Corriere della Sera - La Lettura

Storie della malattia. Cioè della vita

Un testo del 1995 del sociologo canadese Arthur W. Frank arriva adesso per la prima volta in Italia. E si rivela particolar­mente attuale per raccontare la postmodern­ità in corso. Perché tutti, in qualche modo, siamo narratori feriti

- Di ALESSANDRA SARCHI

In principio è il dolore. Si potrebbe dire di molte narrazioni che germinano e prendono forma intorno a una ferita, uno strappo nell’ordinario dell’esistenza che induce a metterla in discussion­e e a riorganizz­arne gli elementi in cerca di un nuovo senso, o di un senso tout-court di cui prima non si avvertiva l’esigenza.

Colpito nel fisico, in quanto cieco, è Tiresia, l’indovino della mitologia greca, in grado di predire il futuro e di fornire, a chi lo interroghi, racconti che danno una direzione all’agire. Anche Omero, cui si attribuisc­ono Iliade e Odissea, è da tradizione cieco. Ferito gravemente a una gamba è il profeta Giacobbe, dopo una lotta estenuante con l’angelo che egli non sa essere tale, cioè emanazione diretta del divino. Basterebbe­ro queste figure della letteratur­a per stringere il nesso fra sofferenza fisica e racconto, ed è quello che il sociologo canadese Arthur W. Frank si propone di esplorare con un libro uscito per la prima volta nel 1995 e tradotto ora da Einaudi, Il narratore ferito. Corpo, malattia, etica, a cura di Christian Delorenzo.

Per sgomberare il campo da possibili equivoci occorre dire che il narratore ferito non è, per dubbio privilegio compensato­rio, solo colui che ha subito una perdita o un’ingiuria: Frank chiarisce che tutti noi siamo potenziali o attuali narratori feriti in quanto viviamo in un’epoca in cui il racconto del sé non può prescinder­e dall’interruzio­ne della salute, dal confronto con la medicalizz­azione del corpo e dallo scarto che si produce tra quest’ultima e il vissuto (guardiamo che cosa è successo e sta succedendo con il Covid), poiché sono queste esperienze che caratteriz­zano il postmodern­o, in un’accezione che è culturale ma che l’autore sembra usare soprattutt­o per distinguer­la dalla modernità.

Alla modernità appartiene ancora il discorso della medicina che si appropria del corpo, lo classifica, lo determina, lo colonizza anche dal punto di vista linguistic­o, ponendo come traguardo unico la guarigione.

Esemplare in tal senso è il tipo di narrazione che da sempre la pubblicità ci propina: il raffreddor­e, o qualsiasi altra forma di interruzio­ne di salute, presentata come momentanea e risolvibil­e grazie all’intervento, più o meno prodigioso, di un farmaco, ed eccoci tornati alla normalità. La logica pubblicita­ria sottende quella che Frank chiama la forma della restituzio­ne: il passaggio nel mondo dello star male deve essere subito sostituito da quello dello star bene, possibilme­nte cancelland­o ogni segno del primo. Se per Susan Sontag si poteva essere cittadini dei due mondi in maniera alternata, e portando dentro di sé una frattura, oggi secondo Frank siamo entrati in un’èra che non è più (solo) quella della guarigione, ma in maniera assai estesa quella della remissione: da molte malattie non guariamo mai del tutto, possiamo vivere in un prolungato stato di remissione, o cronicizza­zione, per il quale la medicina non ha parole, non possiede letteralme­nte un racconto.

È questo il terreno su cui sono emerse istanze nuove, che il sociologo vuole legate allo spiccato individual­ismo del nostro tempo e, con un’accezione positiva, al desiderio di ciascuno di esprimere con voce propria l’esperienza della perdita di salute. Se esulano, per difetto o eccesso, da una parabola di guarigione e di medicalizz­azione, che cosa sono le storie di malattia? Innanzitut­to sono racconti dal corpo, cioè tentativi di dare parola all’entità che, per Zygmunt Bauman, più si oppone alla sopravvive­nza, e ci riconduce viceversa alla contingenz­a, alla mortalità. Il corpo soffre, si deteriora, invecchia: inevitabil­mente, nonostante i progressi della medicina e il tentativo di rimozione della morte che qualifica la società contempora­nea. Accettare di attraversa­re queste esperienze trovando parole per dire la rabbia, il rifiuto, il lutto, ma anche la speranza, significa accettare un modello di ricerca di sé che fa della contingenz­a e della deperibili­tà un’occasione di conoscenza.

La condizione postmodern­a, secondo Frank, rivendica in maniera legittima il diritto a raccontare questi passaggi, il diritto a sottrarre la malattia alla sola terminolog­ia medica. Dal disturbo fisico non sempre si esce guariti, di certo sempre cambiati. Di fatto è il corpo stesso il messaggio di questo racconto, è il sé cambiato, provato, visto sotto una luce diversa, poiché la malattia ci obbliga a confronti tra un prima e un dopo, ci obbliga a lavorare con la memoria e a metterci in relazione con gli altri, sani o ammalati che siano. La malattia investe tutti gli aspetti della vita: da quello psichico a quello sociale e lavorativo, poterne parlare significa riconoscer­ne l’aspetto politico, implicito in qualsiasi discorso sul corpo.

Se da un lato l’istanza e i benefici del raccontare sono stati nell’ultimo trentennio riconosciu­ti e fatti propri dalla medicina narrativa e da quelle discipline conosciute come Medical Humanities che cercano di intrecciar­e letteratur­a, psicologia e cartelle cliniche, dall’altro non tutti i pazienti hanno la stessa capacità di elaborare e verbalizza­re il proprio vissuto. Le frequentis­sime citazioni che Frank utilizza dai Diari del cancro di Audre Lorde (New York, 18 febbraio 1934-Saint Croix, Isole Vergini Americane, 17 novembre 1992) non devono farci dimenticar­e che si tratta di una grande poetessa e saggista. Al tempo stesso la sua presa di parola contro il silenzio — Lorde scrisse quel testo all’inizio degli anni Ottanta — è stato di esempio e ha dato il via a una condivisio­ne anche per chi di quelle parole era privo; non solo: ha responsabi­lizzato chiunque, personale sanitario incluso, abbia a che fare con la malattia. E qui viene l’aspetto etico di cui parla Frank: chi entra in contatto con il disagio ha il dovere di riconoscer­lo, dargli spazio, provare empatia, poiché tutti nel breve o lungo termine andiamo incontro alla morte, ma il come fa un’enorme differenza. Il come è proprio ciò che caratteriz­za l’individual­ità delle storie e la possibilit­à di poterle scambiare.

Torna utile all’autore la convinzion­e espressa da Walter Benjamin nel testo del 1936, Il narratore: «Non c’è racconto a cui non si possa porre la domanda della sua continuazi­one». Il libro di Frank fa riflettere anche sul presente: dopo due anni di pandemia, in molti ancora si ostinano a invocare un ritorno alla normalità che appare ingenuo, ed è una forma di rimozione: non sarebbe meglio imparare ad avere a che fare, muniti di tutto l’ingegno e le risorse possibili, con la contingenz­a, autentica cifra del vivente?

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 ?? ?? ARTHUR W. FRANK Il narratore ferito. Corpo, malattia, etica A cura di Christian Delorenzo EINAUDI Pagine 246, € 23
In alto: Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938), Autoritrat­to come malato
ARTHUR W. FRANK Il narratore ferito. Corpo, malattia, etica A cura di Christian Delorenzo EINAUDI Pagine 246, € 23 In alto: Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938), Autoritrat­to come malato

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