Corriere della Sera - La Lettura
Chi crea è madre (anche senza partorire figli)
Il crollo della natalità in Italia è stato indagato a più riprese da «la Lettura». Una psicologa allarga la prospettiva: la procreazione va oltre la biologia e il ruolo della donna, è una forma di progetto e di apertura al mondo, rinunciarvi impoverisce tutti e tutto
Da tempo «la Lettura» dedica grande attenzione al problema della denatalità e alle sue conseguenze sul futuro prossimo e remoto del nostro Paese. I dati più recenti dell’Istat (analizzati da Roberto Volpi sul numero #527 del 2 gennaio) parlano chiaro: siamo tra gli ultimi al mondo nella scala demografica. L’indice di 1,17 figli per donna non consente il ricambio generazionale e lascia prevedere una società composta di individui sempre più vecchi e più soli.
Le cause oggettive sono note: la precarietà del lavoro, la disoccupazione femminile, la carenza di servizi per l’infanzia, il costo delle abitazioni, la crisi della coppia, gli squilibri climatici e, ultimamente, l’interminabile pandemia da Covid-19. Tutti sono d’accordo nel richiedere istituzioni più efficienti, sostegni economici più rilevanti, maggiore parità dei diritti e dei doveri parentali: provvedimenti necessari ma non sufficienti. Se confrontiamo la situazione attuale con quella di altri periodi storici vediamo infatti che in contesti molto più difficili, come l’ultimo dopoguerra, si è verificata una forte spinta demografica.
La differenza è provocata dal collasso del futuro che ha trascinato con sé sentimenti vitali quali la fiducia e la speranza. Arenate nelle secche del presente, le giovani generazioni si trovano incapaci di perseguire progetti a lunga scadenza. Per aiutarle a uscire dall’apatia credo occorra attivare motivazioni psicologiche profonde, adeguate ai cambiamenti intervenuti nella società e nelle persone. A questo scopo lo slogan «nulla sarà più come prima!» offre un incentivo a formulare in modo nuovo concetti vecchi. Prioritario il desiderio di maternità in quanto costituisce, nella coppia, la spinta a promuovere il progetto generativo che il partner farà proprio.
La maternità che per secoli è stata il fulcro dell’identità femminile, è diventata un obiettivo residuale, da perseguire quando ogni altro progetto è stato raggiunto o si è rivelato irraggiungibile. Per motivare le adolescenti, del tutto disinteressate a questa dimensione della vita, risulta inutile e controproducente riproporre l’ideale tradizionale, fatto di sottomissione, abnegazione, realizzazione di sé nei figli. Le ragazzine non si riconoscono in quel modello e lo rifiutano a costo di perdere una straordinaria occasione di felicità.
Se vogliamo davvero giungere al cuore della questione e riattivare un desiderio sopito, una passione spenta, occorre ridefinire le parole, attribuire loro un significato nuovo, più idoneo a suscitare motivazione e condivisione. Per prima cosa propongo di pensare alla maternità come paradigma declinabile secondo più valori — l’ospitalità, la riconoscenza, la creatività, la libertà.
Un ventaglio di prospettive che si propone di integrare la concezione medica e di superare il pregiudizio sociale che contrappone madri e non madri.
Considero infatti la maternità un potenziale di tutte le donne, libere di riconoscerlo, accoglierlo e realizzarlo senza necessariamente partorire un figlio in carne e ossa. La maternità è innanzitutto generatività in senso lato, creatività, capacità di evocare e produrre ciò che prima non c’era. Mentre gli animali si riproducono, gli umani procreano, mettono «al mondo il mondo» nel senso più prossimo alla creazione divina e, divenuti genitori, proseguono l’impresa con tutte le loro capacità, considerandola una fondamentale realizzazione di sé. La lingua esprime efficacemente l’equivalenza tra corpo e mente quando diciamo: concepire un’idea, partorire un’opera d’arte, generare un progetto.
Tuttavia in proposito la riflessione femminile è ancora carente e preferiamo condividere o contraddire i valori maschili senza affermare la nostra specificità, senza interrogare noi stesse. Eppure, se analizzata senza pregiudizi, la maternità può costituire un paradigma che orienta l’umano procedere verso un futuro possibile e desiderabile, ove l’amore che unisce prevalga sull’odio che divide.
La maternità è un’esperienza universale: tutti si nasce figli. Come scrive Adrienne Rich, femminista storica americana: «Tutta la vita umana sul nostro pianeta nasce da donna. L’unica esperienza unificatrice, incontrovertibile, condivisa da tutti, uomini e donne, è il periodo trascorso a formarci nel grembo di una donna... Per tutta la vita e persino nella morte conserviamo l’impronta di questa esperienza. Dimenticare la madre significa dimenticare sé stessi» (Nato di donna. Cosa significa per gli uomini essere nati da un corpo di donna, Garzanti, 1977, pagina 7). Ma è possibile dimenticare di essere nati da donna? Non credo. Nel bene e nel male è l’incipit della nostra vita, l’inizio della nostra biografia.
Quando si diventa madri? Non basta certo un test di gravidanza positivo per sentirsi tali. Ogni donna incontra quella rivelazione in un momento specifico della sua esistenza così come ognuno si sente figlio in frangenti particolari della propria storia. Di quell’esperienza universale l’iconografia dell’Annunciazione rivela emozioni inesplorate senza mai violare l’ombra di mistero che l’ammanta. Vi sono vissuti di cui tutto non si può dire.
In ogni caso esiste una predisposizione alla maternità che prende la forma di un appello cui la bambina, l’adolescente o la donna può rispondere: «Sì», «no», «più tardi», «mai», «lo sarò nei modi e nei tempi che riterrò più opportuni». In generale si diventa madri nell’istante in cui si avverte che qualcuno ancora indefinito manca all’appello, quando si prova, di fronte a una presenza assente, un’urgenza pro-creativa. E si risponde alla chiamata con dedizione totale. Ci sono tanti modi per realizzare il nostro potenziale generativo ma il modello materno è il più universale perché tutti, maschi e femmine, nascendo, lo abbiamo condiviso.
Ed è questo parametro che intendo proporre senza negarne le ambivalenze perché non tutte le madri sono materne e, come insegnano le fiabe, l’ombra della madre è la matrigna, della fata la strega, della casa il bosco, del latte il veleno, della vita la morte. Ma se il mondo continua è la componente positiva che trionfa per i nati e per quelli nati dopo di loro in una catena di generazioni che si dissolve nel passato e si prolunga nel futuro, oltre il nostro sguardo.
Vediamo ora quali valori può esprimere la metafora materna.
Maternità come accoglienza
Quando una donna si rende conto di essere incinta è già avvenuto nel suo organismo un fenomeno unico ed esemplare che chiameremo «accoglienza», il primo dei modelli ideali che il progetto materno ci offre.
Contrariamente agli impulsi di rigetto che rendono difficili i trapianti d’organo, la gestante sospende le difese immunitarie e accetta entro di sé, senza aggredirlo, un organismo che le è parzialmente
estraneo in quanto la metà dei caratteri ereditari, dei geni che lo compongono, derivano dal padre.
È un caso di blocco immunitario che nessuno sa spiegare completamente ma che costituisce un modello organico di ospitalità. Gli antichi Greci consideravano l’ospitalità un valore sacro e inviolabile in quanto, sotto le sembianze dell’ospite, poteva celarsi una divinità.
Non è forse un piccolo dio ogni nascituro, l’antecedente di quello che Sigmund Freud chiama «Sua Maestà il bambino»? Un dio da accogliere e proteggere superando la paura dello straniero, del diverso, dell’altro che esiste in ogni comunità. E in ognuno di noi.
Quanto quell’etica sia andata perduta nell’epoca dei respingimenti, dei muri, dei fili spinati, dei naufraghi condannati ad annegare per mancanza di soccorsi, lascio a voi valutare.
Maternità come riconoscenza
Benché si nasca da una fusione di elementi maschili e femminili , la nuova vita si sviluppa esclusivamente in un corpo femminile. Mentre la madre accoglie in sé i nascituri di entrambi i sessi, la catena delle generazioni si differenzia: le femmine passano dall’essere contenute al contenere, i maschi non conterranno mai nessuno.
Come le matrioške russe, le donne procedono in una sequenza di corpi che ospitano in successione nonna, madre, figlia, nipote... All’inizio invece gli uomini sono generati e nutriti nel corpo dell’altro genere, in un grembo femminile. Nell’esperienza somatica conoscono l’ospitalità ricevuta, non quella offerta. Forse per questo sono meno disposti ad aprirsi all’estraneo, più timorosi di fronte allo sconosciuto, più parchi nel concedere intimità e confidenza.
Dopo essere cresciuto per nove mesi in una sorta di simbiosi con l’organismo materno, a tempo scaduto il generato sarà spinto fuori dal tepore acqueo dove ha vissuto per essere, come dice Martin Heidegger, «gettato nel mondo». Una espressione che nega, come è consueto nella mentalità patriarcale, la presenza della madre, il fatto incontestabile che nessuno nasce solo: chi viene alla luce ha sempre una donna accanto a sé e per i primi mesi di vita ne dipende per la sua stessa sopravvivenza. Di conseguenza, sostiene lo psicoanalista inglese Donald Woods Winnicott, dovremmo ringraziare la madre, non per averci messi al mondo, ma per la sua dedizione durante i nostri primi mesi di vita. Tuttavia, soprattutto per gli uomini, è difficile ammetterlo perché dovrebbero riconoscere una condizione di dipendenza assoluta da una donna e perché quel dono è incomparabile. Non a caso tutte le culture celano, sotto evidenti espressioni d’amore, un odio oscuro nei confronti delle donne.
Quando però gli uomini riescono a superarlo, l’esito è straordinario perché smettono di avere paura delle donne, di temere di dipendere passivamente e totalmente da loro com’è accaduto nella primissima infanzia (Winnicott, Dal luogo delle origini, 1986, edito da Raffaello Cortina nel 1990, pagine 127 e 271).
Maternità come creatività
Il dare alla luce un bambino corrisponde per molti aspetti al produrre un’opera d’arte. Non necessariamente un capolavoro in senso estetico ma un elemento unico, nuovo, ideato e realizzato seguendo un’idea, un’immagine, un sogno. Può essere un quadro o una statua, una musica o una poesia, un arazzo o un ricamo a piccolo punto, così come uno spettacolo teatrale o una forma disinteressata di attenzione e di cura. È un pregiudizio pensare che un atteggiamento materno sia sempre mite, tenero, dolce e arrendevole. Maria Montessori è stata una grande madre simbolica: la sua opera educativa ha creato le condizioni per la nascita di un «bambino nuovo» senza mai bambineggiare e, per difendere la sua opera, non ha esitato ad assumere atteggiamenti forti e autoritari. Come sostiene provocatoriamente Françoise Dolto, «per essere un vero uomo occorre essere una vera donna».
Perché un agire sia considerato materno è necessario sia originale, gratuito, fatto per amore e con amore. Esclude quindi la maternità surrogata, quella eseguita per conto terzi sotto il ricatto dell’emarginazione e della miseria. Il modello di riferimento è ancora una volta la maternità come generatività.
Un’esperienza molto lontana dalla riproduzione animale. Basta pensare che, mentre una gatta o una cagna registra immediatamente di essere stata fecondata e sospende da quel momento l’accoppiamento, la femmina umana non prende atto della rivoluzione ormonale che si è prodotta dentro di lei, tanto che chiede la conferma di un test di gravidanza. E, anche nel caso risulti positivo, rimane comunque disponibile al rapporto sessuale. Avere perso l’aggancio all’estro comporta un distacco dell’organismo femminile dal ciclo vitale che regola le fasi lunari, le maree, l’alternarsi del giorno e della notte. Per ovviare all’oblio dell’istinto, tutto deve essere appreso.
I corsi di preparazione al parto, spesso tenuti da uomini, rivelano il paradosso di apprendere dal di fuori ciò che si dovrebbe conoscere dal di dentro.
Nel vuoto provocato dal silenzio del corpo si apre lo spazio per un’esperienza culturale, per una consapevolezza profonda, che vorrei diventasse morale condivisa.
Quando una donna prende atto di essere incinta inizia un periodo che prepara all’avvento dell’ospite più atteso. In quel lasso di tempo il vuoto della mente viene riempito dalla fantasia produttiva,
non semplicemente riproduttiva, del figlio che nascerà. Un’immagine cangiante che muta secondo le suggestioni della veglia e del sogno. Il risultato è quello che io chiamo il Bambino della notte, un fantasma che preannuncia il bambino reale, il figlio del giorno da condividere con l’altro genitore e introdurre nella società (Silvia Vegetti Finzi, Il bambino della notte. Divenire donna, divenire madre, Mondadori, 1990).
Per quanto riguarda la creatività materna, il processo è analogo a quello di ogni forma di produzione originale dove si va dall’ideazione alla realizzazione. Una famosa ceramista mi raccontava che, prima di plasmare con le sue mani un piatto o un vaso, lo aveva già in mente, lo pre-vedeva.
Anche la gestante anticipa il figlio, lo pensa e lo sogna ma il piccolo che, subito dopo il parto, le viene porto non è mai identico a quello atteso. In quell’attimo accade, nella sospensione del sacro, una sorta di adozione. Accogliendolo e guardandolo in viso la madre lo introduce nell’umanità dicendogli: «Tu sei mio figlio. Non un cucciolo qualunque della razza umana ma un essere unico, diverso da tutti gli altri, uguale solo a sé stesso». E lì, in quello scambio di sguardi in cui ognuno si riconosce nell’altro, che succede «la prima cosa bella» (Silvia Vegetti Finzi, L’ospite più atteso, Einaudi, 2017). La nostra convinzione, per altro indimostrabile, di essere individui unici, opere
d’arte non riproducibili si fonda sull’attribuzione di esclusività effettuata dalla madre all’alba della nostra vita.
Si tratta, salvo casi particolari, di una donazione incondizionata, illimitata, che tende ad attribuire al bambino ogni perfezione. Nel periodo in cui ho frequentato i reparti di maternità, mi sono sempre stupita che, tra le puerpere, non esista invidia o rivalità. Evidentemente i neonati non sono tutti eguali: esistono i sani e i malati, i belli e i brutti, gli estroversi e gli schivi ma, come dice una filastrocca tradizionale, «ognuna ha il suo bambino, ognuno ha la sua mamma. E tutti fan la nanna». Una convivenza che mostra la possibilità di una terra senza il male, di una comunità immune dalle passioni negative dell’invidia e dell’odio.
Nell’amore per il figlio si celano le radici dell’utopia perché i genitori vorrebbero, come dice Freud nella sua Introduzione al narcisismo (1914), che la sorte del bambino fosse migliore della loro: «Egli non deve essere costretto a subire le necessità da cui, come i genitori sanno, la vita è dominata. Malattia, morte, rinuncia al godimento, restrizioni imposte alla volontà personale non devono valere per lui, le leggi della natura al pari di quelle della società devono essere abrogate in suo favore, egli deve davvero ridiventare il centro e il nocciolo del creato». Un’aspirazione che dovrà fare i conti con la realtà ma che continua comunque ad alimentare l’impresa inesausta di governare, educare e curare l’umanità.
Maternità come libertà
Se consideriamo il rapporto madre-figlio come una delle possibili interazioni umane, il rapporto tra i due membri della coppia originaria si mostra così dissimmetrico da configurarsi come la più estrema forma di dominio. Di fatto il neonato, nei primi mesi di vita, è assolutamente dipendente per la sua stessa sopravvivenza dalla dedizione di un altro, per lo più la madre. La madre possiede nei suoi confronti più potere di quanto un tiranno ne eserciti sui propri sudditi. Il possesso del padrone sullo schiavo, il dominio del signore sul servo, dell’aguzzino sul prigioniero risultano ben poca cosa nei confronti della presa materna sul neonato. Gli adulti possono mantenere margini di libertà interiore — come testimoniano i prigionieri che, nei campi di sterminio, sono sopravvissuti ai tentativi di annientamento rievocando brani di opere classiche, come i poemi omerici — mentre i bambini piccoli, assolutamente dipendenti dalla madre, non possono neppure pensare di vivere senza di lei. Il loro attaccamento è totale e incondizionato.
Eppure il possesso materno non diviene mai, salvo patologie, arbitrio, volontà di soggezione, annichilimento dell’altro. Invece di occupare il posto del potere assoluto, la madre si sdoppia e, con l’aiuto del padre, da una parte accoglie e protegge il bambino, dall’altra ne promuove l’emancipazione a costo di favorire ciò che più teme, la loro separazione. Rinunciando al bambino perfetto che aveva vagheggiato durante l’attesa, la madre lascia, non senza ambivalenze e contraddizioni, che il figlio divenga sé stesso, magari molto diverso da come lo avrebbe voluto. Contribuisce alla realizzazione di questa reciproca autonomia anche la spinta innata all’autonomia e all’indipendenza. Tuttavia la presa di distanza operata dalla madre non si trasforma mai in abbandono perché non sospende il coinvolgimento, la responsabilità, la disponibilità.
Sempre in senso figurato, la vicenda materna testimonia che la libertà trova il suo modello nei primi passi, quando la madre abbandona la presa con cui sorregge il piccolo lo guarda allontanarsi insicuro ma determinato a divenire sé stesso. Un sé stesso che esiste solo nella relazione con l’altro, in un riconoscimento reciproco che evoca l’altrove da cui proveniamo, una trascendenza laica.
Guarda, madre, quel luogo.
Quel luogo lontano.
Lo vedi?
Prima che tu nascessi lo abitavamo...