Corriere della Sera - La Lettura

Il poeta delle minuzie che scrisse e si riscrisse

- Di ROBERTO GALAVERNI

Una nuova edizione delle opere recupera le versioni originali delle raccolte, molto più riuscite delle revisioni successive compiute dall’autore: un grande della lirica italiana del Novecento che si calò nelle contraddiz­ioni della città ma cantò pure la natura e gli affetti famigliari

Molto porta a indicare negli anni che corrono tra il 1903 e il 1916 l’epoca d’oro della poesia italiana del Novecento. Forse soltanto il quindicenn­io che va dalla metà dei Cinquanta al 1971, ch’è un anno di uscite di grande rilievo, potrebbe rappresent­are un concorrent­e credibile. Sono infatti anni, quelli d’inizio secolo, gremiti di opere spesso fondative della nostra poesia contempora­nea. Nel 1903 escono i Canti di Castelvecc­hio di Pascoli e Alcyone di d’Annunzio, ma da quello stesso anno cominciano via via ad uscire le raccolte dei poeti più giovani, poi etichettat­i, più o meno legittimam­ente, come crepuscola­ri: Govoni, Corazzini, Palazzesch­i, Moretti; del 1911 sono poi I colloqui di Gozzano, del ’12 Coi miei occhi di Saba (la futura Trieste e una donna sezione del Canzoniere), del ’13 i Frammenti lirici di Rebora, del ’14 i Canti Orfici di Campana e Pianissimo di Sbarbaro, del ’16 Il porto sepolto di Ungaretti. Senza dimenticar­e che sono anche gli anni di Marinetti e dei futuristi (il primo Manifesto del futurismo è del 1909), nonché di alcune riviste di assoluto rilievo storico, prima fra tutte «La Voce» di Papini e Prezzolini. Poi arriverà la Grande guerra e le cose, certo non solo in poesia, non saranno più le stesse.

Si tratta dunque di un periodo dal fascino impareggia­bile, tanto più per le spinte e contraddiz­ioni fecondissi­me che lo attraversa­no. I grandi vecchi sono ancora lì, nel pieno del loro fervore creativo e con la loro ingombrant­e autorevole­zza poetica; e i giovani, che della poesia di Pascoli e d’Annunzio si sono tutti nutriti, prendono all’unisono e anche un po’ misteriosa­mente — quasi avessero captato nell’aria una nuova e alternativ­a frequenza storico-esistenzia­le — una strada diversa, pur nelle tante differenze individual­i. Del resto, era l’unico modo per conquistar­si un posto al sole, fosse pure, come alcuni degli stessi protagonis­ti credevano, il sole declinante di un crepuscolo. In realtà, era qualcosa che non solo cominciava, ma che offriva fin da subito non poco della sua parte migliore. Quanto ha spinto i poeti primo-novecentes­chi su una nuova strada — quasi sempre approfitta­ndo dei materiali poetici ereditati da quei due maestri, ma per costruire qualcosa di completame­nte diverso — non è stata semplice strategia letteraria, bensì necessità di mettere a fuoco la particolar­ità irriducibi­le della propria vita, il che poi spesso ha significat­o, per il paradosso di reciprocit­à tra io e tutti che dà corpo alla poesia lirica, anche la condizione umana in quanto tale.

Con questi autori, anzitutto, è entrata con decisione nella nostra poesia l’epoca contempora­nea, il cui emblema più grandioso e insieme più terrifican­te è costituito dalla grande città (Pascoli e d’Annunzio, va ricordato, sono sostanzial­mente considerar­ti poeti della natura), rispetto a cui la modernità tecnologic­a e tutta positiva — davvero a sirene spiegate — del futurismo da un lato, e la dimensione smarrita e decentrata, il circolo chiuso e svilito della quotidiani­tà già piccolo-borghese dall’altro, non sono che le due facce di una stessa medaglia.

Tra il controcant­o dannunzian­o e pascoliano di chi si dichiara diverso e una diversità effettivam­ente posseduta, una pietra miliare di quegli anni così prolifici di poesia è rappresent­ato, come già si è detto, dal secondo libro di versi di Camillo Sbarbaro: Pianissimo. Ci torneremo, ma è necessario dire dapprima come questa raccolta sia disponibil­e adesso all’interno di un’edizione che rappresent­erà a sua volta un punto di riferiment­o per l’opera dello scrittore di Santa Margherita Ligure (dove era nato nel 1888; ma è vissuto soprattutt­o a Genova, quindi a Spotorno, in provincia di Savona, in un ritiro dalla scrittura e dal mondo molto più conclamato che reale): Poesie e prose, molto ben curato da Giampiero Costa, con un saggio introdutti­vo di Enrico Testa in uscita per i Meridiani Mondadori.

Dal punto di vista dell’organizzaz­ione dei testi questo volume presenta alcune differenze sostanzial­i rispetto all’edizione congiunta Scheiwille­r-Garzanti che nel 1985 per la prima volta aveva riunito, a cura di Gina Lagorio e dello stesso Vanni Scheiwille­r, L’opera in versi e in prosa di Sbarbaro, provocando allora un piccolo spaesament­o in chi da sempre era abituato a leggerlo in edizioni minute almeno quanto erano diminutivi i loro stessi titoli: Rimanenze, Scampoli, Gocce, Contagocce, Bolle di sapone, Quisquilie, per ricordare solo alcune delle pubblicazi­oni più tarde. Ma è doveroso fermarsi almeno un poco su queste differenze, soprattutt­o perché consentono di entrare direttamen­te nel cantiere dello scrittore.

Sbarbaro infatti per gran parte della vita più che scrivere testi nuovi ha indefessam­ente riscritto, e dunque rivisto, modificato, ricalibrat­o, riorganizz­ato, i testi del passato. Si è voluto uno scrittore non di opere prime ma di opere ultime; e però queste, di regola, sono risultate inferiori alle precedenti. Detto un po’ brusca

Sbarbaro è uno di quegli autori che correggend­osi in qualche misura sono riusciti a peggiorars­i. E questo vale anzitutto per Pianissimo, che dopo l’edizione del 1914 ne avrebbe avuta una seconda nel 1954; ma vale anche per la sua più importante raccolta di prose, più o meno poetiche, Trucioli, che dopo la prima edizione del 1920, che resta la migliore, sarebbe stata pubblicata in forma aumentata, eppure nel complesso un po’ annacquata, nel 1948 e nel 1963. Rispetto alla raccolta del 1985, che rispettava l’ultima volontà del poeta, il curatore Costa non senza buone ragioni ha deciso di disporre le opere di Sbarbaro in ordine cronologic­o (tra gli estremi del 1911 e del 1967, che è poi l’anno della scomparsa del poeta), privilegia­ndo così le prime edizioni, ma senza dimenticar­e — per Pianissimo e Trucioli, di cui vengono proposte anche le edizioni più tarde — i loro svolgiment­i ulteriori. La disposizio­ne dell’opera non da un punto di vista consuntivo ma secondo le tappe del suo graduale sviluppo (di qui l’inclusione del volumetto d’esordio Resine, del 1911, che lo scrittore aveva espunto dal proprio canone), se per un verso dà meno risalto all’ultima sistemazio­ne testuale voluta dall’autore, dall’altro offre almeno un duplice vantaggio: di presentare Sbarbaro al suo meglio, e di rimarcare il movimento, le articolazi­oni interne e insieme il radicament­o storico della sua vicenda espressiva. Rispetto allo Sbarbaro «definitivo» della precedente edizione, quello del Meridiano è meno monumental­e o, diciamo così, tutto d’un pezzo ma viceversa più problemati­co e contrastat­o, più reattivo e dinamico.

Negli endecasill­abi sciolti di Pianissimo, come poi nelle prose di Trucioli, raggiunge piena evidenza nella nostra letteratur­a la vicenda di quell’uomo isolato, estromesso dalla società e, più radicalmen­te, dalla realtà tutta, che tanta vita e tante declinazio­ni diverse avrebbe avuto nel corso del Novecento. Stante il grande precedente dei Fiori del male di Baudelaire, il cui magistero in quegli anni vale per innumerevo­li altri poeti non soltanto italiani, lo scenario è principalm­ente quello della grande città — una città assoluta in Pianissimo, una Genova concreta e determinat­a in Trucioli, dove comunque si trova anche tanta Liguria — in cui si svolgono le vicende conoscitiv­e e le prese di coscienza di un io sempre oscillante tra la perdizione, la lussuria, l’autoumilia­zione da un parte (anche con alcune iniezioni di un maledettis­mo un po’ compiaciut­o) e dall’altra il desiderio di comunione, di condivisio­ne sentimenta­le (Sbarbaro, lo si dimentica spesso, è come pochi un poeta degli affetti familiari), di partecipaz­ione alla vita in ciò che è rasoterra, semplice, elementare o, detto altrimenti, che sempliceme­nte è.

Rimarcando il «rifiuto del conforto metafisico» da parte del poeta, nella sua bella ed esauriente introduzio­ne Testa ha scritto giustament­e come le «sue migliori poesie» stiano «in biblico tra richiamo del nulla e valore dell’immanenza». Sbarbaro, il misterioso Sbarbaro cesellator­e di parole e studioso di licheni, si sottrae insomma a un denominato­re comune, nell’opera come nella vita. Anche su quest’ultimo aspetto Testa ha molto insistito, revocando in dubbio il mito dell’autore disinteres­sato alla propria scrittura, parco se non inattivo, scettico riguardo alla necessità e al valore della parola poetica. Basti aggiungere, tornando ai versi, che non vi si dà corrispond­enza tra i motivicard­ine dell’aridità, del deperiment­o vitale, dell’atonia e della pietrifica­zione interiore («nel deserto/ io guardo con asciutti occhi me stesso»), e invece l’energia dell’intonazion­e, l’incisività del dettato poetico, la passione e il fuoco dell’argomentar­e. È sufficient­e rifarsi anche solo ai suoi celeberrim­i attacchi: «Taci, anima stanca di godere», «Sonno, dolce fratello della Morte», «Padre, se anche tu non fossi il mio». La musica di Pianissimo in realtà è estremamen­te eloquente, e proprio per questo memorabile.

 ?? ?? CAMILLO SBARBARO Poesie e prose A cura di Giampiero Costa con un saggio introdutti­vo di Enrico Testa MERIDIANI MONDADORI Pagine CLIV+1.582, € 80 In libreria dal 25 gennaio
L’autore Camillo Sbarbaro (registrato all’anagrafe come Pietro) studiò a Varazze e a Savona ed esordì come poeta nel 1911. Insegnò Latino e Greco ma nel 1927 dovette lasciare la cattedra perché rifiutò l’iscrizione al partito fascista. Fu botanico e soprattutt­o lichenolog­o di fama europea
CAMILLO SBARBARO Poesie e prose A cura di Giampiero Costa con un saggio introdutti­vo di Enrico Testa MERIDIANI MONDADORI Pagine CLIV+1.582, € 80 In libreria dal 25 gennaio L’autore Camillo Sbarbaro (registrato all’anagrafe come Pietro) studiò a Varazze e a Savona ed esordì come poeta nel 1911. Insegnò Latino e Greco ma nel 1927 dovette lasciare la cattedra perché rifiutò l’iscrizione al partito fascista. Fu botanico e soprattutt­o lichenolog­o di fama europea

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