Corriere della Sera - La Lettura
Bisogna venire in Europa (o morire) per fare l’amore
L’algerino affronta il tema del cosiddetto «arabo» di fronte alla rappresentazione del corpo nudo che gli si svela solo al di là del Mediterraneo o nell’Aldilà. «I giovani nordafricani scappano da una miseria culturale e sessuale»
In una fredda e brumosa notte parigina, l’«arabo» si ritrova prigioniero volontario del Museo Picasso, circondato dalle tele di un’esposizione — 1932. Année érotique — che è l’Inferno sulla terra e il Paradiso agognato, rappresentazione plastica di tutto ciò che più teme e desidera. Una delle huri, vergini promesse nell’aldilà, è qui e ora: la giovanissima Marie-Thérèse Walter, spogliata, scomposta e cannibalizzata da un Picasso già cinquantenne. Riuscirà l’arte a guarire il turbato visitatore? Con questa domanda nella zaino, lo scrittore algerino Kamel Daoud, si è sottoposto al test di esporre «l’arabo» che è in lui — e che chiamerà Abdellah, servo di Dio — alla nudità dell’Occidente, a rischio di una catastrofe. Il diario di questa coraggiosa prova arriva ora in Italia per La nave di Teseo: Il pittore che divora le donne (traduzione di Cettina Caliò); e Daoud si conferma voce indispensabile per sciogliere l’equivoco di civiltà e comprendere, finalmente, tanto la brama di libertà quanto la mancanza di strumenti dei ragazzi sbarcati in Europa dal Mediterraneo del Sud.
Chi è l’«arabo», indicato sempre tra virgolette? Chi è Abdellah che guarda attraverso i suoi occhi?
«È sorprendente, arrivando in Occidente, sentirsi definire “arabo”: non si tratta di una nazionalità, è a malapena una cultura comune, uno sguardo. È come se io arrivassi in Europa e vi chiamassi “cristiani”: italiani, inglesi, polacchi, norvegesi, tutti assieme. Non avrebbe senso... E così la lingua araba: è come il latino, non una lingua, ma solo una radice. Dunque l’“arabo” non esiste che ai vostri occhi, è un concetto, una geografia fantasma. Non è una realtà. Eppure è difficile sfuggirne, perché tra sconosciuti comunichiamo a parole e luoghi comuni. Ho voluto, allora, confrontare questo cliché con me stesso e con gli altri, con il modo in cui sono percepito dagli altri. Ho provato a confrontare questo sguardo con quello dell’Occidente».
Il nodo del confronto è l’erotismo, «la chiave per comprendere il mio universo». Perché?
«È un elemento comune a tutti, anche di culture diverse: due esseri che si desiderano parlano una lingua universale. Perché abbiamo lo stesso corpo, a cambiare è il modo di curarlo, esporlo, tatuarlo o velarlo. La cultura è esattamente la maniera di comportarsi nei confronti del corpo. Ecco perché la sessualità ci permette di comprendere una popolazione, una tradizione, la vita di un uomo o di una donna».
Dunque il tema del suo libro diventa: l’«arabo» davanti al modo occidentale di svelare il corpo, in particolare di donna. «L’Occidente è il nudo che mi destabilizza»...
«Quando si arriva per la prima volta in Europa, ci sono due cose che sorprendono: la coppie che si baciano in strada; e i corpi esposti ovunque, nelle vetrine, sui manifesti. Può essere estremamente destabilizzante per chi proviene da una cultura in cui il corpo è nascosto, velato, non esiste, è un sottinteso. La prima volta che sono entrato in una chiesa ho notato che, diversamente da una moschea, era piena di corpi...».
Persino nudi...
«A questo volevo arrivare. Ci sono due nudi: quello religioso, del Cristo crocifisso, degli angeli; e poi quello secolare, dell’arte dal Rinascimento fino a oggi. L’Occidente è stato edificato attorno al corpo nudo, che sia quello del martirio o del desiderio. Da noi è esattamente il contrario: la nostra civiltà è stata costruita sul corpo nascosto. Le sole a essere descritte nei dettagli sono le huri del Paradiso. Questa destabilizzazione può provocare violenza, malintesi e al tempo stesso paura. Una donna nuda per un uomo arabo è lo specchio di ciò che nasconde, di quello che desidera ma nega».
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