERE —
«Ebbene sì, con il regista Francesco Zecca ci siamo presi una libertà. Nell’Uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello, con cui siamo stati in scena prima di quest’ultima sospensione a causa del Covid, protagonista del monologo non è l’uomo che, seduto al bar di una stazione, sta per morire di epitelioma, ma sua moglie disperata che, nell’opera originale, è solo un’ombra, un personaggio muto che assiste da lontano al dialogo del marito con un anonimo avventore. Abbiamo messo “in bocca”, è proprio il caso di dire, alla donna ciò che in realtà nel testo viene detto dall’uomo, offrendo al pubblico un diverso punto di vista».