Corriere della Sera - La Lettura
Il poeta delle minuzie che scrisse e si riscrisse
Una nuova edizione delle opere recupera le versioni originali delle raccolte, molto più riuscite delle revisioni successive compiute dall’autore: un grande della lirica italiana del Novecento che si calò nelle contraddizioni della città ma cantò pure la natura e gli affetti famigliari
Molto porta a indicare negli anni che corrono tra il 1903 e il 1916 l’epoca d’oro della poesia italiana del Novecento. Forse soltanto il quindicennio che va dalla metà dei Cinquanta al 1971, ch’è un anno di uscite di grande rilievo, potrebbe rappresentare un concorrente credibile. Sono infatti anni, quelli d’inizio secolo, gremiti di opere spesso fondative della nostra poesia contemporanea. Nel 1903 escono i Canti di Castelvecchio di Pascoli e Alcyone di d’Annunzio, ma da quello stesso anno cominciano via via ad uscire le raccolte dei poeti più giovani, poi etichettati, più o meno legittimamente, come crepuscolari: Govoni, Corazzini, Palazzeschi, Moretti; del 1911 sono poi I colloqui di Gozzano, del ’12 Coi miei occhi di Saba (la futura Trieste e una donna sezione del Canzoniere), del ’13 i Frammenti lirici di Rebora, del ’14 i Canti Orfici di Campana e Pianissimo di Sbarbaro, del ’16 Il porto sepolto di Ungaretti. Senza dimenticare che sono anche gli anni di Marinetti e dei futuristi (il primo Manifesto del futurismo è del 1909), nonché di alcune riviste di assoluto rilievo storico, prima fra tutte «La Voce» di Papini e Prezzolini. Poi arriverà la Grande guerra e le cose, certo non solo in poesia, non saranno più le stesse.
Si tratta dunque di un periodo dal fascino impareggiabile, tanto più per le spinte e contraddizioni fecondissime che lo attraversano. I grandi vecchi sono ancora lì, nel pieno del loro fervore creativo e con la loro ingombrante autorevolezza poetica; e i giovani, che della poesia di Pascoli e d’Annunzio si sono tutti nutriti, prendono all’unisono e anche un po’ misteriosamente — quasi avessero captato nell’aria una nuova e alternativa frequenza storico-esistenziale — una strada diversa, pur nelle tante differenze individuali. Del resto, era l’unico modo per conquistarsi un posto al sole, fosse pure, come alcuni degli stessi protagonisti credevano, il sole declinante di un crepuscolo. In realtà, era qualcosa che non solo cominciava, ma che offriva fin da subito non poco della sua parte migliore. Quanto ha spinto i poeti primo-novecenteschi su una nuova strada — quasi sempre approfittando dei materiali poetici ereditati da quei due maestri, ma per costruire qualcosa di completamente diverso — non è stata semplice strategia letteraria, bensì necessità di mettere a fuoco la particolarità irriducibile della propria vita, il che poi spesso ha significato, per il paradosso di reciprocità tra io e tutti che dà corpo alla poesia lirica, anche la condizione umana in quanto tale.
Con questi autori, anzitutto, è entrata con decisione nella nostra poesia l’epoca contemporanea, il cui emblema più grandioso e insieme più terrificante è costituito dalla grande città (Pascoli e d’Annunzio, va ricordato, sono sostanzialmente considerarti poeti della natura), rispetto a cui la modernità tecnologica e tutta positiva — davvero a sirene spiegate — del futurismo da un lato, e la dimensione smarrita e decentrata, il circolo chiuso e svilito della quotidianità già piccolo-borghese dall’altro, non sono che le due facce di una stessa medaglia.
Tra il controcanto dannunziano e pascoliano di chi si dichiara diverso e una diversità effettivamente posseduta, una pietra miliare di quegli anni così prolifici di poesia è rappresentato, come già si è detto, dal secondo libro di versi di Camillo Sbarbaro: Pianissimo. Ci torneremo, ma è necessario dire dapprima come questa raccolta sia disponibile adesso all’interno di un’edizione che rappresenterà a sua volta un punto di riferimento per l’opera dello scrittore di Santa Margherita Ligure (dove era nato nel 1888; ma è vissuto soprattutto a Genova, quindi a Spotorno, in provincia di Savona, in un ritiro dalla scrittura e dal mondo molto più conclamato che reale): Poesie e prose, molto ben curato da Giampiero Costa, con un saggio introduttivo di Enrico Testa in uscita per i Meridiani Mondadori.
Dal punto di vista dell’organizzazione dei testi questo volume presenta alcune differenze sostanziali rispetto all’edizione congiunta Scheiwiller-Garzanti che nel 1985 per la prima volta aveva riunito, a cura di Gina Lagorio e dello stesso Vanni Scheiwiller, L’opera in versi e in prosa di Sbarbaro, provocando allora un piccolo spaesamento in chi da sempre era abituato a leggerlo in edizioni minute almeno quanto erano diminutivi i loro stessi titoli: Rimanenze, Scampoli, Gocce, Contagocce, Bolle di sapone, Quisquilie, per ricordare solo alcune delle pubblicazioni più tarde. Ma è doveroso fermarsi almeno un poco su queste differenze, soprattutto perché consentono di entrare direttamente nel cantiere dello scrittore.
Sbarbaro infatti per gran parte della vita più che scrivere testi nuovi ha indefessamente riscritto, e dunque rivisto, modificato, ricalibrato, riorganizzato, i testi del passato. Si è voluto uno scrittore non di opere prime ma di opere ultime; e però queste, di regola, sono risultate inferiori alle precedenti. Detto un po’ brusca
Sbarbaro è uno di quegli autori che correggendosi in qualche misura sono riusciti a peggiorarsi. E questo vale anzitutto per Pianissimo, che dopo l’edizione del 1914 ne avrebbe avuta una seconda nel 1954; ma vale anche per la sua più importante raccolta di prose, più o meno poetiche, Trucioli, che dopo la prima edizione del 1920, che resta la migliore, sarebbe stata pubblicata in forma aumentata, eppure nel complesso un po’ annacquata, nel 1948 e nel 1963. Rispetto alla raccolta del 1985, che rispettava l’ultima volontà del poeta, il curatore Costa non senza buone ragioni ha deciso di disporre le opere di Sbarbaro in ordine cronologico (tra gli estremi del 1911 e del 1967, che è poi l’anno della scomparsa del poeta), privilegiando così le prime edizioni, ma senza dimenticare — per Pianissimo e Trucioli, di cui vengono proposte anche le edizioni più tarde — i loro svolgimenti ulteriori. La disposizione dell’opera non da un punto di vista consuntivo ma secondo le tappe del suo graduale sviluppo (di qui l’inclusione del volumetto d’esordio Resine, del 1911, che lo scrittore aveva espunto dal proprio canone), se per un verso dà meno risalto all’ultima sistemazione testuale voluta dall’autore, dall’altro offre almeno un duplice vantaggio: di presentare Sbarbaro al suo meglio, e di rimarcare il movimento, le articolazioni interne e insieme il radicamento storico della sua vicenda espressiva. Rispetto allo Sbarbaro «definitivo» della precedente edizione, quello del Meridiano è meno monumentale o, diciamo così, tutto d’un pezzo ma viceversa più problematico e contrastato, più reattivo e dinamico.
Negli endecasillabi sciolti di Pianissimo, come poi nelle prose di Trucioli, raggiunge piena evidenza nella nostra letteratura la vicenda di quell’uomo isolato, estromesso dalla società e, più radicalmente, dalla realtà tutta, che tanta vita e tante declinazioni diverse avrebbe avuto nel corso del Novecento. Stante il grande precedente dei Fiori del male di Baudelaire, il cui magistero in quegli anni vale per innumerevoli altri poeti non soltanto italiani, lo scenario è principalmente quello della grande città — una città assoluta in Pianissimo, una Genova concreta e determinata in Trucioli, dove comunque si trova anche tanta Liguria — in cui si svolgono le vicende conoscitive e le prese di coscienza di un io sempre oscillante tra la perdizione, la lussuria, l’autoumiliazione da un parte (anche con alcune iniezioni di un maledettismo un po’ compiaciuto) e dall’altra il desiderio di comunione, di condivisione sentimentale (Sbarbaro, lo si dimentica spesso, è come pochi un poeta degli affetti familiari), di partecipazione alla vita in ciò che è rasoterra, semplice, elementare o, detto altrimenti, che semplicemente è.
Rimarcando il «rifiuto del conforto metafisico» da parte del poeta, nella sua bella ed esauriente introduzione Testa ha scritto giustamente come le «sue migliori poesie» stiano «in biblico tra richiamo del nulla e valore dell’immanenza». Sbarbaro, il misterioso Sbarbaro cesellatore di parole e studioso di licheni, si sottrae insomma a un denominatore comune, nell’opera come nella vita. Anche su quest’ultimo aspetto Testa ha molto insistito, revocando in dubbio il mito dell’autore disinteressato alla propria scrittura, parco se non inattivo, scettico riguardo alla necessità e al valore della parola poetica. Basti aggiungere, tornando ai versi, che non vi si dà corrispondenza tra i motivicardine dell’aridità, del deperimento vitale, dell’atonia e della pietrificazione interiore («nel deserto/ io guardo con asciutti occhi me stesso»), e invece l’energia dell’intonazione, l’incisività del dettato poetico, la passione e il fuoco dell’argomentare. È sufficiente rifarsi anche solo ai suoi celeberrimi attacchi: «Taci, anima stanca di godere», «Sonno, dolce fratello della Morte», «Padre, se anche tu non fossi il mio». La musica di Pianissimo in realtà è estremamente eloquente, e proprio per questo memorabile.