Corriere della Sera - La Lettura
Piccolo manuale di fantantropologia
Pochi temi si addicono a una storia dell’orrore più della maternità. Da qualsiasi prospettiva la si guardi, offre spunti eccezionali per parlare di angoscia, sangue e spavento, ma anche di possessione e deformazione dei corpi. Alla madre, poi, si attribuisce da subito un certo ascendente sul mondo dei mostri: qual è la prima cosa che urliamo, da bambini, se facciamo un brutto sogno, la formula magica per interromperlo? «Mamma, le è venuto da chiamare. Mamma, le è riuscito. [...] Mamma, ha urlato».
Il romanzo d’esordio di Gaia Giovagnoli, Cos’hai nel sangue, si apre così, con un incubo e un’invocazione inascoltata. A cui segue, per Caterina, la protagonista, un doppio risveglio: sua madre le rivela indirettamente di essere nata e cresciuta in un borgo semisconosciuto, Coragrotta, che ha «qualcosa sottoterra» e tradizioni tanto estreme da costringerla a fuggire giovanissima prima, cioè, di diventare la donna irosa, dura e vagamente sessuofobica che Caterina ha imparato a detestare. Le madri sono state figlie, e da figlie hanno reciso le radici, come a sua volta farà la loro prole, e così via. Ma se l’abiura di una madre è troppo drastica, può capitare che la figlia, per spirito di contraddizione, anziché cercare un proprio destino, si intestardisca a vivere quello che la prima ha abbandonato. E così, Caterina parte per Coragrotta. Dove — viene a sapere — le donne guidano la società grazie a «pratiche magiche, utili all’ordine comunitario e alla salute individuale», mentre gli uomini «sembrano affetti da un leggero ritardo nello sviluppo fisico [...] e presumibilmente cognitivo». Davvero sua madre è nata e cresciuta in un luogo così misterioso? E se sì, perché non gliene ha mai parlato?
Lo stile di Giovagnoli è asciutto, calibrato, sorprendentemente privo di ingenuità. Deve alla poesia — fino a ora, vera patria espressiva dell’autrice — il potere evocativo, e a buone letture gotiche e fantastiche la ricetta per imparare a dosarlo, trasformandolo in qualcosa di avvincente. Certo, non tutti i dialoghi mantengono lo stesso standard di verosimiglianza, e qua e là servono, in maniera abbastanza scoperta, a oliare l’ingranaggio dell’intreccio. Ma Giovagnoli dimostra ugualmente un buon controllo sul testo e sulle proprie idee, con la ricercatezza della prosa messa da parte per concentrarsi sull’evocazione di immagini perturbanti. E in effetti, Cos’hai nel sangue è una specie di album di intuizioni fantantropologiche — costumi, creature, paesaggi, riti — tenute insieme in maniera credibile e senza punti morti. Giovagnoli scrive per descrivere, eppure la sua narrazione non