Corriere della Sera - La Lettura
La montagna romantica
C’è geografia e geografia. E quella dell’arte non è meno precisa, anzi: restituisce l’anima dei luoghi. È una mappa la mostra curata da Marco Goldin a Padova: opere dalla collezione di Oskar Reinhart svelano la Svizzera, prima tappa di un progetto europeo
Tanto per cominciare, una piccola lezione di geografia potremmo dire applicata all’arte. La mappa che apre la nuova mostra curata da Marco Goldin per
il Centro San Gaetano di Padova (Dai romantici a Segantini. Storie di lune e poi di sguardi e montagne. Capolavori dalla
Fondazione Oskar Reinhart, fino al 5 giugno) racconta una Confederazione svizzera diversa da quella di un classico atlante, ma piuttosto quella dei luoghi amati (e dipinti) dai pittori, in particolare da romantici e post-romantici. E, dunque, ecco Mont Salève, Evordes, Dents Blanches, Grand Muveran, Langenthal, Mürren, Jungfrau per Ferdinand Hodler; Coinsins, Mont d’Orge e Monte Bianco per Barthélemy Menn; Geltenschuss, Lütschental, il ghiacciaio Grindelwald per Caspar Wolf; Seelisberg e Wetterhorn per Alexandre Calame; Richisau per Rudolf Koller; Ponte del Diavolo per Carl Blechen; Maloja, Savognino, Piz Toissa, Piz Curver per Giovanni Segantini. D’altra parte l’arte è connaturata alla storia stessa della Svizzera: basterebbe pensare alla Kronenhalle di Zurigo, luogo d’incontro di artisti dove ancora oggi si pasteggia al cospetto di opere di Marc Chagall, Pablo Picasso, Joan Miró. O alla vivacità della Fondazione Beyeler di Basilea (che peraltro dedica una grandiosa monografica a Georgia O’Keeffe).
La mostra padovana propone però un percorso meno contemporaneo. Trasformando in realtà la filosofia del mecenate svizzero Oskar Reinhart (1885-1965), il progetto espositivo poggia su 75 opere dalla sua collezione, compresa nell’omonima fondazione oggi parte della rete del Kunst Museum di Winterthur, uno dei poli artistici di maggiore interesse della Confederazione. L’idea di Reinhart era infatti questa: essere troppo prossimi alla contemporaneità non consente di vedere con la dovuta chiarezza le opere e dunque non è consigliato acquistarle. Posizione perfettamente espressa in una lettera indirizzata alla Galerie Abels di Colonia nel 1935: «Per evitare un’inutile corrispondenza tra noi, vi pregherei di non offrirmi ulteriormente quadri di pittori tedeschi viventi». In un’altra lettera, inviata a Dresda a Will Grohmann il 10 gennaio 1934, negava il suo consenso a sostenere un’edizione dei disegni di Paul Klee «dal momento che la sua arte è distante da me». E nel 1929 aveva scritto al consiglio del Kunstverein di Winterthur: «Il nostro pubblico, senza alcun dubbio, trarrebbe maggiore godimento da un paesaggio di Zünd che da una serie dei nostri quadri di artisti stranieri».
Giocando felicemente sull’effetto (cominciando dall’illuminazione e dalle pareti che ingigantiscono particolari dei dipinti) la mostra si propone di fare conoscere il punto di partenza dell’arte in Europa a inizio Ottocento, ovvero il Romanticismo. Con Germania e Svizzera al centro e con una piccolissima appendice (due quadri) dedicata all’Austria: nazioni che hanno condiviso, almeno per una parte del secolo, intenzioni simili so
prattutto sul versante del realismo e della rappresentazione della natura. Una Svizzera che, in virtù del lavoro di artisti come Hodler o Segantini (giunto dall’Italia), si presenta estremamente aperta verso il nuovo.
Sono tante le storie che si intrecciano nella mostra. Quella di un Goethe che colleziona le opere di Georg Friedrich Kersting (Uomo che legge alla luce di una lampada, 1814), autore riportato all’attenzione nella mostra del 1906 a Berlino a cura di Julius Meier-Graefe e dedicata all’arte dell’Ottocento in Germania, un’esposizione che avrebbe di fatto segnato la riscoperta del Romanticismo e di Friedrich (di Kersting, finito poi a dirigere una fabbrica di ceramiche, oggi si conoscono non più di una dozzina di quadri). Quella di un Corot che fa da maestro-ispiratore dei pittori svizzeri di lingua francese come Alexandre Calame
(Rocce vicino a Seelisberg, 1861) e Barthélemy Menn (Il monte d’Orge vicino a
Sion, 1860).
E ancora: la fondamentale influenza di Courbet sui pittori di lingua tedesca, sia in Svizzera (Robert Zünd, Posto al sole,
1856; Rudolf Koller, Il Richisau, 1858) sia in Germania (Wilhelm Leibl, il Ritratto di
Lina Kirchdorffer, 1871; Hans Thoma, La
madre dell’artista nella stanza, 1871). E quel Paesaggio a Virginia Dale (1866) di Frank Buchser, dipinto in Virginia nel corso del suo soggiorno di cinque anni in America (1866-1871), un soggiorno nato dall’entusiasmo per la vittoria degli Stati del Nord nella Guerra di Secessione (quando studiava a Roma, all’Accademia di San Luca, Buchser per finanziarsi i corsi si fece arruolare tra le Guardie svizzere del Papa).
A farla da protagonisti sono Caspar David Friedrich (il suo Le bianche scogliere
di Rügen del 1818 è uno dei fondamenti riconosciuti del gusto romantico) e Ferdinand Hodler, a cui sono dedicate le due ultime sale dell’esposizione: la prima con le montagne (Il Wetterhorn, 1912), le stesse tra le quali Thomas Mann ambienta, in un sanatorio a Davos, la sua Montagna
magica; la seconda con una delle tre versioni dello Sguardo verso l’infinito
(1916). Ma di Hodler la mostra sottolinea anche la modernità dei ritratti che guardano a Degas (La convalescente, 1880 circa) e anticipano Munch e Picasso (Il calzolaio
Friedrich Neukomm, 1878).
Più che i personaggi è la natura a dominare, soprattutto con le sue vette, i suoi ghiacciai, le sue foreste, i suoi laghi: dal sublime preromantico di Caspar Wolf (La veduta del Bänisegg, 1774) ai quadri «divisionisti» di Giacomo Segantini (Paesaggio alpino con donna all’abbeveratoio, 1893 circa) contrassegnati da quello che Goldin definisce «un segno di panteismo e di eterno ritorno». Tra le riscoperte, Giovanni Giacometti (amico di Segantini e papà di Alberto) con la sua Vecchia (1912), al quale è dedicata un’intera parete, e Cunio Amet, autore di un modernissimo Sole d’autunno (1913).
Ispirato dalle teorie sull’arte di Julius Meier-Graefe — soprattutto dalla sua
Storia dell’arte moderna, pubblicata per la prima volta nel 1904 — e dalla grande esposizione di Berlino nel 1906, in cui lo stesso Meier-Graefe e gli altri due curatori, Hugo von Tschudi e Alfred Lichtwark, avevano riscoperto la poesia dipinta dei romantici e il sentimento verso la natura dei realisti, Reinhart indirizzò la sua collezione. Ma quella definizione del paesaggio sarebbe servita anche a creare il senso di una nuova identità nazionale, mentre ai pittori tocca il compito di descrivere spazi naturali adesso diventati patrimonio del popolo, superando tutte le sovrastrutture legate alla leggenda o alla religione.
La mostra di Padova rientra dunque in un più vasto progetto culturale, spalmato in più anni, dal titolo Geografie dell’Europa
e destinato a definire «la trama della pittura in Europa lungo tutto il corso del XIX e parte del XX secolo». Ideato e strutturato da Goldin, il progetto si articola in sette mostre destinate a mettere in risalto le specificità territoriali e le connessioni tra le singole specificità. Con l’Italia a fare molto spesso da modello: per Anselm Feuerbach (Ruscello di montagna, 1855), per Hans von Marées (San Martino e il
mendicante, 1896-1879) e soprattutto per il grandioso Arnold Böcklin (Pan nel canneto, 1856-1857), anche loro tra le star dell’esposizione con quell’idea di un paesaggio romanticamente ispirato alla classicità del mito.