Corriere della Sera - La Lettura
Più fatti, meno social per 200 milioni di lettori
C’è una comunità globale di persone, anglofone e laureate, «più simili l’una all’altra che ai loro concittadini»: Ben Smith, nel tentativo di rivoluzionare il giornalismo con una nuova piattaforma, punta a loro
Nel 2004, Ben Smith trascinò la politica newyorkese nell’era digitale con il suo blog «The Politicker» sull’«Observer». Nel 2011 sorprese molti lasciando un lavoro «serio» a «Politico» per diventare direttore di «BuzzFeed News», sito di liste, quiz e video «virali» ma vi portò articoli longform e giornalismo investigativo, incluso uno scoop sui rapporti tra la Lega e il Cremlino. Il passaggio al «New York Times», due anni fa, lo ha consacrato come una delle voci più ascoltate sulle sfide del giornalismo digitale. Ma già nella prima rubrica da media columnist chiarì di rimpiangere il periodo in cui sembrava possibile «re-immaginare» l’informazione. Ora si è dimesso, annunciando il lancio entro fine anno di un nuovo sito di informazione generalista e globale, con Justin Smith di «Bloomberg News» (nessuna parentela) che gestirà il lato business. Puntano a fare concorrenza nel mondo a «New York Times», Cnn, Bbc e diventare «numero 1» nel giro di dieci-vent’anni. Nome «solo di lavoro» del progetto: «Project Coda».
Perché ora? Che cosa è cambiato?
«È un nuovo momento di innovazione. A “BuzzFeed” ho imparato che c’è enorme appetito per contenuti di nuovo tipo in tutto il mondo, ma faticammo a costruire un business internazionale. Penso che resti un’opportunità. Ci sono 1.200 università in lingua inglese nel mondo, al di fuori di Usa e Gran Bretagna: è gente che vuole un giornalismo di alta qualità».
Puntate a un pubblico globale di 200 milioni di laureati che leggono in inglese «più simili l’uno all’altro che ai loro concittadini»: la futura classe dirigente. C’è chi vi accusa di elitismo.
«È un gruppo assai più ampio dell’élite che suggerisce. Sono persone istruite in inglese in numeri senza precedenti, curiose sulle notizie, ma anche molto legate ai propri Paesi e alle proprie regioni e che spesso non vengono servite bene dai me«Ci dia locali, sia in termini di giornalismo di qualità sia di innovazione tecnologica».
Perché lo definite un progetto «postsocial media»? Eviterete i social?
«Io adoro Twitter! Non voglio dire che ignoreremo i social nel raggiungere il pubblico, ma che i social hanno davvero avvelenato il modo in cui molte redazioni pensano a ciò che costituisce una storia e credo che il pubblico sia stanco di vedersi riproporre le proprie opinioni espresse sui social media, anziché nuovi fatti che sfidino potenzialmente quelle opinioni».
Carl Bernstein dice che, se facesse oggi lo scoop del Watergate, non avrebbe problemi a pubblicarlo, ma la differenza è il pubblico: a tanti lettori «soprattutto a destra ma anche a sinistra» non interessa la verità, ma la conferma delle loro idee. Lei pensa che ci sia una domanda di informazione imparziale?
«Il giornalismo indipendente è possibile: richiede umiltà. E comprensione del proprio ruolo sociale che, in fin dei conti, è di scoprire nuovi fatti e informare. Per me quel che il pubblico vuole davvero sono fatti e rispetto. La mia esperienza è che molti lettori apprezzano di vedere le proprie opinioni messe in discussione dalla realtà. Lo facevo nella mia rubrica».
Nella rubrica lei ha descritto anche le guerre culturali all’interno del «New York Times» che hanno portato alle dimissioni di due giornalisti. Ma non usa il termine «cancel culture». Perché?
«Preferisco i fatti agli hashtag di tendenza e slogan dei social media. Penso che sia quello che molti lettori vogliono».
Il «Nyt» ha perso la fiducia di alcuni lettori per via della sua crisi di identità, che lei ha descritto come dilemma tra «tenere il centro che sta sparendo in un Paese diviso» o diventare il quotidiano della sinistra (direzione in cui è spinto dalla nuova generazione di abbonati)?
sono molti fattori dietro la fiducia, penso che il “Times” abbia perso quella di alcuni lettori all’antica, ma è una situazione complessa. L’era Trump ha fatto danni enormi esasperando la polarizzazione, altri danni sono auto-inflitti. Ciò si aggiunge alla dinamica degli abbonamenti, ma è cambiata anche la cultura interna del “Times”. Non penso che il giornale cerchi cinicamente di adattarsi ai lettori: si trova davanti a queste pressioni. Si tratta di tensioni ancora irrisolte».
Cosa pensa dei giovani «woke», sensibili alle ingiustizie sociali, che però contestano l’idea stessa di obiettività?
«Credo nel valore di ripensare chi dà le notizie e rivelare al pubblico i diversi punti di vista, ma anche di rispettare l’intelligenza e i punti di vista di chi ti segue. Una testata interazionale ha bisogno di credenze comuni nella verità e nel giornalismo, ma anche di spazio per rispettose differenze di prospettive».
Quanto sarà cruciale la pubblicità per il suo sito, accanto agli abbonati?
«L’ascesa della pubblicità basata sui
(profilata in base ai dati dell’utente e gestita direttamente dalle aziende editoriali, ndr) ha un enorme impatto sul settore e nel lungo periodo dovrebbe essere un bene per l’informazione. È parte di un più ampio ritorno all’informazione di qualità, per il fatto stesso che sono entrate che vanno alle aziende editoriali anziché a Google e Facebook».
Dite che gli articoli di giornale non funzionano online. Perché? E che ne sarà del giornalismo «longform»?
«Nessuno legge oltre il terzo paragrafo della maggioranza dei pezzi! È una forma che ha molto senso se stampi un giornale a colonne strette e devi tagliare dal basso, assai meno senso su internet. Penso che i lunghi articoli bellissimi, vivaci e rivelatori siano incredibilmente importanti. Solo che devono meritarsi la lunghezza, non può essere una cosa scontata».