Corriere della Sera - La Lettura
Griffa, pittura ostinata e solitaria
Si potrebbe scrivere una storia dell’arte degli «isolati»: personalità di rilievo che, per ragioni critiche o mercantili, non sono emerse o, dopo stagioni di fortuna, sono entrate in un cono d’ombra. Un posto centrale, in questa cartografia parallela, è occupato da Giorgio Griffa, al quale, dal prossimo 2 marzo, il Centre Georges Pompidou di Parigi dedica un’antologica che forse ne determinerà la riscoperta a livello internazionale (fino al 6 giugno). La curatrice Christine Macel ha ordinato, in un percorso rigoroso, una selezione di 18 opere realizzate dal 1969 al 2021 (donate al Pompidou) insieme con un omaggio a Marcel Proust, La Recherche: 24 tele trasparenti che, nel lambirsi, determinano gioiose sovrapposizioni.
Si tratta di un’occasione importante per accostarsi alla ricerca ostinata e solitaria di questo «incongregabile» dell’arte italiana del secondo Novecento, nato a Torino nel 1936, laureatosi in Giurisprudenza, coetaneo di Giovanni Anselmo, Jan Fabre e Jannis Kounellis, formatosi in dialogo con le culture dell’informale (allievo di Filippo Scroppo, tra i protagonisti torinesi del Movimento Arte Concreta), avvicinatosi, dalla fine degli anni Sessanta, all’Arte Povera e, poi, al movimento Pittura analitica e ai gruppi Bmpt (Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel Parmentier, Niele Toroni) e Support/ Surfaces. Tentando, però, di difendere sempre la propria autonomia.
In sintonia con le istanze poetiche di Bmpt e Support/Surfaces, Griffa compie un’azione di rara eleganza e, insieme, di notevole radicalità, muovendosi su diversi piani. Per un verso, in tempi dominati da una crescente diffidenza nei confronti della pittura, riafferma con forza la centralità di questa disciplina. Per un altro verso, sembra comportarsi come il guardiano della tomba nella quale è conservato il corpo di quella pratica antica. Per un altro verso ancora, elabora il lutto del (presunto) declino di quel linguaggio, mantenendone vivo il desiderio attraverso il lavoro quotidiano. «Io non rappresento nulla, io dipingo», ama ripetere. E poi: «Essendo io convinto dell’intelligenza della pittura, ponevo la mia mano al servizio dei colori che incontravano la tela, limitavo il mio intervento al gesto semplice di appoggiare il pennello».
Sorretto da una vocazione analitica, alla calda emotività poverista Griffa preferisce le soluzioni raffreddate. Impegnato a distanziare segni e impulsi, compie un percorso di estrema formalizzazione. Attento non al soggetto ma ai modi del dipingere, rifiuta le «invasioni» del disegno. Indirettamente influenzato dall’Arte Povera, riduce al minimo l’utilizzo del pennello. Sapiente nel trattare materiali fragili di differente spessore (cotone, lino, canapa), si concentra innanzitutto sulla consistenza dei «supporti». Poi, riporta la sintassi dell’opera a unità di base prive di significati denotativi e connotativi, a una serie di «dati» finiti e costanti. Decostruisce così il canone della pittura — governato dal principio di somiglianza — per metterne in rilievo l’autonomia strutturale. Fino a trasformare l’arte in una fitta drammaturgia di punti e di linee sulla superficie.
Griffa, indifferente a ogni rimando metaforico e simbolico, celebra l’essenza del colore che costituisce l’anima dell’esperienza pittorica. «Io penso che la mia non sia mai un’astrazione, io la chiamo pittura concreta (...). La mia pittura è reale! È un pezzo di realtà! (...). È un segno che si è aggiunto alla realtà», ha detto, in un dialogo con Hans-Ulrich Obrist, Griffa. Il quale, per ritornare a una felice suggestione di Roland Barthes, sembra voler coniugare scrittura e cucina. La capacità di tracciare linee e figure, con «l’esercizio della punta», che scava e incide, facendosi «proiezione del corpo». E l’abilità nel «trasformare la materia secondo la scala completa delle sue consistenze, con operazioni di intenerimento, ispessimento, fluidificazione, granulazione, lubrificazione».
Da questa filosofia nascono carte e tele spartane, non trattate né tese, sistemate direttamente sul pavimento, appese alla parete con una serie di chiodi, senza cornici, abitate da composizioni elementari che sembrano attenersi a un’armonia segreta. Vi affiorano non figure ma linee intere o tratteggiate, orizzontali, verticali o diagonali. E poi: aste, segni, numeri, lettere, macchie. Arabeschi liberi e liquidi, privi di significato, testimonianza di quel bisogno di musicalizzare l’arte di cui aveva parlato Guillaume Apollinaire agli inizi del Novecento. Rigature esili e sbavature inesatte, esito di interventi esigui, castigati. Pianure proibite, attraversate da sofisticati contrasti tonali. Fragili riscritture del divenire della pittura, debitrici della lezione di Henri Matisse. Tracce del fare. Impronte concrete, lasciate dai movimenti della mano. Vestigia di una presenza e, insieme, di un’assenza. Segmenti primari, ordinati l’uno accanto all’altro, che si ripetono, si alimentano a vicenda e vibrano, ripudiando la fredda precisione della geometria, ma anche la casualità del gesto. Si tratta di grammatiche semplici e non finite, che sembrano mettere in scena solo il processo della loro stessa costruzione. Invenzioni che, come sottolinea Christine Macel, suggeriscono il transito dall’apollineo al dionisiaco. Infine, accade qualcosa di imprevisto. «Il quadro esce dallo studio. È come un ragazzo che è cresciuto, è diventato grande e vuole viversi la sua vita», dice Griffa.