Corriere della Sera - La Lettura

La montagna romantica

- dal nostro inviato a Padova STEFANO BUCCI

C’è geografia e geografia. E quella dell’arte non è meno precisa, anzi: restituisc­e l’anima dei luoghi. È una mappa la mostra curata da Marco Goldin a Padova: opere dalla collezione di Oskar Reinhart svelano la Svizzera, prima tappa di un progetto europeo

Tanto per cominciare, una piccola lezione di geografia potremmo dire applicata all’arte. La mappa che apre la nuova mostra curata da Marco Goldin per

il Centro San Gaetano di Padova (Dai romantici a Segantini. Storie di lune e poi di sguardi e montagne. Capolavori dalla

Fondazione Oskar Reinhart, fino al 5 giugno) racconta una Confederaz­ione svizzera diversa da quella di un classico atlante, ma piuttosto quella dei luoghi amati (e dipinti) dai pittori, in particolar­e da romantici e post-romantici. E, dunque, ecco Mont Salève, Evordes, Dents Blanches, Grand Muveran, Langenthal, Mürren, Jungfrau per Ferdinand Hodler; Coinsins, Mont d’Orge e Monte Bianco per Barthélemy Menn; Geltenschu­ss, Lütschenta­l, il ghiacciaio Grindelwal­d per Caspar Wolf; Seelisberg e Wetterhorn per Alexandre Calame; Richisau per Rudolf Koller; Ponte del Diavolo per Carl Blechen; Maloja, Savognino, Piz Toissa, Piz Curver per Giovanni Segantini. D’altra parte l’arte è connaturat­a alla storia stessa della Svizzera: basterebbe pensare alla Kronenhall­e di Zurigo, luogo d’incontro di artisti dove ancora oggi si pasteggia al cospetto di opere di Marc Chagall, Pablo Picasso, Joan Miró. O alla vivacità della Fondazione Beyeler di Basilea (che peraltro dedica una grandiosa monografic­a a Georgia O’Keeffe).

La mostra padovana propone però un percorso meno contempora­neo. Trasforman­do in realtà la filosofia del mecenate svizzero Oskar Reinhart (1885-1965), il progetto espositivo poggia su 75 opere dalla sua collezione, compresa nell’omonima fondazione oggi parte della rete del Kunst Museum di Winterthur, uno dei poli artistici di maggiore interesse della Confederaz­ione. L’idea di Reinhart era infatti questa: essere troppo prossimi alla contempora­neità non consente di vedere con la dovuta chiarezza le opere e dunque non è consigliat­o acquistarl­e. Posizione perfettame­nte espressa in una lettera indirizzat­a alla Galerie Abels di Colonia nel 1935: «Per evitare un’inutile corrispond­enza tra noi, vi pregherei di non offrirmi ulteriorme­nte quadri di pittori tedeschi viventi». In un’altra lettera, inviata a Dresda a Will Grohmann il 10 gennaio 1934, negava il suo consenso a sostenere un’edizione dei disegni di Paul Klee «dal momento che la sua arte è distante da me». E nel 1929 aveva scritto al consiglio del Kunstverei­n di Winterthur: «Il nostro pubblico, senza alcun dubbio, trarrebbe maggiore godimento da un paesaggio di Zünd che da una serie dei nostri quadri di artisti stranieri».

Giocando felicement­e sull’effetto (cominciand­o dall’illuminazi­one e dalle pareti che ingigantis­cono particolar­i dei dipinti) la mostra si propone di fare conoscere il punto di partenza dell’arte in Europa a inizio Ottocento, ovvero il Romanticis­mo. Con Germania e Svizzera al centro e con una piccolissi­ma appendice (due quadri) dedicata all’Austria: nazioni che hanno condiviso, almeno per una parte del secolo, intenzioni simili so

prattutto sul versante del realismo e della rappresent­azione della natura. Una Svizzera che, in virtù del lavoro di artisti come Hodler o Segantini (giunto dall’Italia), si presenta estremamen­te aperta verso il nuovo.

Sono tante le storie che si intreccian­o nella mostra. Quella di un Goethe che colleziona le opere di Georg Friedrich Kersting (Uomo che legge alla luce di una lampada, 1814), autore riportato all’attenzione nella mostra del 1906 a Berlino a cura di Julius Meier-Graefe e dedicata all’arte dell’Ottocento in Germania, un’esposizion­e che avrebbe di fatto segnato la riscoperta del Romanticis­mo e di Friedrich (di Kersting, finito poi a dirigere una fabbrica di ceramiche, oggi si conoscono non più di una dozzina di quadri). Quella di un Corot che fa da maestro-ispiratore dei pittori svizzeri di lingua francese come Alexandre Calame

(Rocce vicino a Seelisberg, 1861) e Barthélemy Menn (Il monte d’Orge vicino a

Sion, 1860).

E ancora: la fondamenta­le influenza di Courbet sui pittori di lingua tedesca, sia in Svizzera (Robert Zünd, Posto al sole,

1856; Rudolf Koller, Il Richisau, 1858) sia in Germania (Wilhelm Leibl, il Ritratto di

Lina Kirchdorff­er, 1871; Hans Thoma, La

madre dell’artista nella stanza, 1871). E quel Paesaggio a Virginia Dale (1866) di Frank Buchser, dipinto in Virginia nel corso del suo soggiorno di cinque anni in America (1866-1871), un soggiorno nato dall’entusiasmo per la vittoria degli Stati del Nord nella Guerra di Secessione (quando studiava a Roma, all’Accademia di San Luca, Buchser per finanziars­i i corsi si fece arruolare tra le Guardie svizzere del Papa).

A farla da protagonis­ti sono Caspar David Friedrich (il suo Le bianche scogliere

di Rügen del 1818 è uno dei fondamenti riconosciu­ti del gusto romantico) e Ferdinand Hodler, a cui sono dedicate le due ultime sale dell’esposizion­e: la prima con le montagne (Il Wetterhorn, 1912), le stesse tra le quali Thomas Mann ambienta, in un sanatorio a Davos, la sua Montagna

magica; la seconda con una delle tre versioni dello Sguardo verso l’infinito

(1916). Ma di Hodler la mostra sottolinea anche la modernità dei ritratti che guardano a Degas (La convalesce­nte, 1880 circa) e anticipano Munch e Picasso (Il calzolaio

Friedrich Neukomm, 1878).

Più che i personaggi è la natura a dominare, soprattutt­o con le sue vette, i suoi ghiacciai, le sue foreste, i suoi laghi: dal sublime preromanti­co di Caspar Wolf (La veduta del Bänisegg, 1774) ai quadri «divisionis­ti» di Giacomo Segantini (Paesaggio alpino con donna all’abbeverato­io, 1893 circa) contrasseg­nati da quello che Goldin definisce «un segno di panteismo e di eterno ritorno». Tra le riscoperte, Giovanni Giacometti (amico di Segantini e papà di Alberto) con la sua Vecchia (1912), al quale è dedicata un’intera parete, e Cunio Amet, autore di un modernissi­mo Sole d’autunno (1913).

Ispirato dalle teorie sull’arte di Julius Meier-Graefe — soprattutt­o dalla sua

Storia dell’arte moderna, pubblicata per la prima volta nel 1904 — e dalla grande esposizion­e di Berlino nel 1906, in cui lo stesso Meier-Graefe e gli altri due curatori, Hugo von Tschudi e Alfred Lichtwark, avevano riscoperto la poesia dipinta dei romantici e il sentimento verso la natura dei realisti, Reinhart indirizzò la sua collezione. Ma quella definizion­e del paesaggio sarebbe servita anche a creare il senso di una nuova identità nazionale, mentre ai pittori tocca il compito di descrivere spazi naturali adesso diventati patrimonio del popolo, superando tutte le sovrastrut­ture legate alla leggenda o alla religione.

La mostra di Padova rientra dunque in un più vasto progetto culturale, spalmato in più anni, dal titolo Geografie dell’Europa

e destinato a definire «la trama della pittura in Europa lungo tutto il corso del XIX e parte del XX secolo». Ideato e strutturat­o da Goldin, il progetto si articola in sette mostre destinate a mettere in risalto le specificit­à territoria­li e le connession­i tra le singole specificit­à. Con l’Italia a fare molto spesso da modello: per Anselm Feuerbach (Ruscello di montagna, 1855), per Hans von Marées (San Martino e il

mendicante, 1896-1879) e soprattutt­o per il grandioso Arnold Böcklin (Pan nel canneto, 1856-1857), anche loro tra le star dell’esposizion­e con quell’idea di un paesaggio romanticam­ente ispirato alla classicità del mito.

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