Corriere della Sera - La Lettura
La Casa dei preti
Dopo Porta Pia i soldati forzarono l’ingresso del Quirinale, sede della corte di Pio IX. E fecero l’inventario del contenuto. Il re Vittorio Emanuele II vi morì ma non lo amava.
Si dice che in quelle stanze, che ora avranno un nuovo inquilino, circoli una maledizione
Vittorio Emanuele II lo considerava un brutto posto, infestato dai fantasmi dei papi. Per lui, il Quirinale era la «Ca’ ’d preive», la «Casa dei preti», in dialetto piemontese. E in fondo, ai suoi occhi era sempre rimasto tale: anche dopo che si era rassegnato ad abitarci. Lo sentiva non suo, nonostante la conquista di Roma il 20 settembre 1870, attraverso la breccia di Porta Pia, avesse come corollario simbolico quella del Palazzo di Montecavallo, come veniva chiamato allora. Certo, il passaggio di proprietà non era stato troppo consensuale. L’Italia laica era entrata per la prima volta dentro il Quirinale con un piede di porco. Dopo la vittoria dei piemontesi sulle forze papaline a Porta Pia, i soldati bussarono al portone sbarrato, ma nessuno aprì. Chiesero di avere accesso alle stanze occupate da secoli dai pontefici e dai prelati che volevano stare al fresco sul colle di Roma, circa 61 metri nel punto più alto. Ma il rifiuto fu netto e sdegnato.
Nessuno dei dignitari vaticani era presente, tanto meno Pio IX, rifugiatosi nel recinto delle Sacre Mura in segno di protesta per l’affronto. E allora, sotto gli occhi distaccati del notaio Pietro Fratocchi e di un drappello di bersaglieri del re di Savoia, due soldati forzarono il portone. Davanti al gruppetto si spalancò uno spettacolo diverso dall’architettura severa e maestosa del Quirinale di oggi: quello al quale aspirano molti, troppi candidati e candidate, consapevoli del grande potere e soprattutto del grande prestigio che la carica di presidente della Repubblica dà; e che in parte si spiega proprio perché nei secoli precedenti ha ospitato papi e quattro conclavi, poi qualche monarca italiano, e alla fine gli uomini-simbolo dell’unità repubblicana. Ma allora, il Palazzo di Montecavallo sfoggiava uno splendore impolverato e sgualcito dalla decadenza e dal conflitto tra Stato pontificio e nascente Stato italiano: un senso di desolazione accentuato dalle duemila stanze deserte, abbandonate in fretta e furia da una burocrazia ecclesiastica di celibi in fuga.
Sembrava quasi che quegli ambienti dovessero assecondare la maledizione che Pio IX e i suoi cardinali erano tentati di scagliare contro gli usurpatori sabaudi; e che questi ultimi avevano in qualche misura interiorizzato. Il 2 ottobre 1870, il cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato vaticano, aveva mandato una circolare a tutte le nunziature apostoliche sparse nel mondo. «Era riservato al governo di Vittorio Emanuele di commettere un attentato dal quale era rifuggito lo stesso Mazzini allorquando nel 1849 proclamava la sua repubblica...», si leggeva. Già, in quel momento per la Chiesa di Giovanni Mastai Ferretti, l’ultimo papa-re, era peggio il cattolico re d’Italia del laicissimo e repubblicano Giuseppe Mazzini. Ma la perquisizione del palazzo non si fermò. Il notaio Fratocchi, accompagnato da un piccolo codazzo di testimoni, aveva il compito di fare l’inventario degli oggetti che si trovavano in quelle stanze. E dopo il legalissimo scasso, entrò con circospezione e curiosità in quegli enormi spazi immersi nell’ombra e nel silenzio, assistito dal fabbro Filippo De Sactis e dal «Pubblico Perito Rigattiere» Francesco Balmas, con negozio in piazza dell’Apollinare 32.
Si lasciarono inghiottire dal buio di stanzoni che avevano le tende e le pareti con l’emblema della tiara e delle chiavi, simboli vaticani. C’erano dovunque crocifissi, raffigurazioni sacre, inginocchiatoi, altari. Furono gli ultimi visitatori, ha raccontato lo storico Michele D’Andrea, ex funzionario del Quirinale, a vedere affreschi a carattere religioso della scuola e dei maestri italiani del Seicento. I Savoia li avrebbero fatti ricoprire «per mitigare la connotazione curiale degli ambienti con cicli pittorici accademici... inneggianti ai trionfi laici dell’Italia appena unificata», ha scritto D’Andrea, cultore del Risorgimento, che si divertì a spulciare gli inventari dell’epoca e ne parlò su un numero ormai ingiallito della rivista «Il Cavaliere».
Il notaio Fratocchi annotò perfino «due sputarole in mogano», e cioè due sputacchiere, senza trascurare «due orinaliere del papa»: vasi da notte «a forma di pilastro giallo angelino e palissandro con tiratore e sportello ciascuna, con lastra sopra di rosso di levante...».
Era un edificio apparentemente sterminato, reso ancora più smisurato dal fatto che era spoglio e freddo. C’erano molti camini, certo, ma non un sistema di riscaldamento. Gli appartamenti erano arredati con una semplicità spartana, a parte quello del segretario di Stato, il cardinale Antonelli, con una ventina di stanze che davano su quello che oggi è il Cortile d’Onore; e quello del maggiordomo di Sua Santità, un altro cardinale, Bartolomeo Pacca. Perfino gli ambienti dove abitava Pio IX apparivano tutt’altro che sontuosi. Il notaio trascrisse con puntigliosità ogni oggetto anche della stanza da letto pontificia. Notò un giaciglio «a una piazza e mezzo», di ottone, «con un paglione di fieno pieno di foglie di granturco» come materasso. Nel 1940,
l’appartamento papale sarebbe diventato il «Salone Nuovo» del Quirinale monarchico. Ma la perlustrazione di settant’anni prima era lontana dall’essere conclusa: per inventariare tutti quei metri quadrati sarebbe stato necessario molto tempo.
E quando notaio, fabbro, rigattiere e codazzo arrivarono in quella che allora si chiamava Sala dei Precordii, affacciata proprio sulla piazza principale, ebbero una sorpresa da brivido: in quella stanza, dopo la morte, alcuni pontefici erano stati preparati per l’imbalsamazione. Per questo, quando furono sprangate dall’esterno le porte dell’appartamento di Pio IX, e messe ceralacca e biffe, il passaggio dai tre secoli di pontificati regali al regno d’Italia avvenne con l’eco di quella maledizione implicita di papa Mastai: una maledizione che da Vittorio Emanuele II sarebbe diventata leggendaria per molti decenni, fino ad allungarsi sui primi presidenti della Repubblica quasi per dannazione ereditaria. Oltre tutto, si diceva che una zingara avesse profetizzato al re dell’Unità che sarebbe morto proprio lì. Cosa che avvenne nel 1878, sebbene avesse abitato in quel palazzo poco tempo e in un’ala minore. Morì con tutti i conforti religiosi, ma affibbiando al Palazzo di Montecavallo una fama iettatoria difficile da dimenticare; e alimentata con malizia anche da chi sognava un giorno o l’altro di sfidarla.
Quando si chiedeva a Giulio Andreotti, pluri-presidente del Consiglio e pluriministro, e soprattutto uomo organico al Vaticano, se la leggenda avesse fondamento, rispondeva sornione: «Che esista una maledizione di Pio IX contro gli “usurpatori” del Quirinale si dice, sebbene manchino prove documentali». Poi, però, Andreotti elencava una serie di coincidenze che avrebbero spinto anche l’uomo o la donna meno scaramantici a fare gli scongiuri. «Quando Vittorio Emanuele II ci morì, nel 1878, aveva solo cinquantasette anni, mentre Pio IX, molto più anziano di lui, era ancora vivo. Comunque», aggiungeva Andreotti, «Vittorio Emanuele II ci credeva. Circa i successori: Umberto I morì assassinato, Vittorio Emanuele III dovette fuggire da Roma, Umberto II potè alloggiarci solo due anni, nel corso dei quali diede uno splendido ricevimento per i nuovi cardinali nominati da Pio XII...». E dopo il referendum tra monarchia e repubblica del 1946? Sembrò quasi che la maledizione fosse scagliata non più dai papi, ma dai Savoia spodestati ed esiliati.
La «Casa dei preti» all’inizio era percepita dai capi dello Stato come «Casa Savoia». E l’idea di andarci ad abitare creava all’inizio qualche resistenza, simile a quella che settant’anni prima bloccava i monarchi. Non a Enrico De Nicola, primo presidente ma provvisorio, che stava a Palazzo Giustiniani. Ma quando toccò a Luigi Einaudi, le resistenze aumentarono. «Io lì non ci dormo», avvertì. «Lo userò solo come ufficio». La missione di piegare le sue perplessità fu affidata, di nuovo, a Andreotti. «Venga almeno a dare un’occhiata», lo tentò. Poi, quando furono lì, Andreotti insistette con il presidente e la moglie Ida: «Almeno trascorra qui la prima notte». Subito apparve un commesso con la valigia e dentro il pigiama. A quel punto Einaudi non potè più scappare dai fantasmi di papi e monarchi. Il successore, Giovanni Gronchi, presidente dal 1955 al 1962, usò la presenza dei giganteschi corazzieri come scusa per non trasferirsi al Quirinale: almeno inizialmente. «I miei figli sono ancora ragazzi», diceva. «Non posso farli crescere in mezzo ai corazzieri».
Ma dalla maledizione Gronchi fu risparmiato, come Giuseppe Saragat e poi Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, per non parlare di Sergio Mattarella. «È noto invece», ricordava Andreotti, «che il settennato di Antonio Segni fu stroncato dalla paralisi, e quello di Giovanni Leone da una miserabile campagna...». Oggi, i demoni del Quirinale sembrano rinchiusi in qualche stanza nascosta. Ma nessuno sa se potrebbero riapparire di colpo.