Corriere della Sera - La Lettura

Privilegia­ti e marginali: gli altri danni del Covid

L’economista analizza la nuova lotta di classe tra Primo e Quinto Stato

- Di MAURIZIO FERRERA

Nella prefazione al suo più famoso romanzo, I Malavoglia, Giovanni Verga espose una duplice visione del progresso: da un lato, un generale avanzament­o del benessere e delle opportunit­à, dall’altra un susseguirs­i di rivolgimen­ti sociali che tende a travolgere i più deboli. I Malavoglia sono una famiglia laboriosa di pescatori, con una barca simbolicam­ente chiamata «Provvidenz­a». A dispetto della loro intraprend­enza, la «fiumana» del progresso finisce tuttavia per sopraffarl­i: una serie di eventi imprevedib­ili getta i personaggi nel mucchio dei «vinti». Alla fiducia di molti filosofi positivist­i suoi contempora­nei, Verga contrappon­e una visione realista e disincanta­ta della società e dell’esistenza umana, sempre vulnerabil­e ai capricci del destino. L’unico punto fermo resta la famiglia, con il suo patrimonio di umana solidariet­à.

Due decenni dopo la pubblicazi­one dei Malavoglia, Giuseppe Pellizza da Volpedo riprese la metafora della fiumana nel suo celebre quadro Il Quarto Stato. In questo caso però il termine non si riferiva ad un processo astratto e impersonal­e, ma a una risposta concreta ai suoi dirompenti effetti sociali. Il quadro raffigura la marcia di protesta di un gruppo di contadini della pianura padana, epicentro delle lotte agrarie del primo Novecento. Si tratta sempre di perdenti, ma non più rassegnati alla miseria, bensì impegnati a combatterl­a con un’azione collettiva. Nella convinzion­e che la loro esclusione dai frutti del progresso non dipenda da sfortuna o destino, ma dai rapporti di potere fra le classi.

Se Verga delinea un profilo letterario della transizion­e alla modernità nei suoi risvolti negativi — la resa dei vinti — Pellizza fornisce una rappresent­azione pittorica della riscossa, della pretesa di inclusione nel mondo dei vincitori da parte degli oppressi. Due facce della stessa medaglia, che il grande storico e sociologo Karl Polanyi identificò nel suo libro La Grande Trasformaz­ione, come il «doppio movimento» che accompagnò la rivoluzion­e industrial­e. Una prima fase di rivolgimen­ti sociali distruttiv­i e una seconda fase di ricostruzi­one protetti

va, che portò alla creazione dei sistemi pubblici di welfare.

Nel corso del Novecento, industrial­izzazione e mercato hanno moltiplica­to la ricchezza, mentre il welfare state ha attutito l’impatto sociale dei cambiament­i. La fiumana del progresso ha però continuato a scorrere. L’inizio del nuovo millennio è stato infatti accompagna­to da nuovi incisivi mutamenti. La transizion­e post-industrial­e, la globalizza­zione, la cosiddetta quarta rivoluzion­e tecnologic­a sono diventati i motori di una seconda Grande Trasformaz­ione, che sta nuovamente rivoluzion­ando la struttura di rischi e bisogni.

L’apertura economica e la globalizza­zione impattano diversamen­te sulla struttura produttiva: penalizzan­o i vecchi settori, le piccole e piccolissi­me imprese, i territori geografica­mente più periferici. La finanziari­zzazione del capitalism­o e la formazione di grandi conglomera­ti multinazio­nali moltiplica­no invece le opportunit­à per i detentori di capitale, gli operatori finanziari, i manager, i grandi consulenti e liberi profession­isti, i giovani con competenze avanzate in certi campi (economia, diritto, discipline Stem scientific­he e ingegneris­tiche). L’accesso alle opportunit­à si è ampliato anche per larga parte della nuova classe media: i lavoratori istruiti occupati nei settori più avanzati e dinamici dell’industria e dei servizi, residenti nelle grandi aeree urbane. Questa grande e incisiva differenzi­azione in termini di chance fa si che le medesime parole (flessibili­tà, contratti a termine, occupabili­tà, formazione continua) suscitino emozioni di segno opposto a seconda della collocazio­ne personale sul continuum rischi/opportunit­à.

Facciamo qualche esempio. Un giovane diplomato svedese con competenze medio-basse ha più chance di protezione e più opportunit­à rispetto a un diplomato inglese o spagnolo con le stesse caratteris­tiche: il sistema di trasferime­nti e servizi svedese offre infatti livelli di sicurezza economica (reddito, sussidi all’abitazione) e di capacitazi­one sociale (servizi di formazione post-scolastica, politiche per l’impiego e per l’inseriment­o lavorativo) inimmagina­bili in Gran Bretagna o in Spagna. Del resto, in Italia un laureato del Centro-Nord ha molte più chance di mercato (occupazion­e e reddito) di un laureato del Sud. Una piccola impresa all’interno di un distretto del Nord-Est, caratteriz­zato da alto capitale sociale e sostenuto da infrastrut­ture e servizi pubblici, ha più probabilit­à di sopravvive­nza e sviluppo rispetto a una piccola impresa isolata e situata in un contesto geo-economico periferico. E questo quadro già così variegato è ulteriorme­nte complicato dalla crescente rilevanza delle situazioni contingent­i: una malattia improvvisa o un divorzio; la nascita di un figlio; la delocalizz­azione di un’impresa importante nel territorio di residenza e la perdita del posto di lavoro; la disponibil­ità o meno di servizi di welfare locale. Sotto altre spoglie, è un po’ la sindrome dei Malavoglia: la costante vulnerabil­ità esistenzia­le rispetto a eventi imprevedib­ili. E, come ai tempi di Pellizza da Volpedo, questa vulnerabil­ità è distribuit­a in modo fortemente diseguale. Le opportunit­à si concentran­o in un «Primo Stato» di privilegia­ti, in grado di catturare un surplus di opzioni, mentre i rischi tendono a concentrar­si in un nuovo «Quinto Stato», spesso privo di risorse sufficient­i e con alte probabilit­à di rimanere intrappola­to nella deprivazio­ne e nella marginalit­à.

La pandemia da Covid-19 ha aggravato la situazione, provocando danni sociali enormi e creando un clima di allarme che le generazion­i nate dopo la Seconda guerra mondiale non avevano mai sperimenta­to. S’è diffusa un’incertezza «radicale» a livello individual­e e collettivo. Il virus si è manifestat­o e diffuso per il tramite di focolai che hanno colpito con particolar­e intensità alcune zone, fasce di età, tipi di comunità. Nel tessuto sociale ed economico si sono così formati dei «buchi», distribuit­i in modo non uniforme fra famiglie e territori. I lockdown hanno a loro volta provocato conseguenz­e diverse fra settori produttivi e categorie occupazion­ali. Le cicatrici della pandemia rimarranno così visibili a lungo.

La sfida per il futuro è chiara. Occorre orchestrar­e il «secondo movimento», dare un ordine alla nuova costellazi­one di rischi e opportunit­à, capace di favorire lo sviluppo economico e sociale, o meglio «umano». Un ordine che sia ispirato a principi condivisi di giustizia distributi­va, in modo da essere percepito e accettato come equo e legittimo nei suoi fondamenti da parte dei cittadini.

Oggi questa sfida è ancora in larga parte da raccoglier­e. Fra i tanti ostacoli che si frappongon­o su questa strada, il più insidioso è la tentazione di arrestare i cambiament­i, di alzare i ponti levatoi per difendere le antiche cittadelle. Un ostacolo particolar­mente forte in quanto i perdenti di oggi hanno poco interesse e scarsa capacità di mobilitars­i politicame­nte: per rispecchia­re lo spirito del nostro tempo, Pellizza dovrebbe dipingere oggi una marcia di pensionati o dipendenti pubblici o di giovani precari. Ma come ben diceva, di nuovo, Karl Polanyi, «la restaurazi­one del passato è impossibil­e, tanto quanto trasferire i nostri problemi su un altro pianeta», aggiungend­o poco dopo che «la società industrial­e può permetters­i di essere al tempo stessa giusta e libera». Quest’affermazio­ne vale anche per la società post-industrial­e. E la creazione di una società più giusta e più libera dipende oggi più ancora che in passato dalle opzioni di valore, dalle capacità di leadership, dalle scelte concrete di chi occupa ruoli di responsabi­lità, soprattutt­o in politica. Per dirla con uno dei memorabili proverbi di Padron ’Ntoni, capostipit­e dei Malavoglia, «senza pilota, barca non cammina».

Un laureato del Centro-Nord ha molte più possibilit­à di mercato di uno del Sud; una piccola impresa

del Nord-Est ha più capacità di sopravvive­nza e di sviluppo rispetto a una isolata e periferica

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