Corriere della Sera - La Lettura
La mitologia dell’Oriente
Un viaggio sulla costruzione di un immaginario collettivo, sul potere della fotografia in questa costruzione, sullo sguardo colonizzatore. L’itinerario di Arturo Carlo Quintavalle
va dalla Grecia all’Egitto, da Napoleone alla fine dell’Impero ottomano. Qui si compie l’altro Grand Tour: un saggio lo ripercorre tappa per tappa
«Imiti mi dicono dove mi trovo», ricorda Joseph Campbell, grande studioso di mitologie e religioni. Ma i miti ci dicono anche dove dobbiamo andare: è quello che è accaduto nell’Ottocento e agli inizi Novecento (ma d’altronde non succede ancora oggi?) dove le traiettorie della letteratura, e in genere della cultura, hanno segnato nuovi percorsi, disegnato inaspettate esperienze, tracciato ignote geografie dell’anima. La mitologia dell’Oriente è nata proprio così, prima grazie alla parola, poi attraverso l’immagine.
Lo sottolinea Arturo Carlo Quintavalle nel suo ponderoso volume Viaggi a
Oriente. Ma il nuovo volume del grande storico dell’arte (accademico dei Lincei, autorevole medievista ed esperto dei sistemi della comunicazione) non è solo un accurato saggio sulla mitologia dell’Oriente, ma è un viaggio sul potere delle immagini come costruzione di una coscienza collettiva. Non a caso, il volume ha un sottotitolo esplicativo che ben inquadra la natura del libro: Fotografia, disegno, racconto, proprio per costruire una chiave d’accesso utile per comprendere come si sia affermato il «desiderio» d’Oriente nella cultura occidentale. Per dirla tutta, Quintavalle, come nessuno prima di lui ha fatto, ha scientificamente analizzato l’iconografia della rappresentazione ottocentesca dell’Oriente per arrivare a una conclusione precisa e in fondo anche amara. Il nostro sguardo sull’Oriente non è stato asettico, privo di condizionamenti. È uno sguardo politico: lo sguardo dei colonizzatori.
Certo, siamo tutti rimasti incantati dai racconti di Shahrazad, e da Le mille e una
notte, e dagli scritti, magari meno popolari, dei grandi narratori francesi — François-René de Chateaubriand, Victor Hugo, Théophile Gautier, Gérard de Nerval, Pierre Loti hanno disegnato la mitologia dell’Oriente come un altrove da esplorare e conoscere, se non da vivere con passione e con il desiderio di una ancestrale sessualità. Si sviluppa così nel volume di Quintavalle, l’idea di un corale racconto letterario e iconografico che ha narrato l’Oriente dall’Egitto alla Siria, dalla Palestina alla Grecia, in particolare nei luoghi di nascita dei tre monoteismi.
Il discorso procede proprio da un’immagine recuperata da Quintavalle (con la collaborazione di Claudia Cavatorta e Paolo Barbaro che hanno catalogato le opere) alla Library of Congress di Washington. Un dipinto di David Roberts che ci mostra la spianata di Giza, in Egitto, all’ombra delle piramidi nel 1838: vediamo la testa della sfinge ancora sommersa dalla sabbia e attorniata da un gruppo di esploratori mollemente distesi accanto a cammelli. Per dare più forza scenografica, tutto è illuminato dalla suggestiva luce del tramonto. L’immaginario si costruisce anche così. D’altronde, si sa, tutto è cominciato con Napoleone che ha portato in Europa, dopo la sua spedizioto
ne tra le piramidi nel 1798-1801 un vero fenomeno di costume: l’egittomania. Napoleone porta con sé 200 scienziati e getta le basi di una prima comprensione antropologica dell’Egitto fondata su un’analisi del territorio che va dalla zoologia alla botanica sul modello dall’ En ci cl opé di e. E se prima il Grand tour aveva come obiettivo la Grecia e l’Italia (e tutta la cultura dal Rinascimento), nasce qui l’idea di un altro viaggio: quello alla scoperta dell’Egitto, delle piramidi, della sfinge, degli obelischi, dei templi. La mitologia dell’Egitto, la sua narrazione nascono così.
Quintavalle costruisce un libro rigoroso (a tratti anche appassionante) avendo ben chiaro il modello che lo ha guidato da sempre, cioè lo studio delle forme della cultura. A cominciare dal dialogo con la tradizione letteraria, ma soprattutto l’analisi puntuale delle immagini e del loro valore simbolico. La forza innovativa del volume sta infatti proprio in questo: l’autore propone una decisa traccia interpretativa, individua il senso del «raccon
di viaggio» scandagliando la narrazione iconografica, tenendo conto dei limiti tecnici e dei modelli estetici.
Sfogliando foto dopo foto, emerge che buona parte dei Viaggi a Oriente sono rappresentazioni di finzione, o perlomeno pensati per un racconto funzionale a un modello condiviso e necessario. Un esempio viene da una foto esemplificativa che troviamo proprio nelle prime pagine: vediamo una donna ritratta senza velo davanti a uno specchio. I vestiti sono orientali, ma la postura richiama l’iconografia di una classica venere cinquecentesca. C’è un sotteso e costante erotismo. La fotografia, nella sua perenne ambiguità, qui propone una donna (occidentale) ritratta come fosse un’odalisca. E poi i fondi delle foto, disegnati a Parigi, collati in studi improvvisati dove il tempo e lo spazio sono completamente inventati: così, ecco una donna siriana a volto scoperto (quindi anch’essa occidentale) su un mulo, e poi un affascinante derviscio, a torso nudo, capelli lunghissimi, piedi
nudi, un bastone in mano. Il mito del buon selvaggio in una sola immagine. Così le vicende dei sultani e dei visir, degli harem, delle concubine, delle odalische o dei cacciatori (una foto ritrae l’improbabile cattura di un coccodrillo) fanno sempre da ideale sfondo al racconto che l’Occidente propone.
Certo, il libro mette in evidenza la funzione documentaristica dei reportage: quella di farci capire l’effetto del tempo sugli scavi archeologici e sulla grandezza (dell’Occidente) nel rivelare i tesori nascosti. Una foto di Maxime Du Camp (accompagnò Gustave Flaubert) è meravigliosa: siamo di fronte a una gigantesca statua di Abu Simbel, quasi completamente ricoperta di sabbia. Un uomo è seduto sulla testa. Ci sono una qualità formale e un’accuratezza della composizione davvero eccezionali.
Il libro è scandito in due grandi sezioni: la prima è solo dedicata alle immagini, dipinti e fotografie di resti archeologici, di piramidi, di dettagli architettonici, di paesaggi spogli e con qualche rara figura umana. La seconda raccoglie undici capitoli di fitto testo unito a una serie di piccole ma significative fotografie. Il volume già nel primo capitolo propone il dialogo con la tradizione letteraria: è questa, davvero, la chiave dell’intero libro, mentre proprio nell’ultimo capitolo l’autore analizza le strutture della narrazione. Forse vale la pena sottolineare come proprio questo approccio chiarisce il metodo di analisi di Quintavalle, che anche quando scrive di fotografia mantiene l’approccio filologico da severo e attento storico d’arte.
Va ricordata infatti una cosa: in Italia gli studi sulla fotografia dell’Ottocento salvo poche eccezioni come quelle di Italo Zannier (che vi ha dedicato approfonditi studi e corsi universitari) o di Marina Miraglia, Lamberto Vitali e Monica Maffioli, sono finora molto limitati. Va ag
giunto che in Italia, rispetto alle ricerche in Francia, negli Stati Uniti e in Inghilterra, manca un discorso d’insieme sulla fotografia delle origini. Questo libro rappresenta un contributo importante: per gli studiosi e per un pubblico più vasto.
Immaginate che cosa significava realizzare immagini con enormi e pesanti macchine, usando solo grandi lastre di vetro? E poi, in mezzo al deserto! Fotografie che imponevano anche due ore di esposizione... Tra queste immagini ingiallite al collodio o all’albumina, pensando ai fotografi e alle loro lastre sviluppate in precarie tende in mezzo al deserto, forse non resta che riflettere su come il potere della fotografia (dal giorno della sua invenzione nel 1839) resti sempre lo stesso. Quello di testimoniare, certo. Ma anche di non raccontare mai una verità assoluta, ma solo una visione sempre soggettiva. La fotografia, sin dai suoi esordi (e questo libro lo dichiara), influisce sul modo di vedere e capire il mondo.