Corriere della Sera - La Lettura
1893-1993-2093 Le tre età dell’America
Il trittico si apre con l’ucronia di una New York ottocentesca dove le nozze gay sono legali e, anzi, incoraggiate; segue una vicenda ambientata un secolo dopo (l’era dell’Aids); infine una distopia mescola i generi. Un’alternativa al «realismo puro»
Le isole e il continente
Nella seconda parte si legge il rapporto difficile fra le Hawaii, da dove proviene l’autrice, e il resto degli Stati Uniti
però inusuale da una precisa variazione. Yanagihara dà infatti vita a un’America di fine Ottocento del tutto alternativa (supportata, come le altre parti, dalle bellissime mappe che aprono il volume): un’ucronia in cui esistono degli «Stati Liberi», sulla costa Est, in cui il matrimonio omosessuale non è soltanto legale e accettato, ma addirittura incoraggiato. In effetti, le grandi famiglie newyorkesi ricorrono abitualmente a matrimoni combinati per consolidare le loro alleanze, e la vicenda gira intorno al giovane e ingenuo scapolo David Bingham, che il ricco nonno vorrebbe sistemare presso un piacente vedovo quarantunenne, Charles Griffith appunto, finché l’innamoramento per uno spiantato, e in qualche modo sospetto, insegnante di pianoforte, Edmund Bishop, non farà saltare i piani originari. Il cambiamento, rispetto a un’analoga vicenda storicamente ortodossa (e quindi eterosessuale), è minimo ma sufficiente a fare prendere coscienza al lettore del modo in cui stereotipi e pregiudizi di genere condizionano la ricezione del materiale narrativo, ed è forse per questo la parte più interessante delle tre che compongono il volume. Leggendo Washington Square è difficile, se non impossibile, che anche il lettore più aperto di mente non si faccia qualche domanda su quanto effettivamente neutrale sia la propria percezione del mondo, specie in dettagli, come le relazioni tra sessi, che tendiamo a dare per scontati.
Lasciato l’ereditiero David in un finale piuttosto aperto, ecco che ci troviamo di fronte a un altro e differente David Bingham,
esattamente cent’anni dopo, nel 1993, e in un’America anch’essa differente: stavolta si tratta di un giovane immigrato hawaiano, fidanzato con un uomo più anziano e ricco (Charles Griffith, naturalmente) e alle prese con i pregiudizi degli amici di lui, pure anzianotti e benestanti; lo sfondo è quello della scena gay della New York di metà anni Novanta, dove imperversa lo spettro dell’Aids. E se qualcuno — magari aderente al movimento della #ownvoice, che vorrebbe assegnare il diritto di parlare di determinate nicchie, minoranze o sottoculture solo a chi ne fa parte in prima persona — si chiedesse perché Yanagihara insista a parlare specificamente di uomini omosessuali, l’autrice ha già dato la sua risposta al «Guardian», perentoria e netta come ci si aspetta da qualcuno che aspiri alla massima grandezza: «Scrivo di quel che mi pare».
Ci si trova, in ogni caso, di fronte a due nuovi David e Charles: di primo acchito, questa ricomparsa di personaggi misteriosamente legati, in epoche e luoghi diversi, può fare pensare all’Atlante delle nuvole (2004), capolavoro di David Mitchell (e all’origine di un film, invece, mediocre, girato nel 2012 dalle sorelle Wachowski), in realtà il curioso approccio di Yanagihara trova un antesignano più preciso in Martin e John del suo connazionale Dale Peck, libro del 1993 per lo più dimenticato da noi, ma con un fedele seguito di cultori nel mondo anglosassone. Il parallelo non sta tanto nella comune tematica omosessuale, quanto nel modo in cui i vari racconti che compongono Martin e John presentano personaggi con gli stessi nomi di battesimo in ruoli e contesti diversi, quasi fossero «attori letterari». Non si creda tuttavia che questo secondo «movimento» sia semplicemente un ponte: la stessa Yanagihara è hawaiana (per quanto i genitori siano rispettivamente di origine giapponese e coreana) e il rapporto subordinato, e segretamente conflittuale, delle «sue» isole rispetto alla grande madrepatria è il sottotesto centrale di questa parte del romanzo.
Dopo il realismo di Lipo-wao-nahele, la terza e più corposa vicenda che completa Verso il paradiso, cioè Zona Otto ,è invece una distopia fantascientifica a pieno titolo. Siamo nel 2093 e nuovi David e Charles (e Eden, e Nathaniel...) si dovranno confrontare con un mondo devastato dall’emergenza climatica e da nuove pandemie, in cui detta legge una brutale dittatura e l’accesso alle risorse di base non è uguale per tutti. Una conferma della tendenza generale, ormai in atto anche in quel bastione del realismo che era fino a poco tempo fa la literary fiction nordamericana, a fare saltare le barriere tra i generi introducendo liberamente elementi presi dal fantasy e dalla fantascienza. Siamo entrati ufficialmente nell’era dell’ibridazione tra generi: se gli autori dell’Europa dell’Est lo hanno annunciato, spetta agli americani, dominatori della seconda metà del Novecento, porre il sigillo su questo definitivo superamento del «realismo puro».
La nuova strategia narrativa messa in atto da Yanagihara potrà spiazzare alcuni lettori, specie quelli che si aspettavano qualcosa di simile a Una vita come tante, ma vale la pena sottolineare come lo stile cristallino dell’autrice sia intatto (anzi, anche più affilato), al pari della sua capacità di invischiare il lettore in una narrazione dal passo apparentemente lento ma in realtà irresistibile. E forse, alla luce di tutto ciò, il vero nume tutelare di Verso
il paradiso, al netto di ucronie e distopie, è I sonnambuli di Hermann Broch, che con la sua perentoria polifonia (anche lì peraltro organizzata in due novelle, più un terzo testo più lungo) ha guardato così oltre nel futuro da essere guida per chi, come Yanagihara, prova oggi a tracciare nuove strade per la narrativa contemporanea. Come Broch, negli anni Trenta del Novecento, sfidando ogni pregiudizio sperimentava dispositivi nuovissimi, a costo di annoiare il lettore alla ricerca di facili emozioni, così Yanagihara, negli anni Venti di questo secolo, tenta di spingersi oltre ogni attesa, in territori non solo sconosciuti al lettore, ma anche a lei stessa.
A differenza, però, del capolavoro di Broch, Verso il paradiso ha un’ulteriore, e più contemporanea, preoccupazione. Lontano dal distacco protosociologico dei Sonnambuli, il romanzo di Yanagihara, nato in un’epoca parimenti di crisi — ma una crisi di tipo nuovo, senza esempi nella storia passata direttamente evocabili per tentare una qualche divinazione — conduce la sua attenzione su cosa significhi, davvero, preoccuparsi per gli altri. È qui che la terza parte, la più candidata a scioccare i lettori tradizionalisti con il suo sfrenato mash-up di generi, assume il suo senso reale, e più profondo: se siamo (come speriamo) ancora in grado di preoccuparci del nostro vicino, siamo pronti ad accettare l’idea che in un mondo globalizzato, e in grave crisi, il nostro vicino possa essere chiunque.
Semplicemente «impensabile». Ma ciò che è successo a Washington il 6 gennaio 2021 nel racconto del deputato democratico Jamie Raskin è di più: Unthinkable. Trauma, Truth and the Trials of American Democracy (Harper, pp. 444, $ 27,99) mischia cronaca, azione giudiziaria (culminata il 13 febbraio con Raskin a capo dell’accusa contro Trump) e dramma privato: il suicidio del figlio Tommy (31 dicembre 2020): 45 giorni unthinkable.