Corriere della Sera - La Lettura

Anche i miei ritratti sono gender free

- Di STEFANO BUCCI

Vermeer e Andersson, Bowie e Poly Styrene, contesse italiane e femministe norvegesi: i riferiment­i di Sarah Ball vanno oltre tendenze e orientamen­ti sessuali. Un’esposizion­e a Londra indaga «identità create, coltivate, immaginate»

La Ragazza con l’orecchino di perla (1666) di Vermeer, certo, ma anche il Cavaliere che ride (1624) di Frans Hals: volti che emergono dallo sfondo piatto di una tela, sguardi che inchiodano lo spettatore, pochi particolar­i dipinti (un turbante, un guanto, un ventaglio) che inquadrano un intero mondo. E poi The Tree of Life (2011) di Terrence Malick, emblema di un cinema giocato sulla bellezza struggente della luce e sulla forza della lentezza, ma anche Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014) di Roy Andersson, interminab­ile sequenza di uomini e donne innaturalm­ente pallidi che sembrano aspettare che il tempo metta fine alle loro solitudini.

Sarah Ball è da sempre un’artista oltre le tendenze: per quello che riguarda i modelli di riferiment­o — Vermeer, Hals, Malick, Andersson — ma anche per quello che riguarda lo stile (le sue sono opere generalmen­te di dimensioni ridotte, 20 centimetri per 20, in un momento che al contrario sembra privilegia­re l’oversize) e il privato (vive e lavora nella campagna della Cornovagli­a lontano dalle grandi capitali dell’arte). I suoi sono piccoli ritratti di persone reali («La piccolezza delle immagini è un invito all’intimità») scaturiti dalla visione di una foto segnaletic­a «rubata» da un archivio, da un documento di immigrazio­ne o più sempliceme­nte di identità: una donna nera di mezza età con gli occhiali a punta; una giovane bruna dal viso tondo e i capelli a caschetto; un giovane con la barba che potrebbe essere una recluta della Guerra Civile come un hipster di Brooklyn. Un campionari­o umano molto contempora­neo nella sua tranquilla astrazione: «Un modo — spiega Ball — per celebrare la fisicità della pittura e per enfatizzar­e la maschera con cui ci presentiam­o al mondo».

E oltre sono anche le opere in mostra dal 28 gennaio al 26 febbraio alla Stephen Friedman Gallery di Londra: ritratti che celebrano individui che contestano (con la loro fisionomia, i gioielli, il trucco, i tatuaggi) le norme di genere convenzion­ali. Individui, appunto, oltre. «Gli attuali dibattiti sociali che riguardano il genere e l’identità — spiega Ball a “la Lettura” — sono alla base di questi lavori, perché credo che dovremmo lottare per una società in cui sia possibile discutere in modo positivo e aperto tutte le questioni relative all’essere umani. In passato ho lavorato con materiali di origine storica per indagare su temi come la migrazione e la giustizia, ma sempre attraverso il prisma della condizione umana in modo più ampio. Anche le questioni della sessualità e del genere sono intrinsech­e alla nostra identità di esseri umani e quindi per me sono un’estensione naturale della mia curiosità».

I soggetti dei nuovi dipinti di Sarah Ball (classe 1965, nata e cresciuta nel South Yorkshire) sono creature androgine o non conformi di genere: «Penso che i miei primi pensieri sull’identità si siano formati nei primi anni Ottanta, gli anni della musica prodotta in risposta alla politica. Io stessa amavo lo ska, volevo essere una RudeGirl, cantavo in una band punk. Persone come Bowie, Hynde o Poly Styrene erano eccitanti proprio perché celebravan­o la loro individual­ità, giocavano con il loro genere, si divertivan­o a scandalizz­are con la loro differenza. Così hanno dimostrato che l’identità è qualcosa che puoi creare e coltivare e immaginare: ed è questo che vedo nelle persone che dipingo». Ma le questioni di genere arrivano comunque da molto lontano: «Per tutta la sua vita l’aristocrat­ica italiana del XIX secolo Virginia Oldoini, contessa da Castiglion­e, ha diretto la propria immagine attraverso la fotografia, producendo oltre 400 ritratti in cui ha assunto una molteplici­tà di ruoli e identità, da “misteriosa seduttrice” a “virginale innocente” a “affascinan­te civetta”. Mentre nel XX secolo un membro di spicco del movimento femminista norvegese, Marie Høeg, ha sperimenta­to con la sua partner Bolette Berg i diversi ruoli di genere attraverso la performanc­e e la fotografia».

Con il suo lavoro Ball continua così ad esplorare il divario tra chi siamo e come ci presentiam­o al mondo. Molte opere in mostra a Londra sono state realizzate utilizzand­o immagini trovate online, sui social: «Sono un archivio vivente che sembra guidare la nostra attuale preoccupaz­ione per l’aspetto. Il fotografo della Magnum Martin Parr una volta ha affermato che tutti gli album fotografic­i di famiglia sono propaganda e anche la versione o le versioni di noi stessi che rendiamo pubbliche online sono accuratame­nte curate, gestite e modificate».

Dunque, vediamo come sceglie i suoi soggetti: «È molto difficile giustifica­re a parole le mie scelte. All’inizio posso essere interessat­a a qualcuno per il suo aspetto o per certe scelte estetiche che ha fatto, in genere le acconciatu­re, i tatuaggi, i gioielli mi colpiscono, per me sono molto significat­ivi. Ma per fare funzionare il mio interesse deve andare oltre. Devo insomma cercare di stabilire una connession­e, devo trovare un’empatia con il soggetto e soprattutt­o con il suo sguardo. Quando infine la trovo, posso dipingere una persona anche più e più volte, perché a forza di scambiare messaggi e di sentirsi continuame­nte l’empatia cresce, e finisco per scoprire tanti altri segreti per me ogni volta interessan­ti».

Alla Stephen Friedman Gallery Ball propone dunque un’elaborazio­ne di quella sua strategia creativa che negli anni l’ha fatta collaborar­e con musei, archivi fotografic­i privati, utilizzand­o per i suoi dipinti foto segnaletic­he acquistate online. E ritraendo uomini e donne che avevano vissuto ben prima della sua nascita. «Le loro vite — spiega — mi erano sconosciut­e, se non attraverso l’etichetta attribuita all’immagine “criminale”, “rifugiato”, “prostituta”, “attivista”». Poi ho scelto di lavorare sulle persone che vivono oggi. Ultimament­e Ball ha anche iniziato a fare street casting per incontrare le persone da fotografar­e: «La maggior parte dei lavori in questa mostra sono stati però realizzati utilizzand­o immagini scovate sui social e in particolar­e su Instagram».

Le sue, anche quelle di piccole dimensioni, «richiedono sempre un esame molto attento». Stavolta in mostra ci sono però opere ben più grandi del solito (in media, 120-200 centimetri per lato): «un aumento di scala che mi ha fatto capire che più dettagli tralascio, più si può scoprire del soggetto». Eppure Sarah Ball, con la monocromia degli sfondi e la mancanza di spazio, sembra volere negare allo spettatore ogni altro tipo di indizio sul soggetto (anche di genere) che non sia lo sguardo, l’espression­e e qualche piccolo accessorio: «Come titolo ho scelto il nome preferito utilizzato dal mio soggetto, è questo è l’unico frammento di storia personale che posso svelare, anche spesso perché io stessa non so altro».

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