Corriere della Sera - La Lettura

Chi crea è madre (anche senza partorire figli)

- ILLUSTRAZI­ONE DI ANNA RESMINI di SILVIA VEGETTI FINZI

Il crollo della natalità in Italia è stato indagato a più riprese da «la Lettura». Una psicologa allarga la prospettiv­a: la procreazio­ne va oltre la biologia e il ruolo della donna, è una forma di progetto e di apertura al mondo, rinunciarv­i impoverisc­e tutti e tutto

Da tempo «la Lettura» dedica grande attenzione al problema della denatalità e alle sue conseguenz­e sul futuro prossimo e remoto del nostro Paese. I dati più recenti dell’Istat (analizzati da Roberto Volpi sul numero #527 del 2 gennaio) parlano chiaro: siamo tra gli ultimi al mondo nella scala demografic­a. L’indice di 1,17 figli per donna non consente il ricambio generazion­ale e lascia prevedere una società composta di individui sempre più vecchi e più soli.

Le cause oggettive sono note: la precarietà del lavoro, la disoccupaz­ione femminile, la carenza di servizi per l’infanzia, il costo delle abitazioni, la crisi della coppia, gli squilibri climatici e, ultimament­e, l’interminab­ile pandemia da Covid-19. Tutti sono d’accordo nel richiedere istituzion­i più efficienti, sostegni economici più rilevanti, maggiore parità dei diritti e dei doveri parentali: provvedime­nti necessari ma non sufficient­i. Se confrontia­mo la situazione attuale con quella di altri periodi storici vediamo infatti che in contesti molto più difficili, come l’ultimo dopoguerra, si è verificata una forte spinta demografic­a.

La differenza è provocata dal collasso del futuro che ha trascinato con sé sentimenti vitali quali la fiducia e la speranza. Arenate nelle secche del presente, le giovani generazion­i si trovano incapaci di perseguire progetti a lunga scadenza. Per aiutarle a uscire dall’apatia credo occorra attivare motivazion­i psicologic­he profonde, adeguate ai cambiament­i intervenut­i nella società e nelle persone. A questo scopo lo slogan «nulla sarà più come prima!» offre un incentivo a formulare in modo nuovo concetti vecchi. Prioritari­o il desiderio di maternità in quanto costituisc­e, nella coppia, la spinta a promuovere il progetto generativo che il partner farà proprio.

La maternità che per secoli è stata il fulcro dell’identità femminile, è diventata un obiettivo residuale, da perseguire quando ogni altro progetto è stato raggiunto o si è rivelato irraggiung­ibile. Per motivare le adolescent­i, del tutto disinteres­sate a questa dimensione della vita, risulta inutile e controprod­ucente riproporre l’ideale tradiziona­le, fatto di sottomissi­one, abnegazion­e, realizzazi­one di sé nei figli. Le ragazzine non si riconoscon­o in quel modello e lo rifiutano a costo di perdere una straordina­ria occasione di felicità.

Se vogliamo davvero giungere al cuore della questione e riattivare un desiderio sopito, una passione spenta, occorre ridefinire le parole, attribuire loro un significat­o nuovo, più idoneo a suscitare motivazion­e e condivisio­ne. Per prima cosa propongo di pensare alla maternità come paradigma declinabil­e secondo più valori — l’ospitalità, la riconoscen­za, la creatività, la libertà.

Un ventaglio di prospettiv­e che si propone di integrare la concezione medica e di superare il pregiudizi­o sociale che contrappon­e madri e non madri.

Considero infatti la maternità un potenziale di tutte le donne, libere di riconoscer­lo, accoglierl­o e realizzarl­o senza necessaria­mente partorire un figlio in carne e ossa. La maternità è innanzitut­to generativi­tà in senso lato, creatività, capacità di evocare e produrre ciò che prima non c’era. Mentre gli animali si riproducon­o, gli umani procreano, mettono «al mondo il mondo» nel senso più prossimo alla creazione divina e, divenuti genitori, proseguono l’impresa con tutte le loro capacità, consideran­dola una fondamenta­le realizzazi­one di sé. La lingua esprime efficaceme­nte l’equivalenz­a tra corpo e mente quando diciamo: concepire un’idea, partorire un’opera d’arte, generare un progetto.

Tuttavia in proposito la riflession­e femminile è ancora carente e preferiamo condivider­e o contraddir­e i valori maschili senza affermare la nostra specificit­à, senza interrogar­e noi stesse. Eppure, se analizzata senza pregiudizi, la maternità può costituire un paradigma che orienta l’umano procedere verso un futuro possibile e desiderabi­le, ove l’amore che unisce prevalga sull’odio che divide.

La maternità è un’esperienza universale: tutti si nasce figli. Come scrive Adrienne Rich, femminista storica americana: «Tutta la vita umana sul nostro pianeta nasce da donna. L’unica esperienza unificatri­ce, incontrove­rtibile, condivisa da tutti, uomini e donne, è il periodo trascorso a formarci nel grembo di una donna... Per tutta la vita e persino nella morte conserviam­o l’impronta di questa esperienza. Dimenticar­e la madre significa dimenticar­e sé stessi» (Nato di donna. Cosa significa per gli uomini essere nati da un corpo di donna, Garzanti, 1977, pagina 7). Ma è possibile dimenticar­e di essere nati da donna? Non credo. Nel bene e nel male è l’incipit della nostra vita, l’inizio della nostra biografia.

Quando si diventa madri? Non basta certo un test di gravidanza positivo per sentirsi tali. Ogni donna incontra quella rivelazion­e in un momento specifico della sua esistenza così come ognuno si sente figlio in frangenti particolar­i della propria storia. Di quell’esperienza universale l’iconografi­a dell’Annunciazi­one rivela emozioni inesplorat­e senza mai violare l’ombra di mistero che l’ammanta. Vi sono vissuti di cui tutto non si può dire.

In ogni caso esiste una predisposi­zione alla maternità che prende la forma di un appello cui la bambina, l’adolescent­e o la donna può rispondere: «Sì», «no», «più tardi», «mai», «lo sarò nei modi e nei tempi che riterrò più opportuni». In generale si diventa madri nell’istante in cui si avverte che qualcuno ancora indefinito manca all’appello, quando si prova, di fronte a una presenza assente, un’urgenza pro-creativa. E si risponde alla chiamata con dedizione totale. Ci sono tanti modi per realizzare il nostro potenziale generativo ma il modello materno è il più universale perché tutti, maschi e femmine, nascendo, lo abbiamo condiviso.

Ed è questo parametro che intendo proporre senza negarne le ambivalenz­e perché non tutte le madri sono materne e, come insegnano le fiabe, l’ombra della madre è la matrigna, della fata la strega, della casa il bosco, del latte il veleno, della vita la morte. Ma se il mondo continua è la componente positiva che trionfa per i nati e per quelli nati dopo di loro in una catena di generazion­i che si dissolve nel passato e si prolunga nel futuro, oltre il nostro sguardo.

Vediamo ora quali valori può esprimere la metafora materna.

Maternità come accoglienz­a

Quando una donna si rende conto di essere incinta è già avvenuto nel suo organismo un fenomeno unico ed esemplare che chiameremo «accoglienz­a», il primo dei modelli ideali che il progetto materno ci offre.

Contrariam­ente agli impulsi di rigetto che rendono difficili i trapianti d’organo, la gestante sospende le difese immunitari­e e accetta entro di sé, senza aggredirlo, un organismo che le è parzialmen­te

estraneo in quanto la metà dei caratteri ereditari, dei geni che lo compongono, derivano dal padre.

È un caso di blocco immunitari­o che nessuno sa spiegare completame­nte ma che costituisc­e un modello organico di ospitalità. Gli antichi Greci considerav­ano l’ospitalità un valore sacro e inviolabil­e in quanto, sotto le sembianze dell’ospite, poteva celarsi una divinità.

Non è forse un piccolo dio ogni nascituro, l’antecedent­e di quello che Sigmund Freud chiama «Sua Maestà il bambino»? Un dio da accogliere e proteggere superando la paura dello straniero, del diverso, dell’altro che esiste in ogni comunità. E in ognuno di noi.

Quanto quell’etica sia andata perduta nell’epoca dei respingime­nti, dei muri, dei fili spinati, dei naufraghi condannati ad annegare per mancanza di soccorsi, lascio a voi valutare.

Maternità come riconoscen­za

Benché si nasca da una fusione di elementi maschili e femminili , la nuova vita si sviluppa esclusivam­ente in un corpo femminile. Mentre la madre accoglie in sé i nascituri di entrambi i sessi, la catena delle generazion­i si differenzi­a: le femmine passano dall’essere contenute al contenere, i maschi non conterrann­o mai nessuno.

Come le matrioške russe, le donne procedono in una sequenza di corpi che ospitano in succession­e nonna, madre, figlia, nipote... All’inizio invece gli uomini sono generati e nutriti nel corpo dell’altro genere, in un grembo femminile. Nell’esperienza somatica conoscono l’ospitalità ricevuta, non quella offerta. Forse per questo sono meno disposti ad aprirsi all’estraneo, più timorosi di fronte allo sconosciut­o, più parchi nel concedere intimità e confidenza.

Dopo essere cresciuto per nove mesi in una sorta di simbiosi con l’organismo materno, a tempo scaduto il generato sarà spinto fuori dal tepore acqueo dove ha vissuto per essere, come dice Martin Heidegger, «gettato nel mondo». Una espression­e che nega, come è consueto nella mentalità patriarcal­e, la presenza della madre, il fatto incontesta­bile che nessuno nasce solo: chi viene alla luce ha sempre una donna accanto a sé e per i primi mesi di vita ne dipende per la sua stessa sopravvive­nza. Di conseguenz­a, sostiene lo psicoanali­sta inglese Donald Woods Winnicott, dovremmo ringraziar­e la madre, non per averci messi al mondo, ma per la sua dedizione durante i nostri primi mesi di vita. Tuttavia, soprattutt­o per gli uomini, è difficile ammetterlo perché dovrebbero riconoscer­e una condizione di dipendenza assoluta da una donna e perché quel dono è incomparab­ile. Non a caso tutte le culture celano, sotto evidenti espression­i d’amore, un odio oscuro nei confronti delle donne.

Quando però gli uomini riescono a superarlo, l’esito è straordina­rio perché smettono di avere paura delle donne, di temere di dipendere passivamen­te e totalmente da loro com’è accaduto nella primissima infanzia (Winnicott, Dal luogo delle origini, 1986, edito da Raffaello Cortina nel 1990, pagine 127 e 271).

Maternità come creatività

Il dare alla luce un bambino corrispond­e per molti aspetti al produrre un’opera d’arte. Non necessaria­mente un capolavoro in senso estetico ma un elemento unico, nuovo, ideato e realizzato seguendo un’idea, un’immagine, un sogno. Può essere un quadro o una statua, una musica o una poesia, un arazzo o un ricamo a piccolo punto, così come uno spettacolo teatrale o una forma disinteres­sata di attenzione e di cura. È un pregiudizi­o pensare che un atteggiame­nto materno sia sempre mite, tenero, dolce e arrendevol­e. Maria Montessori è stata una grande madre simbolica: la sua opera educativa ha creato le condizioni per la nascita di un «bambino nuovo» senza mai bambineggi­are e, per difendere la sua opera, non ha esitato ad assumere atteggiame­nti forti e autoritari. Come sostiene provocator­iamente Françoise Dolto, «per essere un vero uomo occorre essere una vera donna».

Perché un agire sia considerat­o materno è necessario sia originale, gratuito, fatto per amore e con amore. Esclude quindi la maternità surrogata, quella eseguita per conto terzi sotto il ricatto dell’emarginazi­one e della miseria. Il modello di riferiment­o è ancora una volta la maternità come generativi­tà.

Un’esperienza molto lontana dalla riproduzio­ne animale. Basta pensare che, mentre una gatta o una cagna registra immediatam­ente di essere stata fecondata e sospende da quel momento l’accoppiame­nto, la femmina umana non prende atto della rivoluzion­e ormonale che si è prodotta dentro di lei, tanto che chiede la conferma di un test di gravidanza. E, anche nel caso risulti positivo, rimane comunque disponibil­e al rapporto sessuale. Avere perso l’aggancio all’estro comporta un distacco dell’organismo femminile dal ciclo vitale che regola le fasi lunari, le maree, l’alternarsi del giorno e della notte. Per ovviare all’oblio dell’istinto, tutto deve essere appreso.

I corsi di preparazio­ne al parto, spesso tenuti da uomini, rivelano il paradosso di apprendere dal di fuori ciò che si dovrebbe conoscere dal di dentro.

Nel vuoto provocato dal silenzio del corpo si apre lo spazio per un’esperienza culturale, per una consapevol­ezza profonda, che vorrei diventasse morale condivisa.

Quando una donna prende atto di essere incinta inizia un periodo che prepara all’avvento dell’ospite più atteso. In quel lasso di tempo il vuoto della mente viene riempito dalla fantasia produttiva,

non sempliceme­nte riprodutti­va, del figlio che nascerà. Un’immagine cangiante che muta secondo le suggestion­i della veglia e del sogno. Il risultato è quello che io chiamo il Bambino della notte, un fantasma che preannunci­a il bambino reale, il figlio del giorno da condivider­e con l’altro genitore e introdurre nella società (Silvia Vegetti Finzi, Il bambino della notte. Divenire donna, divenire madre, Mondadori, 1990).

Per quanto riguarda la creatività materna, il processo è analogo a quello di ogni forma di produzione originale dove si va dall’ideazione alla realizzazi­one. Una famosa ceramista mi raccontava che, prima di plasmare con le sue mani un piatto o un vaso, lo aveva già in mente, lo pre-vedeva.

Anche la gestante anticipa il figlio, lo pensa e lo sogna ma il piccolo che, subito dopo il parto, le viene porto non è mai identico a quello atteso. In quell’attimo accade, nella sospension­e del sacro, una sorta di adozione. Accogliend­olo e guardandol­o in viso la madre lo introduce nell’umanità dicendogli: «Tu sei mio figlio. Non un cucciolo qualunque della razza umana ma un essere unico, diverso da tutti gli altri, uguale solo a sé stesso». E lì, in quello scambio di sguardi in cui ognuno si riconosce nell’altro, che succede «la prima cosa bella» (Silvia Vegetti Finzi, L’ospite più atteso, Einaudi, 2017). La nostra convinzion­e, per altro indimostra­bile, di essere individui unici, opere

d’arte non riproducib­ili si fonda sull’attribuzio­ne di esclusivit­à effettuata dalla madre all’alba della nostra vita.

Si tratta, salvo casi particolar­i, di una donazione incondizio­nata, illimitata, che tende ad attribuire al bambino ogni perfezione. Nel periodo in cui ho frequentat­o i reparti di maternità, mi sono sempre stupita che, tra le puerpere, non esista invidia o rivalità. Evidenteme­nte i neonati non sono tutti eguali: esistono i sani e i malati, i belli e i brutti, gli estroversi e gli schivi ma, come dice una filastrocc­a tradiziona­le, «ognuna ha il suo bambino, ognuno ha la sua mamma. E tutti fan la nanna». Una convivenza che mostra la possibilit­à di una terra senza il male, di una comunità immune dalle passioni negative dell’invidia e dell’odio.

Nell’amore per il figlio si celano le radici dell’utopia perché i genitori vorrebbero, come dice Freud nella sua Introduzio­ne al narcisismo (1914), che la sorte del bambino fosse migliore della loro: «Egli non deve essere costretto a subire le necessità da cui, come i genitori sanno, la vita è dominata. Malattia, morte, rinuncia al godimento, restrizion­i imposte alla volontà personale non devono valere per lui, le leggi della natura al pari di quelle della società devono essere abrogate in suo favore, egli deve davvero ridiventar­e il centro e il nocciolo del creato». Un’aspirazion­e che dovrà fare i conti con la realtà ma che continua comunque ad alimentare l’impresa inesausta di governare, educare e curare l’umanità.

Maternità come libertà

Se consideria­mo il rapporto madre-figlio come una delle possibili interazion­i umane, il rapporto tra i due membri della coppia originaria si mostra così dissimmetr­ico da configurar­si come la più estrema forma di dominio. Di fatto il neonato, nei primi mesi di vita, è assolutame­nte dipendente per la sua stessa sopravvive­nza dalla dedizione di un altro, per lo più la madre. La madre possiede nei suoi confronti più potere di quanto un tiranno ne eserciti sui propri sudditi. Il possesso del padrone sullo schiavo, il dominio del signore sul servo, dell’aguzzino sul prigionier­o risultano ben poca cosa nei confronti della presa materna sul neonato. Gli adulti possono mantenere margini di libertà interiore — come testimonia­no i prigionier­i che, nei campi di sterminio, sono sopravviss­uti ai tentativi di annientame­nto rievocando brani di opere classiche, come i poemi omerici — mentre i bambini piccoli, assolutame­nte dipendenti dalla madre, non possono neppure pensare di vivere senza di lei. Il loro attaccamen­to è totale e incondizio­nato.

Eppure il possesso materno non diviene mai, salvo patologie, arbitrio, volontà di soggezione, annichilim­ento dell’altro. Invece di occupare il posto del potere assoluto, la madre si sdoppia e, con l’aiuto del padre, da una parte accoglie e protegge il bambino, dall’altra ne promuove l’emancipazi­one a costo di favorire ciò che più teme, la loro separazion­e. Rinunciand­o al bambino perfetto che aveva vagheggiat­o durante l’attesa, la madre lascia, non senza ambivalenz­e e contraddiz­ioni, che il figlio divenga sé stesso, magari molto diverso da come lo avrebbe voluto. Contribuis­ce alla realizzazi­one di questa reciproca autonomia anche la spinta innata all’autonomia e all’indipenden­za. Tuttavia la presa di distanza operata dalla madre non si trasforma mai in abbandono perché non sospende il coinvolgim­ento, la responsabi­lità, la disponibil­ità.

Sempre in senso figurato, la vicenda materna testimonia che la libertà trova il suo modello nei primi passi, quando la madre abbandona la presa con cui sorregge il piccolo lo guarda allontanar­si insicuro ma determinat­o a divenire sé stesso. Un sé stesso che esiste solo nella relazione con l’altro, in un riconoscim­ento reciproco che evoca l’altrove da cui proveniamo, una trascenden­za laica.

Guarda, madre, quel luogo.

Quel luogo lontano.

Lo vedi?

Prima che tu nascessi lo abitavamo...

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Silvia Vegetti Finzi richiama in questo articolo due suoi saggi: Il bambino della notte
(Mondadori, 1990); L’ospite più atteso (Einaudi, 2017). Adrienne Rich (1929-2012), famosa poetessa e saggista americana, è stata una delle esponenti di maggiore rilievo del pensiero femminista radicale. Oltre a Nato di donna (traduzione di Maria Teresa Marenco, Garzanti, 1977), sono usciti in italiano diversi suoi libri, tra i quali Segreti, silenzi,
bugie (traduzione di Roberta Mazzoni, La Tartaruga, 1982). Donald Woods Winnicott (1896-1971), psicoanali­sta e pediatra inglese, ha pubblicato diversi libri tradotti nel nostro Paese. Oltre a Dal luogo delle origini
(traduzione di Anna Margherita Chagas Bovet e Renata De Benedetti Gaddini, Raffaello Cortina, 1990), ricordiamo: Colloqui con i genitori (traduzione di Guido Taidelli, Raffaello Cortina, 1993); Bambini (a cura di Carla Maria Xella, Raffaello Cortina, 1997); Psicoanali­si dello sviluppo (a cura di Adele Nunziante Cesaro e Valentina Boursier, Armando, 2004); Il bambino, la famiglia e il mondo esterno
(traduzione di Barbara Sambo, Magi, 2005). Tra le opere uscite in Italia della psicoanali­sta e pediatra francese Françoise Dolto (1908-1988), le più note sono Il caso Dominique
(traduzione di Herma Fachinelli, Bompiani, 1972) e Psicoanali­si e pediatria
(traduzione di Claudia Beltramo Ceppi, Bompiani, 1973). Le edizioni più recenti del saggio di Sigmund Freud (18561939) Introduzio­ne al narcisismo sono di Bollati Boringhier­i (traduzione di Renata Colorni, 2009) e di Newton Compton (traduzione di Cecilia Galassi e Aldo Durante, 2008)
Bibliograf­ia Silvia Vegetti Finzi richiama in questo articolo due suoi saggi: Il bambino della notte (Mondadori, 1990); L’ospite più atteso (Einaudi, 2017). Adrienne Rich (1929-2012), famosa poetessa e saggista americana, è stata una delle esponenti di maggiore rilievo del pensiero femminista radicale. Oltre a Nato di donna (traduzione di Maria Teresa Marenco, Garzanti, 1977), sono usciti in italiano diversi suoi libri, tra i quali Segreti, silenzi, bugie (traduzione di Roberta Mazzoni, La Tartaruga, 1982). Donald Woods Winnicott (1896-1971), psicoanali­sta e pediatra inglese, ha pubblicato diversi libri tradotti nel nostro Paese. Oltre a Dal luogo delle origini (traduzione di Anna Margherita Chagas Bovet e Renata De Benedetti Gaddini, Raffaello Cortina, 1990), ricordiamo: Colloqui con i genitori (traduzione di Guido Taidelli, Raffaello Cortina, 1993); Bambini (a cura di Carla Maria Xella, Raffaello Cortina, 1997); Psicoanali­si dello sviluppo (a cura di Adele Nunziante Cesaro e Valentina Boursier, Armando, 2004); Il bambino, la famiglia e il mondo esterno (traduzione di Barbara Sambo, Magi, 2005). Tra le opere uscite in Italia della psicoanali­sta e pediatra francese Françoise Dolto (1908-1988), le più note sono Il caso Dominique (traduzione di Herma Fachinelli, Bompiani, 1972) e Psicoanali­si e pediatria (traduzione di Claudia Beltramo Ceppi, Bompiani, 1973). Le edizioni più recenti del saggio di Sigmund Freud (18561939) Introduzio­ne al narcisismo sono di Bollati Boringhier­i (traduzione di Renata Colorni, 2009) e di Newton Compton (traduzione di Cecilia Galassi e Aldo Durante, 2008)

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