Corriere della Sera - La Lettura
Oggi Anne lotta tra i migranti
Ari Folman, figlio di sopravvissuti, autore dell’acclamato «Valzer con Bashir», ha realizzato una graphic novel e un film a partire da Kitty, l’amica immaginaria della giovane nascosta. «Volevo tenere viva la sua eredità. L’Olocausto è la mia religione»
«Un’amica del cuore. Gentile, sensibile, brava ad ascoltare. Penso che avrà... I capelli di Veronica Lake. Il viso lucente di Hanneli Goslar. E i suoi occhi azzurri e profondi. La figura snella di Jacque. Le labbra di Ava Gardner. Ma la mia aria sbarazzina. Il mio sorriso. La mia saggezza e il mio senso dell’umorismo». Preciso come un’equazione, l’identikit in base a cui Anne Frank crea Kitty, destinataria dei racconti quotidiani del suo diario iniziato il 12 giugno 1942, l’amica immaginaria complice di speranze e delusioni. Che Ari Folman e Lena Guberman trasportano dalla casa nascondiglio in Prinsengracht 263 fino alla Amsterdam dei nostri giorni (o meglio, «tra un anno esatto») nella graphic novel Dov’è Anne Frank (Einaudi). Protagonista anche dell’omonimo film di animazione presentato fuori concorso a Cannes (sarà distribuito in Italia da Lucky Red). Un progetto imponente, di concerto con la Anne Frank Fonds, a cui il regista di Valzer con Bashir, figlio di sopravvissuti, ha dedicato otto anni. Già nel 2017 è uscita la graphic novel del Diario, realizzata con l’illustratore David Polonsky. L’idea di partire da Kitty, racconta Folman a «la Lettura», è «rendere viva l’eredità di Anne coniugando passato e presente».
Raccontare la Shoah è impresa delicata. Perché predilige la forma della graphic novel?
«Il primo libro è stato un grande successo, l’obiettivo era arrivare al maggior numero di lettori. Ritengo questa forma di arte, giustamente in Francia considerata al pari di altre, molto adatta alle nuove generazioni. Non solo per la narrazione in generale, ma per finalità educative. I ragazzi oggi leggono pochissimo, non hanno la pazienza di farlo, non possiamo biasimarli, sono totalmente occupati dalla cultura visiva. Credo sia uno strumento fantastico, aderisce al mio modo di raccontare la realtà».
Fate uscire Kitty dalla casa-museo di Amsterdam.
«Anne è il simbolo dell’Olocausto. Ma da quando è diventata un’icona ha perso la connessione emotiva, non solo con i giovani. Con Lena cercavamo di rinnovare la sua esperienza, con una storia di fantasia per renderla attraente per i ragazzi. Se non trovi un aggancio emotivo le storie perdono forza e capacità di entrare nella vita nella persone».
È una critica alla cosiddetta «industrializzazione dell’Olocausto»?
«Non voglio farne una questione generale, mi limito a osservare come intorno alla figura di Anne pesi la natura della commercializzazione. Personalmente, per esempio, non sono un grande fan della Casa, gli ambienti svuotati, le file di visitatori spinti verso il memory shop.
Non puoi uscire se non ci passi e ti fermi a comprare qualcosa, come fosse il Van Gogh Museum o Rembrandt. Non è quello il modo di ricordare, si rischia di snaturarne l’importanza».
«Dov’è Anne Frank oggi», si chiede Kitty. Quel coinvolgimento emotivo di cui lei parla lo trova in mezzo ai rifugiati in fuga dalle guerre, perciò diventa un’attivista.
«Qui sta la connessione tra passato e presente, è importante studiare il passato e usarlo come strumento di comprensione del presente, non smettere di interrogarsi, questo è anche lo scopo della Anne Frank Fonds. Attenzione, non è comparazione ma compassione. Nessun paragone: i migranti che vediamo nella graphic novel e poi nel film escono, vanno a scuola, non è possibile fare un parallelo improponibile. Ma alle fine quei bambini stanno scappando da zone di guerra, da luoghi dove rischiano la vita. Non importa da dove vengano, Africa, Europa, Asia: un bambino è solo un bambino da qualunque parte arrivi. È Kitty la voce narrante, le vediamo seguire le tracce di Anne. Prima i Frank andarono su un treno normale al campo di lavoro di Westerbork, poi Auschwitz, quindi Bergen-Belsen. E nel seguire quest’ itinerario, che io stesso ho percorso per le mie ricerche, Kitty scopre la condizione dei migranti in Europa, arrivati da ogni parte».
Una questione aperta nella produzione letteraria e cinematografica è come rappresentare i carnefici. I nazisti nella graphic novel sono dei giganti, simili ai Mangiamorte di «Harry Potter». Come li avete ideati?
«Era difficile trovare il modo, ne abbiamo discusso a lungo tra noi senza individuare la soluzione. Allora ho chiesto a mia madre; grazie a lei abbiamo trovato la chiave. Arrivò ad Auschwitz, adolescente come Anne, la stessa settimana in cui le sorelle Frank e la madre varcarono i cancelli di Bergen-Belsen. Mi ha risposto che li aveva sempre creduti altissimi e proporzionati, persino belli, il punto di osservazione di chi sta in basso, di persone umiliate. E quando al processo di Norimberga vide una fotografia dell’assistente di Mengele che ricordava come una bionda fatale, si sorprese a vedere una donna piccola e brutta».
Anne era appassionata di mitologia. Nel libro seguite il parallelo tra i luoghi di morte dei nazisti e il mondo sotterraneo dei Greci antichi.
«C’è una forte connessione nei simboli. Nella mitologia greca amata da Anne c’erano barche, per i nazisti i treni; le persone da condurre al regno di Ade erano selezionate, come facevano le SS, anche loro accompagnate da cani».
L’ultima pagina del diario è datata 1° agosto 1944; il 4 i nazisti scoprirono il nascondiglio. Il vostro libro racconta anche gli ultimi mesi di vita di Anne.
«Perché in genere non se ne parla. Lei ha scritto questo diario incredibile che noi leggiamo perché è morta, ma non è successo quando i nazisti li hanno catturati, bensì sette mesi dopo. Questa parte della sua storia non viene raccontata. Il suo è un romanzo di formazione di una ragazza costretta alla clandestinità che, ovviamente, non racconta le atrocità dei campi di concentramento. Credo che il diario sia un capolavoro, ma che il suo straordinario successo sia legato al fatto che dentro non ci sono violenze e crudeltà. Per questo era importante ricordare che cosa successe dopo».
Nel libro Kitty domanda: cosa significa essere ebreo? Anne risponde: identificarsi nella storia e nel destino del popolo ebraico. Cosa significa per lei?
«La mia non è una famiglia religiosa, sono ateo, ma sei marcato come ebreo da altri, nella fattispecie dai nazisti, come è successo ai miei soprattutto dalla parte di mia madre. Non hai scelta, in un certo senso sei forzato a essere diverso, e questo passa attraverso le generazioni; per generazioni resteremo ebrei. Per noi e per me la Shoah è la nostra religione, ha a che fare con le tradizione, le storie che ti raccontano, che passi ai tuoi figli. Fa parte della nostra identità».
A Cannes ha detto che la preoccupano l’indifferenza, l’oblio, i negazionisti.
«Non voglio menzionare il movimento dei negazionisti, se apri il dialogo con loro li legittimi. Neanche da discutere».
Sente un obbligo morale alla memoria?
«Assolutamente sì. Abbiamo un obbligo e cerchiamo di fare il nostro meglio. Spero che la prossima volta, per farlo, non ci metterò altri otto anni di lavoro».