Corriere della Sera - La Lettura
L’odissea di Sylvia
Ma, a ripensarci meglio, non è poi così strano che un libro pieno di bordelli, scritto da un autore che peraltro li frequentava, abbia beneficiato del sostegno convinto di alcune grandi donne: difficile non citare, insieme a Beach, Harriet Shaw Weaver, suffragetta inglese e prima vera mecenate del nostro, a cui garantirà una rendita perpetua, indispensabile già ai tempi del soggiorno triestino per consentirgli di interrompere la sofferta attività di insegnante. Non è poi così strano l’amore di queste prime femministe, perché la letteratura di Joyce è tutt’altro che maschilista, basti ricordare il comportamento ragionevole, se non addirittura comprensivo, di Leopold Bloom nei confronti della sua Penelope gioiosamente adultera, oppure l’episodio di «Circe», dove emerge un’inconscia androginia del protagonista, il quale, in balia di un’attività onirica disturbante almeno quanto liberatoria, sogna di diventare madre e partorisce otto bambini. Ma soprattutto è impossibile non considerare che Ulisse si conclude con un monologo di cinquanta pagine dove a rivendicare la propria centralità, in primo luogo nell’uso dei piaceri, è una donna. Penelope reincarnata in una sposa moderna, molto meno paziente che nella versione omerica. Penelope alias Molly, che emancipa il parlato dal testo scritto, che restituisce il primato all’oralità proprio nell’atto finale della scrittura. Molly che parla in prima persona delle forme del desiderio e dei suoi rapporti con gli uomini. Molly che sembra radicare il mondo al corpo femminile, la cui essenza si specchia nella natura e in una concezione panteista, circolare, ciclica, non soggetta alla legge del Padre, allergica al finalismo giudaico-cristiano (essendo la storia, come dice Stephen, l’incubo da cui risvegliarsi). Molly che sembra la fine e invece è l’inizio, ovvero il ricominciamento, la rinascita di tutti noi attraverso di lei.